I miti di Cernunnos

 

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A Dchoii Doodles     

Prefazione

A cura di Ferdinand F. Blacks

 

I quattro cicli di Cernunnos furono scoperti nel XIX secolo. Essi furono studiati e tradotti da uno dei massimi studiosi di mitologia celtica, Dick H. Hardcock, che li fece conoscere ad alcuni altri studiosi, ma ritenne impensabile una pubblicazione integrale. Perciò ne curò, insieme ai colleghi Charles B. Hairynuts e Oliver C. Goodarse, una versione espurgata e molto incompleta. Solo nel 1957, oltre un secolo dopo il loro ritrovamento, la casa editrice universitaria Oxford Press ne pubblicò l’edizione completa in gaelico e nel 1978 comparve la prima traduzione integrale in inglese.

In base alle caratteristiche linguistiche, possiamo affermare con sicurezza che il testo risale al V o al VI secolo d.C., anche se la materia narrativa ha origine più antica. I cicli furono trascritti solo in epoca successiva e la copia giunta fino a noi è del XIV secolo.

 

Il viaggio

 

I – Esus

 

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Un ciclo si è concluso, il mondo divino si è rinnovato e i nuovi dei hanno preso il posto dei loro progenitori.

Solo Esus, che dà fertilità alla terra e agli animali, rimane saldo al suo posto. Egli non ha figli, non sono i bianchi seni delle ninfe ad attrarlo, ma i forti fianchi dei giovani maschi. Il suo seme feconda la terra, ma non genera una discendenza.

Esus è un dio feroce e sotto il suo giogo la stirpe degli uomini soffre. Esus non si cura degli umani, fa crescere i raccolti rigogliosi o li devasta seguendo il capriccio di un momento, fa strage degli animali selvatici di cui si nutrono i cacciatori o li moltiplica, senz’altra ragione che il suo umore. Invano gli uomini allestiscono sacrifici: le loro preghiere non raggiungono il dio.

Esus vive nei boschi e di rado partecipa ai banchetti degli altri dei: gli spazi del cielo non sono per lui, la terra soltanto attrae questo figlio della terra. Né gli dei sentono la mancanza di questo maschio che arde perennemente di desiderio ed esibisce senza vergogna la sua virilità trionfante. Anche nei palazzi divini Esus afferra i coppieri che versano l’idromele e li prende con la forza.

Esus dedica le sue giornate alla caccia: caccia gli animali più vigorosi, di cui spegne la vita e gusta la carne; caccia i giovani uomini, di cui coglie il fiore, per poi lasciarli sanguinanti tra i campi. Esus ama il sangue che scorre, ama la morte che è sorella della nascita, ama gli umori della terra.

Nudo corre, sempre eccitato, il grande sesso svettante. Gli uomini che lo vedono fuggono o si nascondono, terrorizzati, e sperano che il dio li risparmi. Chi di loro desta il desiderio del dio, ne deve accogliere il membro prodigioso. E il grande sesso del dio si fa strada nella carne, aprendola e lacerandola. Il seme del dio si mescola al sangue della sua vittima e solo la forza e la vita che esso trasmette salvano l’uomo dalla morte.

Anche Esus dovrebbe morire, come gli dei della sua generazione, per lasciare posto ai nuovi dei, ma solo il figlio può prendere il posto del padre e solo un dio può uccidere un dio. Tutti gli dei hanno stretto un patto di sangue, per cui nessuno di essi può colpire uno degli altri. Solo Donn non ha giurato con gli altri dei, ma egli vive lontano, nella fortezza di Flag Fen, e non si cura né degli uomini, né delle divinità celesti.

 

Esus caccia da solo, non si cura di avere compagnia, né di uomini, né di fauni.

Un giorno egli insegue a lungo un orso, che la dea Rigani ha raccolto cucciolo, dopo che la lancia di un cacciatore ne aveva spento la madre. La dea l’ha fatto accudire dalle sue ninfe e spesso si è divertita a giocare con il docile animale. L’orso vive sul monte sacro alla grande dea, ma nelle sue cacce non c’è luogo che Esus rispetti, non c’è limite che non valichi, guidato solo dal proprio desiderio, l'unica legge che conosce.

L’orso fugge, timoroso, di fronte al dio selvaggio e feroce, ma Esus lo raggiunge.

Invano l’orso, che la dea ha dotato di parola, invoca pietà, troppo bella è la preda e troppo impaziente il dio. La sua lancia fende l’aria e si immerge nel petto dell’animale, subito sotto il cuore. Lo trapassa e la punta esce dalla schiena, tanto forte è il dio.

L’animale morente si rivolge allora a Esus e gli parla con voce umana, la voce che gli diede la dea.

- Anche tu conoscerai presto la morte, Esus, il tuo tempo è venuto. Sarà tuo figlio ad ucciderti, con questa stessa lancia.

Esus ride, il riso lo scuote tutto e ne risuonano i boschi e i campi, le onde del mare e le cime dei monti. Gli uomini atterriti ne sentono il boato e non sanno quale atroce catastrofe stia per abbattersi su di loro: si inginocchiano sbigottiti e pregano Teutates che li protegga.

- Qualche dio ti diede la parola, ma non il senno, stolto. Io non ho figli, né mai li avrò. Altri dei inseguano le ninfe o si accoppino con le dee dai candidi seni, il mio membro possente cerca ben altri nidi.

L’animale si contorce a terra, ma mentre già la morte gli vela gli occhi, alza ancora la testa verso il dio e dice:

- Eppure la lancia scagliata da tuo figlio ti ucciderà e la sua destra ti priverà della virilità e della vita.

Un’ira selvaggia si impadronisce del dio, che ancora infierirebbe sull’animale, ma lo vede sfuggire alla sua vendetta: ormai la morte lo trascina dove il potere del dio non può raggiungerlo.

- Se questo mi farà mio figlio, che lo stesso succeda a lui, più e più volte, che diventi cinghiale e cervo, orso e lupo, che i cacciatori inseguono e colpiscono con le loro armi, spegnendone la vita e privandolo della virilità. E che non possa generare, che i suoi amplessi diano la morte. E se mai avrà un figlio, che sia quel figlio a privarlo della vita.

Poi il dio se ne va, furente, abbandona il bosco, senza neppure ritrarre la lancia dal corpo dell’animale. La sua rabbia scatena un vento impetuoso che svelle gli alberi, la grandine devasta i raccolti, il mare ribolle e rovescia le barche dei pescatori, i fiumi si gonfiano e travolgono le case. Gli uomini piangono amaramente la collera del dio, che essi non riescono a placare.

 

Rigani scende dalle sue ninfe, che in lacrime le annunciano la morte dell’orso. La dea accarezza il corpo dell’animale a lei sacro e giura vendetta. Raccoglie la lancia che Esus ha lasciato: sarà quella lancia a spezzare la vita del dio orgoglioso.

Quella stessa sera, la dea prende la forma di un giovane nel fiore degli anni, forte e snello, con lunghi capelli biondi, simile a quelli che il dio feroce desidera e prende con la forza.

Ed Esus, che torna alla sua dimora nei boschi, lordo del sangue delle sue vittime, vede presso una fonte uno splendido giovane, dai riccioli d’oro. Ne ammira il corpo armonioso, ne guarda con bramosia i fianchi. Mai gli sembra di aver visto un corpo così bello e il suo sesso si erge, terribile, perché il desiderio lo infiamma.

In un attimo il dio è al fianco del giovane, che lo guarda sbigottito e, inginocchiandosi davanti a lui, grida:

- Risparmiami, dio terribile. Abbi pietà di me che non ho conosciuto né uomo, né donna.

Ride il dio spietato,. Con le mani possenti afferra il giovine per i capelli e lo getta al suolo. Subito gli è sopra ed il peso del suo corpo divino lo blocca.

- Adesso conoscerai la forza di un dio.

Il giovane geme e singhiozza, ma nulla può commuovere Esus, che avanza il suo membro immenso ed a forza si apre la strada tra la carne, dilaniando. Non sa che è una dea quella che sta forzando e che egli sta generando il figlio che gli toglierà la vita e prenderà il suo posto.

Presto il dio raggiunge il piacere e il suo seme riempie il giovane, abbondante come l’acqua di un torrente dopo che la pioggia è scesa per giorni.

Esus si solleva trionfante, la grande asta coperta di sangue, e si allontana senza voltarsi indietro, soddisfatto di aver colto un altro frutto dal dolce sapore.

Ma quando il dio scompare tra gli alberi, il giovane cambia aspetto: i capelli si allungano, dal petto glabro emergono i seni fiorenti della grande dea e là dove spuntava il tenero virgulto della virilità, la carne si apre.

Dentro di sé Rigani ha il seme di Esus e la vendetta sul nemico.

E quando arriva il primo plenilunio d’autunno, Rigani partorisce un piccolo dio, forte e vigoroso, che gli dei accolgono con un sorriso: egli concluderà il ciclo del rinnovamento, uccidendo il vecchio dio che ancora resiste e cibandosi della sua forza. Il suo nome è Cernunnos.

 

Cernunnos vive nascosto nella selva del monte sacro a Rigani. Di lui hanno cura le ninfe e la madre spesso scende a trovarlo.

Cernunnos cresce in fretta: in un mese il suo corpo si sviluppa come quello di un uomo in un anno. Ben presto egli diviene il più forte e il più resistente di tutti i divini abitanti del bosco. Tutto in lui porta l’orma del padre che Cernunnos non conosce: il corpo possente, l’abilità nella caccia, la virilità trionfante e la passione per i maschi.

Quando giunge la primavera del suo secondo anno di vita, Cernunnos è un giovane maschio, ancora ignaro dei piaceri della carne. Il principe Teyrnon, di origine divina, gli è compagno di caccia e un giorno, mentre entrambi a una fonte si lavano del sangue degli animali uccisi, Cernunnos vede i fianchi del suo compagno, chino a bere. Il desiderio lo acceca e gli è da guida. Le sue mani accarezzano il corpo del giovane, ne stringono la carne, la sua bocca sfiora la pelle, poi i suoi denti mordono leggermente. Come il dio, Teyrnon non conosce il piacere che dà l'incontro dei corpi, ma le mani e la bocca del dio gli trasmettono sensazioni nuove e a quella stretta egli si abbandona completamente. Lascia che Cernunnos lo stenda sull’erba fresca, mentre il sangue gli pulsa alle tempie e il suo sesso si erge. Il dio è su di lui e le sue mani divaricano i fianchi. Cernunnos guarda l’apertura che si svela e, lasciando che il desiderio gli indichi la strada, accosta la punta del suo membro svettante al foro. Una goccia di seme scende dall’estremità e il dio avanza la sua arma formidabile, entrando nella carne che gli si offre.

Teyrnon urla il suo piacere, mentre l’arma divina entra dentro di lui e infiamma i suoi fianchi. Le sue mani stringono l’erba, negli spasimi di un godimento senza limiti. Il grande sesso del dio scava dentro di lui, gli riempie le viscere e gli trasmette un’estasi che in ondate successive lo avvolge tutto.

Cernunnos chiude gli occhi, anch’egli preda di un godimento mai provato. Il suo corpo spinge con forza, fino a che dal suo sesso il seme si spande e il dio si abbandona sul corpo del giovane.  

Grande è stato il piacere di entrambi. E da allora più e più volte i loro corpi si incontrano. Molti altri giovani maschi, di natura umana o divina, cercano l’amplesso del dio e Cernunnos ne coglie con gioia il fiore nascosto, regalando altrettanto piacere: i suoi abbracci non portano sofferenza, come quelli del padre Esus, ma gioia.

Ogni giorno Cernunnos giace con altri maschi, spargendo dentro di loro il suo seme. La sua virilità è inesauribile.

Ma nulla infiamma il suo corpo come la caccia, null’altro ama veramente Cernunnos. Nessuna preda può sfuggirgli.

 

E viene infine il tempo della vendetta.

Nell’autunno del suo secondo anno Cernunnos è ormai un uomo forte e possente e come regalo per l’anniversario della sua nascita, Rigani offre al giovane figlio una splendida lancia per la caccia. Per il giovane dio non c’è dono più gradito.

- Sceglierò un degno bersaglio per quest’arma, madre.

Sorride Rigani, che ben sa quale carne squarcerà l’arma divina.

Quella notte stessa Cernunnos va a caccia, mentre la luce lunare illumina il bosco. Ha con sé la lancia, ma non la usa: aspetta di avere una preda degna di un’arma tanto splendida.

Intanto Rigani prende l’aspetto di un giovane fauno, dai fianchi stretti e la figura slanciata. In questa veste appare al dio Esus, ai margini di un bosco. Al vedere il fauno, a cui la nuova peluria appena vela il viso, il dio s’infiamma e gli si avvicina. Ma il fauno fugge e, vedendo che il dio, ben più veloce di lui, sta per raggiungerlo, assume la forma di un giovane cinghiale e s’infila nel folto della vegetazione.

Ride il dio, dell’ultimo suo riso, e anch’egli assume l’aspetto di un cinghiale, grande e possente, quale mai altro ne nutrì la terra fertile. Il maschio vigoroso insegue il giovane. Questi quasi si lascia raggiungere, poi con un rapido movimento sfugge di nuovo, esasperando il desiderio che già brucia nel dio. Fulmineo si dirige verso una radura, ai cui bordi siede pensoso Cernunnos, accarezzando la lunga lancia e chiedendosi se mai vedrà preda che meriti il colpo di una simile arma. Ed ecco un grande strepito di rami spezzati provenire dal bosco. Cernunnos si alza e scruta tra le fronde per vedere l’origine del rumore.

Il giovane cinghiale scarta ancora, sfuggendo al dio che lo tallona, poi scompare oltre un cespuglio, là dove si apre la radura. Ma all’aperto non esce: si trasforma in uccello e vola su un ramo, mentre il dio Esus, accecato dal desiderio, si slancia oltre il fitto della vegetazione.

Cernunnos vede il grande cinghiale, preda magnifica quale mai colse, e rapido come la folgore scaglia la lancia. Non sbaglia il suo braccio, mai fallì il bersaglio l’arma da lui scagliata con forza, lancia o freccia che fosse. Pronta colpisce l’animale, là dove pulsa l’arteria che porta il sangue al capo, e la punta trapassa la gola, privando il cinghiale di parola e vita.

La corsa dell’animale si interrompe ed esso si abbatte al suolo. E pare un monte che cade e precipita a valle, ogni cosa travolgendo nella sua rovina e tutto distruggendo, boschi e villaggi, greggi e campi. Immenso è il fragore e la terra ne risuona.

Esus sente gli spasimi della sua agonia, riconosce la lancia che lo uccide, sa che il giovane dio vigoroso che si avvicina è suo figlio e che la profezia si è compiuta. Se potesse ancora parlare, scaglierebbe una nuova maledizione, ma la lancia gli ha tolto la parola. Il soffio vitale non è ancora spento in lui, troppa è la forza della sua natura divina, ma il suo gran corpo giace immoto e più non gli è dato di ritrovare forma umana.

Glorioso di sì splendida preda, Cernunnos chiama i fauni suoi amici, il suo compagno Teyrnon e altri giovani maschi, di natura umana e divina, che spesso condividono le sue giornate.

- Venite, amici, a vedere quale magnifica preda ha abbattuto la lancia di Cernunnos, venite al grande banchetto.

Accorrono i fauni che accompagnano volentieri Cernunnos nelle sue cacce, ma certo non oserebbero emularne le imprese: troppo più forte è il dio audace. Giungono gli altri cacciatori e tutti ammirano il magnifico animale che la lancia del dio ha spento.

I fauni accendono un gran fuoco, su cui sarà arrostita la preda. Cernunnos solleva il cinghiale e pare che innalzi un monte: il sudore scorre copioso dalle spalle possenti e dal torace maestoso.

I fauni legano l’animale al tronco di un albero e Cernunnos squarcia la carne perché venga arrostita sul fuoco che già arde.

Una nera nube copre la vista di Esus e mentre esala l’ultimo respiro, il dio sente la mano del giovane figlio che recide il suo membro possente, ancora teso nel desiderio non soddisfatto, ed i suoi testicoli, gonfi di seme. Cernunnos se ne ciberà, degno premio di sì grande caccia.

Cernunnos squarta il corpo della magnifica preda e le carni vengono infilate allo spiedo. Egli si nutre della virilità del superbo animale e quel pasto gli dà nuova forza. Gli pare che dai suoi occhi cada un velo: diverso è lo sguardo che ora posa sul mondo. Egli sente di essere il signore dei boschi verdeggianti, dei prati, degli animali e prende coscienza di essere un dio possente.

Tutti i compagni di Cernunnos si cibano delle carni dell’animale ed il pasto divino accende il loro desiderio. Intorno alle braci del fuoco che si spegne, i giovani maschi si lanciano in una grande danza. Rivolti verso il fuoco, pongono le mani sulle spalle dei compagni al loro fianco e formano un grande cerchio, che si muove ritmicamente, mentre le voci intonano festose un canto lascivo. Uomini e fauni hanno tutti il sesso ugualmente eretto ed il desiderio che brucia nei loro testicoli fa brillare i loro occhi, come lucciole in una notte d’estate. Il cerchio si muove rapidamente intorno alla brace, ora in una direzione, ora in un’altra.

Poi i divini compagni del dio si voltano di lato, così che ognuno di loro vede davanti a sé le natiche forti di un compagno e, proteso verso quei fianchi che si offrono, il proprio membro, turgido, che pare più grande e più rigido che mai. Ciascuno poggia le braccia sulle spalle del maschio che lo precede e si crea nuovamente un cerchio, in cui i corpi si avvicinano sempre di più, fino a che si toccano, ognuno dei grandi sessi eretti sfiora l’incavo tra le natiche del compagno che lo precede nel cerchio. Ciascuno sente contro il proprio sesso la carne di un maschio e contro i fianchi il membro vigoroso di un altro. Allora la danza si scioglie, in un groviglio di corpi che si cercano e si trovano, di membri svettanti che infilzano la carne, che bocche ardenti accolgono. A due, a tre, a quattro, i corpi si intrecciano e si sciolgono, in un movimento continuo, perché il seme che guizza in alto o riempie le bocche e le viscere sembra generare nuovo desiderio invece di spegnerlo e l’orgia si snoda ininterrotta, sempre rilanciata.

Cernunnos è al centro del cerchio, sulle ceneri ancora calde del fuoco. Il suo sesso è immenso e teso, ma esso ispira sgomento nei giovani. Molti si avvicinano, con la lingua e le labbra lo avvolgono, cercano di prenderlo in bocca ed accolgono il seme che più volte sgorga, senza che il membro perda consistenza: come una fontana alimentata da una sorgente perenne, che neppure il calore estivo riesce a prosciugare, così la maestosa virilità del dio esce a fiotti, ininterrotta.

Solo Teyrnon osa offrirsi al dio, ma quando Cernunnos entra dentro di lui, il giovane lancia un urlo e il dio si ritrae. Il sangue scorre abbondante dai fianchi dilaniati e solo il potere di Cernunnos e la natura divina del giovane lo salvano da una morte certa.

Cernunnos è turbato, si chiede se questo è il prezzo da pagare per la sua divinità.

 

Intanto festeggiano gli dei in cielo l’impresa di Cernunnos, che ha completato il ringiovanimento del mondo.

Quando l’orgia si spegne ed i corpi cercano il riposo, solo Cernunnos veglia, seduto presso la cenere. Giunge allora la madre Rigani a chiamare il figlio ad altro, ben più grande banchetto. Non si stupisce il giovane dio. Nell’acqua di un ruscello si purifica e poi sale in cielo, dove Teutates lo incorona signore della natura.

Banchettano gli dei, ma nel cuore di Cernunnos vi è un’ombra.

     

II - Il viaggio: Diarmaid

 

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Durante il banchetto degli dei, il possente Lug si rivolge a Cernunnos:

- Quali oscuri pensieri ti accompagnano, Cernunnos? Perché il tuo cuore non prende parte alla festa?

Cernunnos esita, ma infine, incalzato dalle domande del dio, apre il suo cuore.

- Il mio corpo è mutato e non posso più possedere un maschio, perché il mio membro dà la morte.

Annuisce Lug.

- Cernunnos, ciò di certo è frutto di una maledizione. Per sconfiggerla, dovresti affrontare un lungo viaggio. In terre lontane, nel Nord inospitale, si trova la terribile fortezza di Flag Fenn, dimora di Donn. Solo sfidandolo e vincendolo, potresti ottenere da lui la risposta alle domande che ti poni: egli sa tutto e potrebbe indicarti come vincere la maledizione che pare gravare su di te. Ma nessuno ancora si è mai vantato di averlo vinto e le teste di coloro che hanno osato sfidarlo ornano la sua fortezza imprendibile.        

Tutti gli dei e gli uomini conoscono la terribile roccaforte del dio Donn e molti sono partiti per sfidarlo, sicuri della propria forza, ma nessuno di loro è tornato.

Cernunnos non teme di affrontare il dio. Egli confida nella propria forza.

- Farò quello che tu mi dici, saggio Lug. Ti ringrazio.

- Bada, che nessuno ti accompagni. E non portare nulla con te, se non un’arma.

 

E quando al mattino spunta in cielo l’aurora dalle dita di rosa, Cernunnos si mette in viaggio. Solitario si muove e nulla porta con sé, se non la lancia infallibile che fu di suo padre, quella stessa che diede a Esus la nera morte.

Cernunnos cammina a lungo, attraverso campi e boschi, brughiere e prati, lungo le strette valli di montagna e per i sentieri di pianura, sotto il sole cocente e sotto la gelida neve. Man mano che il viaggio procede, egli si lascia alle spalle le terre abitate da uomini laboriosi e si addentra in regioni inospitali, dove pochi si spingono, banditi scacciati dalle loro case ed esuli. Qui si estendono foreste dove anche a mezzogiorno la luce arriva appena al suolo, grandi paludi dove il terreno inghiotte il viandante, sterili terreni dove nulla cresce, cime brulle che si spingono verso il cielo.

A tratti il dio si interroga su quale direzione seguire e ogni volta che egli si pone questa domanda, un serpente di un verde intenso come l’erba a primavera compare ai suoi piedi e si muove davanti a lui, quasi a guidare i suoi passi.

Cernunnos cammina ai piedi di una montagna, dove vi sono grandi prati, ma non c’è orma umana. Il terreno è povero e a mala pena può nutrire gli animali che pascolano, il grano non cresce su questo suolo sterile, né l’orzo o l’avena.

Una sera il dio giunge presso una grande grotta e qui si ferma a riposare, in una rientranza lungo la parete. Ma nella notte una voce umana lo desta dal suo sonno ristoratore: qualcuno ha acceso un fuoco nell’antro ed alla fiamma che guizza Cernunnos può vedere il corpo possente di un uomo. Intorno a lui vi è uno sterminato gregge di pecore.

- Chi sei tu, temerario, che hai osato stenderti nella mia grotta? Né uomini né dei si avvicinano, perché tutti sanno che questa è la casa di Diarmaid, discendente dagli dei. Certo sei venuto per rubare le mie pecore, ma incontrerai la morte.

Non teme Cernunnos l’uomo dalla voce aspra e risponde:

- In quest’antro ho trovato riparo per la notte e come ospite mi presento a te, non come ladro. Ma se non credi alle mie parole, non ti temo e vedremo chi di noi due troverà la nera morte.

Ride Diarmaid e la sua risata rimbomba per la grotta e i cani ululano spaventati, mentre Diarmaid si leva ed il fuoco proietta la sua grande ombra sulla parete.

- Bene hai parlato, forestiero. Non so se devo crederti o no, ma ora misureremo le nostre forze. Se ti batterai con valore, ti ospiterò per la notte, ma se sei uno di quei ladri che strisciano nell’oscurità e approfittano del sonno di un uomo per sottrargli ciò che ha di più caro, bada a te, perché la morte ti coglierà.

- Smetti di minacciare una morte che non puoi darmi e combatti!

Nudo è Cernunnos e Diarmaid si toglie la pelle di pecore che gli cinge i fianchi. Egli è alto come il dio ed il suo corpo appare non meno forte: grandi braccia possenti e solide gambe robuste, un petto vigoroso e larghe spalle, un membro poderoso e grandi testicoli.

I due sfidanti si guardano e ognuno dei due è soddisfatto di battersi contro un rivale tanto gagliardo. A lungo si fronteggiano, nello spazio intorno al fuoco, poi Diarmaid si scaglia su Cernunnos e lo getta a terra. Insieme cadono, si rotolano e ognuno dei due cerca di bloccare l’altro, ma troppo grande è la forza dei due lottatori, non è facile piegare il grande Diarmaid, neppure per un dio, né Cernunnos è inferiore per prestanza.

Il loro abbraccio si scioglie e nuovamente i due rivali sono uno davanti all’altro e ognuno studia l’avversario, cercando di coglierne i punti deboli, ma non ne vede. La stretta che li ha uniti ha acceso il loro desiderio e il sesso di entrambi si è gonfiato di sangue e si protende in avanti.

Ride Diarmaid.

- Sei un bravo lottatore, mai ho incontrato un rivale così forte. Di certo non sei un ladro meschino. Ma ti batterò ugualmente.

- Non pensare di potermi battere facilmente, Diarmaid. Io ti sconfiggerò.

- Va bene, questa lotta mi piace e per essa metto una posta in palio. Se vincerai, potrai prenderti tutto il mio gregge ed io andrò dicendo che un uomo più forte di me mi ha privato dei miei beni.

Cernunnos non dice nulla. Non sa che farsene del gregge di Diarmaid, non pecore cerca il dio. E non ha nulla da offrire, se non la lancia, di cui non può privarsi. E nel cuore si chiede se non debba rivelarsi, perché non contro un uomo lotta Diarmaid, ma contro un dio possente.

Diarmaid, vedendolo silenzioso, gli dice:

- Hai paura di perdere? Perché non mi dici quale sarà il mio premio se vinco questa lotta?

- Nulla ho da offrirti, senza nulla mi misi in viaggio dalle mie terre lontane, verso una meta altrettanto lontana.

Ride ancora Diarmaid:

- Ed allora il premio di questa lotta da cui uscirò vittorioso siano i tuoi fianchi vigorosi, che accoglieranno quest’asta di carne.

Cernunnos ride, certo della vittoria.

- Nessuno mi ha mai posseduto e non sarai certo tu il primo.

- Vedremo.

E così dicendo si scaglia su di lui il grande Diarmaid e lo stringe tra le braccia, bloccandolo. Cernunnos sente la stretta vigorosa e non riesce a liberarsene. Ride Diarmaid il possente, vedendo il dio che si dibatte invano e già pensa di avere la vittoria in pugno. Arde il suo corpo mentre egli solleva quello del dio e la sua grande asta preme contro la carne di Cernunnos.

Il contatto di quella carne calda accende il desiderio del dio, ma questi non vuole cedere a un mortale e con uno sforzo libera un braccio e afferra per la gola Diarmaid, stringendo. Lascia la presa Diarmaid e con un balzo si allontana, sciogliendo la morsa.

Ma nel suo corpo brucia violento il desiderio e allora si lancia a testa bassa su Cernunnos e lo manda a terra. Cerca di voltarlo, per bloccarlo al suolo, ma il dio si difende e ognuno preme sulle braccia dell’altro, senza riuscire a vincerlo. I due avversari, simili per forza, per quanto uno dio, l’altro umano, sia pure con sangue divino nelle vene, nuovamente si fronteggiano, i grandi membri ormai completamente eretti.

E quando ancora una volta Diarmaid si lancia su Cernunnos, questi, con un abile movimento, sfugge alla presa e ne accompagna il movimento, così che, trascinato dal suo stesso slancio, Diarmaid cade rovinosamente a terra. Prima che riesca a riprendersi Cernunnos gli è sopra, gli piega il braccio dietro la schiena e lo blocca completamente.

Invano lotta per liberarsi Diarmaid, invano cerca di sfuggire alla presa. E infine è costretto a riconoscere la sua sconfitta.

- Tua è la vittoria, tuo è il mio gregge. Mi hai vinto senza inganno. Sei più forte di me.

Lascia la presa ridendo Cernunnos, ma il suo sguardo corre ai fianchi robusti, ricoperti da un pelame biondo.

- Tieni il tuo gregge, non di questo mi curo. Ben altra è la mia meta. Sei stato un avversario vigoroso e non è stato facile batterti.

Sorride Diarmaid e si siede di fianco al dio.

- Mi dirai dove sei diretto e se posso ti aiuterò con i miei consigli. Conosco queste terre della desolazione, dove pochi osano avventurarsi. Ma prima, poiché lo stesso desiderio brucia nei nostri corpi, prenditi ciò che io avrei preso se diverso fosse stato l’esito della lotta.

Cernunnos scuote la testa.

- No, Diarmaid. Se io ti possedessi, ti darei la morte: il mio abbraccio è mortale. Questo non voglio. Ci siamo battuti lealmente.

- Ma se il tuo abbraccio è mortale, come puoi tu soddisfare il desiderio che arde in te?

- Questo forse me lo dirà Donn.

Impallidisce Diarmaid, sentendo il nome del dio terribile.

- Lungo è il viaggio fino a Flag Flenn, dimora del dio nascosto, temibili sono i pericoli che incontrerai e tremendo è il dio. Ma forse tu stesso sei un dio, perché troppo grande è la tua forza e troppo temerario il tuo cuore.

- Sì, Diarmaid, il mio nome è Cernunnos.

- Colui che ha preso il posto di Esus. Il mondo lo sa. Il regno di Esus è terminato ed un giovane dio possente ha preso il suo posto. È un grande onore per me essere stato battuto da te. Perdona le stolte parole con cui ti accolsi, io non sapevo chi fossi.

- Non chiedermi perdono. Abbiamo lottato entrambi con piacere e ben volentieri prenderei il premio che mi offri, perché un identico desiderio preme in me, ma non voglio recarti morte.

- Alzati Cernunnos.

Si leva in piedi il forte dio e, in ginocchio davanti a lui, Diarmaid accoglie nella sua bocca la spada di carne, immensa e tesa. Le sue labbra e la sua lingua accarezzano la magnifica asta e le sue mani avviluppano i testicoli voluminosi. Poi le sue dita scorrono lungo i fianchi di Cernunnos e stringono la carne delle natiche, mentre il piacere scorre come acqua di un fiume in piena nel corpo del dio, in vortici e mulinelli e infine riempie il membro divino e inonda la bocca di Diarmaid.

Ma il desiderio non cala e il sesso divino rimane turgido e vigoroso.

Allora la destra di Diarmaid afferra il membro immenso e lo percorre, con forza, più e più volte e ora il piacere è un vento che soffia, prima più leggero, poi forte, impetuoso, travolgendo ogni cosa ed infine schizza in alto, tanto in alto da raggiungere la barba del dio e ricadere tra i fitti capelli biondi di Diarmaid.

Ma il sesso svetta, immane e teso, senza aver perso nulla del suo vigore.

E Diarmaid, senza alzarsi, passa dietro al dio e ne morde le natiche, lasciando i segni rossi dei suoi denti, mentre le sue mani accarezzano la carne, destando nel dio una fiamma di piacere. La sua lingua percorre il solco tra le natiche, indugia a lungo sull’apertura inviolata, che Diarmaid desidera ma che è riservata ad altri, le sue braccia si tendono, le mani percorrono il corpo del dio, salgono fino al petto, le sue dita giocano con il vello rossiccio che copre le membra del dio. Diarmaid non tocca il gran sesso del dio, né i suoi testicoli fecondi, ma il piacere è un fuoco che divampa, che brucia il corpo divino, le fiamme guizzano e si slanciano sempre più alte, fino a che per la terza volta il getto prorompe, altissimo.

Ma non è ancora sazio il dio, sempre ugualmente tesa è la sua verga trionfante.

E allora Diarmaid si stende davanti a lui e con la mano afferra il membro potente, che a fatica la sua grande mano riesce ad avvolgere, e lo guida non a entrare dentro di lui, ma a scavarsi una calda tana tra le cosce riunite. Il grande sesso del dio si apre la strada a fatica tra i muscoli potenti di Diarmaid ed ora il piacere è il fianco di una montagna che vibra, quando sassi e terra incominciano a staccarsi e poi è tutta la parete che frana ed infine è la montagna intera ad abbattersi, travolgendo ogni cosa che incontra. Così il piacere del dio lo travolge e Cernunnos lancia un grido di gioia, a cui risponde, eco vicina, quello di Diarmaid. Entrambi vengono e il seme dell’uno e dell’altro si sparge al suolo, i loro corpi vibrano all’unisono.

Nella violenza del piacere i denti del dio mordono la spalla di Diarmaid e il sangue sgorga, ma il dio e il pastore non se ne rendono conto, i loro corpi li hanno portati troppo lontano da sé.

Quando infine l’abbraccio si scioglie e il tocco di Cernunnos chiude la ferita, i due si stendono l’uno vicino all’altro e lasciano che il sonno li avvolga.

 

Il mattino Diarmaid offre al suo ospite latte e formaggio, poi parla a Cernunnos.

- Cernunnos, signore divino, nel lungo viaggio che ti separa dalla dimora di Donn, attraverso le terre della desolazione, ci sono molti pericoli che farebbero rabbrividire un mortale, ma un dio possente come te non ha nulla da temere. Non sei certo tu a doverti guardare dagli animali feroci delle foreste o dai mostri che si nascondono nei fianchi delle montagne, indenne supererai le sabbie mobili e i vulcani che eruttano fuoco. Ma voglio ugualmente darti alcuni consigli, perché nessuno possa coglierti impreparato e soprattutto da un pericolo voglio metterti in guardia. Siediti tra le mie braccia e ascolta.

Diarmaid poggia la schiena contro la parete e Cernunnos si appoggia contro il corpo dell’amico, le cui braccia lo stringono.

E mentre le mani di Diarmaid lo accarezzano, l’amico gli parla delle insidie che il dio incontrerà nel cammino attraverso le terre della desolazione e su come è possibile difendersi da esse: Cernunnos non rischia la sua vita, solo un dio potrebbe ucciderlo e quindi Donn soltanto costituisce una minaccia mortale, ma egli potrebbe rimanere prigioniero di qualche incantesimo.

- Oltre questa montagna sentirai risuonare una melodia quale nessun essere umano ha mai ascoltato. Qualunque mortale la ascolti, rimane prigioniero per sempre di questa musica divina, che continua a sentire nelle sue orecchie. Ma tu sei un dio e l’incantesimo avrà termine non appena i musici divini smetteranno di suonare. Essi sanno chi sei, perché conoscono il passato e il futuro, e suoneranno in tuo onore.

- Se essi conoscono il futuro, potranno rivelarmi ciò che desidero sapere. Mi diranno se riuscirò a liberarmi della maledizione che grava su di me.

La destra di Diarmaid accarezza il viso del dio e la sinistra scivola sul suo torace vigoroso.

- La loro musica ti parlerà di ciò che ti aspetta, ma essa rivelerà e nasconderà insieme. Non è a loro che puoi chiedere come sfuggire alla maledizione. 

- Non sono certo i musici divini il pericolo di cui mi parli. Chi incontrerò dopo?

- Fiere terribili popolano i monti che dovrai superare, ma esse non oseranno avvicinarsi a te. Un figlio di Cian abita oltre quei monti, egli è la minaccia mortale. Nelle sue vene scorre sangue divino, ma gli dei lo hanno scacciato, perché è una creatura infida, che cerca solo il male e non rispetta i giuramenti. Bada, se lo affronti, di non colpirlo due volte. La tua lancia è arma divina, certamente, e può ucciderlo, ma se tu lo colpisci una volta, egli ti chiederà di finirlo. Tu però trattieni la tua mano, perché il secondo colpo della stessa arma guarirebbe la sua ferita.

- Lo ucciderò al primo colpo.

- Questo non è possibile, quand’anche tu trapassassi con la lancia il suo cuore.

- Lascerò che muoia per la ferita che gli avrò inflitta.

- Anche questo non è possibile, perché durante la notte guarirebbe.

La destra di Diarmaid è scesa sul ventre di Cernunnos ed accarezza il grande sesso e la sinistra avvolge le due sfere.

- Che devo fare, allora, per liberare la terra da questo flagello?

- Devi finirlo con un’altra arma.

- Lo ucciderò con le sue stesse armi.

- No, esse lo risanerebbero. Serviti delle mani o di quest’arma magnifica che dici dare la morte, ma non spargere il tuo seme dentro di lui.

E così dicendo Diarmaid stringe nella sua mano il possente membro del dio e lo accarezza con forza. Cernunnos chiude gli occhi e si abbandona completamente al gioco sapiente delle due mani di Diarmaid. Contro la schiena sente il sesso dell’amico, non meno teso del proprio.

Cernunnos non dice più nulla. Lascia che l’amico lo guidi al piacere ed insieme vengono ancora una volta. 

Quando si separano, Diarmaid vorrebbe offrirgli cibo per il viaggio, ma il dio rifiuta: la sua lancia può procurargli il cibo che cerca.

- Addio, Cernunnos. Se mai vorrai tornare in queste terre, qui avrai sempre un amico sincero.

- Grazie, Diarmaid.

Le loro bocche si incontrano, in un bacio di fratellanza, poi Cernunnos lascia la terra di Diarmaid, dove ha sparso il suo seme. E il suolo, fecondato dal dio, diventa fertile: il grano e la vite vi crescono senza che nessuno li coltivi, gli alberi da frutto prosperano lungo i fianchi della montagna e i pascoli diventano abbondanti. Le contrade desolate attirano da altre terre uomini, che venerano il grande dio.

 

 

III - Le terre della desolazione

 

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Cernunnos ha lasciato la terra di Diarmaid e si dirige verso Flag Fenn, la grande fortezza di Donn. Il cielo è sereno, ma il vento soffia impetuoso e scompiglia i lunghi capelli di Cernunnos. È una bufera che fa gemere gli alberi e piega gli arbusti, ma il dio avanza sicuro di sé. Sul limitare del bosco oscuro, Cernunnos esita e nuovamente il serpente appare a indicargli la strada e si allontana dal bosco verso il terreno aperto. Allora il dio lascia la foresta e si inoltra in una vasta brughiera, dove iniziano le terre della desolazione.

Cammina a lungo. Ormai la foresta alle sue spalle è appena una linea scura all’orizzonte, quando d’improvviso sente un suono. Immediatamente il vento si placa. È la musica di un flauto quella che si libra nell’aria, ma a suonare lo strumento è un maestro, perché mai Cernunnos ha sentito una simile armonia. Il mondo è immobile, ad ascoltare la melodia divina: si è fermato il vento, l’acqua della cascata ha interrotto il suo precipitare, gli uccelli non cantano, né volano. Nulla si muove. Cernunnos stesso sente le forze abbandonarlo. Non vuole più proseguire. Vuole solo ascoltare la musica divina che risuona intorno a lui, che riempie l’aria, che lo avvolge.

Cernunnos vede il suonatore che avanza verso di lui. È un uomo forte, come quelli che il dio ama. Ha lunghi capelli neri, che porta sciolti sulle spalle, e sul suo corpo possente Cernnunos può vedere segni tracciati con inchiostro, a suggello di antichi patti.

Cernunnos vorrebbe avvicinarsi a lui, ma non può muoversi: la musica lo stringe come una catena invisibile. L’uomo ora gli è di fronte e le sue mani scorrono veloci sul legno del flauto.

Cernunnos rimane immobile ad ascoltare la melodia divina. Davanti ai suoi occhi si svelano immagini di cui non comprende il senso, ma che sente essere visioni del proprio futuro. C’è un’immensa fortezza, circondata da una palizzata tanto alta che sfiora il cielo e intorno altri pali portano in cima le teste di guerrieri valorosi. C’è un uomo giovane e forte, dai lunghi capelli neri e forti braccia. E poi un serpente di un verde brillante, come uno smeraldo, che si avvolge in ampie spire.

Ora però si fa sentire un altro suono, che il dio non conosce. Un nuovo strumento alza la sua voce accanto al flauto e compare un secondo suonatore, che si avvicina al dio. È simile al flautista divino, ma ben diverso è lo strumento, fatto con la pelle di una capra. Il suonatore vi soffia dentro e la musica che ne esce è terribile. Davanti agli occhi di Cernunnos appaiono nuove immagini. 

Cernunnos vede un grande tempio in cima a un monte e uomini legati ai piedi di una statua velata, ma ora le vittime sacrificali diventano cacciatori spietati, che inseguono un cervo, lo uccidono e se ne cibano. E ora sono guerrieri nudi, che si lanciano gli uni contro gli altri, brandendo i grandi scudi e le spade mortali, in una carneficina senza fine. E un guerriero più anziano, che offre il suo collo alla spada fatale, e un re, cui il pugnale del sacerdote squarcia il ventre.

E ora è una voce umana a cantare. Il divino cantore emette suoni che non sono parole, ma diventano immagini. E a Cernunnos appare la visione di un corpo nudo, un uomo biondo dai lunghi capelli. Cernunnos non può vederne bene il viso, vede solo gli occhi di un azzurro cupo come il mare profondo. Sente qualche cosa che si muove dentro di lui e gli sembra che il respiro gli si blocchi. E poi sangue e seme e corpi che si avvinghiano e un anello che si spezza ed ancora altre immagini, che Cernunnos vorrebbe fissare nella mente, ma svaniscono in un lampo.

E ora la musica si arresta.

Cernunnos potrebbe muoversi liberamente, perché sente che la catena che legava il suo corpo si è spezzata, ma rimane fermo, ancora immerso nella musica divina. Poi guarda i tre musici e parla loro:

- Mai ho sentito una simile musica. Di certo voi non siete uomini, ma dei.

Gli risponde il cantore:

- Sì, Cernunnos, divina è la nostra origine, anche se non siamo possenti come te.

Cernunnos sa che i musici non potranno dare una risposta ai suoi dubbi, ma la domanda preme e il dio la formula:

- Potete spiegarmi le immagini che la vostra musica ha creato? Io so che esse si riferiscono al mio futuro. Ma voi ne conoscete il significato?

- No, Cernunnos, noi non sappiamo neppure quali immagini la nostra musica ha suscitato in te. Chiunque la ascolti, sia esso dio o uomo, animale o pianta, vento o acqua, fuoco o terra, ha visioni diverse. La musica che abbiamo suonato apriva le porte del futuro e forse la terra ha visto il giorno in cui il sole non la riscalderà più e l’allodola su quel ramo ha visto i piccoli del nido che ancora deve costruire, l’acqua della cascata ha visto il mare in cui si perderà e il cervo le fauci del lupo che lo sbranerà. Chi può saperlo? Non noi. Grande è il potere della nostra musica, ma non ci chiedere di spiegarti ciò che hai visto. Abbiamo suonato per te che venivi per la prima volta in queste terre, ma non sappiamo neppure che cosa il tuo sguardo divino ha visto.

Cernunnos annuisce. La visione di quegli occhi di un azzurro cupo gli è rimasta dentro.

- Grazie per aver suonato per me. Vi prego, amici, banchettiamo insieme. Io caccerò qualche preda magnifica ed accenderò il fuoco. Poi ci metteremo vicini intorno alla fiamma per consumare il pasto.

- Sarà un onore per noi, Cernunnos. Ma abbiamo carni e vino da offrirti, non occorre che tu vada a caccia.

- No, non voglio presentarmi a mani vuote, voglio offrirvi il cibo.

- Va bene, come tu desideri. Sappiamo che sei il migliore tra tutti i cacciatori umani e divini e non dubitiamo che porterai preda degna di te. Noi prepareremo il banchetto qui.

Cernunnos ritorna sui suoi passi, rapido lascia la brughiera e raggiunge il bosco, dove vuole trovare una degna preda. Il cinghiale che corre veloce e appare appena per un attimo non è abbastanza rapido da sfuggire alla lancia del dio: prima che un altro albero lo nasconda alla vista, l’arma divina lo ha raggiunto e la sua corsa si ferma bruscamente. Quello che si abbatte al suolo è già un corpo privo di vita, che solo lo slancio della corsa fa ancora rotolare. La lancia penetra nel suolo e là dove essa si è confitta si apre una voragine: chi oggi attraversa quelle terre, vede la gola profonda al fondo della quale scorrono le acque impetuose di un torrente.

Il dio si carica sulle spalle l’animale possente e ritorna nella brughiera. I musici hanno già acceso il fuoco e portato un otre di vino. Cernunnos scuoia l’animale e lo trafigge con lo spiedo. E mentre la carne cuoce, egli parla con i musici divini. Essi trascorrono la loro vita in questa terra, a null’altro intenti che alla loro musica. Non coltivano campi o allevano animali, né richiedono offerte agli uomini, perché l’armonia divina crea ciò di cui hanno bisogno.

E dopo il banchetto, i quattro maschi divini siedono intorno al fuoco che si spegne e un unico desiderio brucia dentro tutti loro e tende i loro membri possenti. Essi sono dei, non hanno vergogna. Sorride il cantore e dice:

- Suoneremo e canteremo in tuo onore, Cernunnos, per il tuo e il nostro piacere.

I due compagni prendono i loro strumenti e incominciano a suonare, mentre la voce profonda canta. E non appena la melodia riempie l’aria, Cernunnos vede il mondo svanire. Gli pare di alzarsi e di avvicinarsi ai tre musici. Ora i loro corpi sono tanto vicini che si sfiorano. Il cantore si inginocchia di fronte a Cernunnos e la sua bocca avvolge il grande membro del dio. Uno dei musici è dietro di lui e il dio ne sente le mani sui fianchi, che stringono ed accarezzano, mentre la lingua scorre nel solco tra le natiche. Il terzo musico lo bacia sulla bocca e Cernunnos può sentire il sapore di miele delle sue labbra. La bocca del dio si schiude ad accogliere la lingua che si fa strada.

Cernunnos sa che è solo una visione, può sentire la musica ed il canto, ma la visione ha tutta la consistenza della realtà ed il piacere che si diffonde nel suo corpo è reale. La musica è il sangue che scorre nelle vene del dio, l’aria che gli riempie i polmoni, il seme che preme per uscire.

E il membro di Cernunnos si tende allo spasimo, glorioso ed immenso.

Ora i tre musici sono inginocchiati davanti a lui e le loro lingue percorrono l’asta vigorosa, mentre le loro mani stringono la carne del dio. Mai Cernunnos ha conosciuto un tale piacere. Le sue dita scivolano tra i lunghi capelli dei musici, ne accarezzano la carne, stringono i membri vigorosi, mentre altre mani percorrono tutto il suo corpo, senza freno, e il desiderio divampa. Corpi si offrono e si sottraggono, avvolgono e premono, scivolano via e sono subito sostituiti da altri, finché la musica che riempie i testicoli possenti del dio ne spinge fuori il seme.

Ma la musica non si ferma e Cernunnos vede i musici che gli si offrono ed egli stringe con le mani quei fianchi possenti, affonda la sua arma formidabile in quei corpi, ne sente il calore, li riempie del proprio seme.

E il gioco divino continua, senza un momento di pausa, trascinato da una musica che lo crea e lo rinnova in continuazione, sempre sostenuto da un desiderio che non è mai sazio, da una potenza che non mostra mai segni di cedimento.

 

E quando infine la musica si spegne, Cernunnos sente un’immensa stanchezza e si stende a terra. Vorrebbe ringraziare i musici, salutarli, ma il sonno lo preme al suolo e il dio si abbandona.

Quando Cernunnos si sveglia, si trova in un bosco, tanto fitto che la luce del sole appena riesce a farsi strada tra le foglie. Vicino ai suoi piedi il dio può ancora vedere un po’ della cenere del fuoco che avevano acceso in mezzo alla brughiera. Ma ora la distesa povera di vegetazione ha ceduto il posto ad alberi immensi, perché il seme divino ha fecondato la terra. Il bosco rigurgita di vita recente: cuccioli di cervo e di cinghiale, di lupo e di orso passano tra gli alberi. I più arditi si avvicinano al dio, che li accarezza. Sugli alberi vi sono i nidi degli uccelli ed i piccoli già si lanciano in volo, sotto lo sguardo dei genitori.

Cernunnos raccoglie i frutti che un vicino cespuglio di lamponi sembra offrirgli e rimane a lungo seduto, mentre la sua mente insegue le visioni che si sono dileguate. Un serpente allora appare e passa davanti ai piedi di Cernunnos, dirigendosi verso Nord. Allora il dio raccoglie la lancia, si alza e riprende il suo viaggio.

Oltre il bosco a cui il suo seme ha dato vita, si apre nuovamente una vasta distesa di terra brulla. Cernunnos la percorre fino a che il sole non si abbassa all’orizzonte. Allora davanti a lui appare un guerriero, che porta con sé una lancia e uno scudo.

       

- Chi sei tu, che osi attraversare la mia terra? Io ti darò la morte.

- Io sono Cernunnos e vado a Flag Fenn. Se vuoi lasciarmi passare, ti ringrazio. Se cercherai di sbarrarmi la strada, sarai tu a varcare le nere porte.

Ride Bith, per l’ultima volta, ignaro del destino di morte che lo attende.

- Vedremo se sfuggirai alla mia lancia!

E con queste parole Bith scaglia la sua lancia possente. Essa vola sicura verso il dio, ma questi si china ed essa prosegue la sua corsa, fino a un masso. Quando l’arma percuote il masso, tale è la sua forza, che esso si spezza in due e da allora quel luogo è detto il Masso Spaccato.

È il turno di Cernunnos, ora. Anch’egli scaglia la lancia. Bith frappone il suo scudo, ma la lancia l’attraversa come se fosse di tela e non di cuoio e metallo. La lancia si infila nel ventre di Bith e lo trapassa.

Cade a terra il guerriero ed il sangue si sparge.

Allora il dio si avvicina.

- La tua ferocia ha trovato la punizione che meritava.

Cernunnos poggia il piede sul ventre di Bith e ritira la lancia. Il sangue sgorga abbondante, ma Bith è ancora vivo.

- Mi hai battuto. Ora finiscimi con la tua lancia.

Cernunnos ride:

- No, davvero. Non bagnerò nel tuo sangue una seconda volta quest’arma.

- Se non vuoi colpirmi con la tua lancia, allora usa le mie armi.

- Neppure questo farò. Io non uso altre armi che le mie.

- Allora vattene, spietato, e lasciami attendere la morte.

- Folle, ancora non hai capito che la tua ora è giunta e che davvero è la morte quella che ti attende e che sta per ghermirti, come l’aquila ghermisce l’agnello?

E mentre parla, Cernunnos si china, solleva il corpo di Bith e lo stringe tra le braccia. Possente è la sua stretta e Bith sente che le ossa cedono premute dalla forza del dio. Cernunnos lo scaglia a terra ed il colpo è tanto forte da stordirlo. Poi il dio lo gira, gli apre i fianchi e li trapassa con la sua asta vigorosa. Grida Bith, mentre il membro gli squarcia le viscere.

Prima che il seme si sparga, Cernunnos si ritrae. Le sue mani spezzano il collo di Bith, ma la vita ha già lasciato quel corpo, che diviene pietra.

Il seme di Cernunnos si spande nuovamente e una vegetazione rigogliosa avvolge il corpo del vinto. Ancora oggi, nel luogo dove il dio ha piegato il suo avversario, vi è una grande pietra, completamente ricoperta da un intrico di rami e di foglie. Tutt’intorno a essa, là dove il sangue di Bith si è sparso, si stendono le putride acque di una palude, portatrici di morte. Gli uomini evitano quei luoghi, che dicono malefici.

 

 

IV - Il serpente

 

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Il dio sa di non essere lontano dalla meta. Nell’ultimo tratto del suo percorso, c’è sempre un serpente che striscia davanti a lui e gli indica la strada da seguire.

E infine Cernunnos può vedere in lontananza la grande fortezza di Flag Fenn. Egli riconosce la palizzata immensa, che la musica divina gli ha mostrato. E intorno a questi pali che sfiorano il cielo, sono piantati altri pali, più bassi, distanziati gli uni dagli altri. E su ognuno di essi è conficcata la testa di un uomo. Terribile è il dio, immensa la sua forza, ma Cernunnos non ha paura, sente che il proprio vigore non è inferiore a quello di Donn.

Cernunnos raggiunge la porta della fortezza e sente una voce potente levarsi.

- Perché vieni a sfidarmi, Cernunnos? Volgi indietro i tuoi passi, non sono Bith, io, o Diarmaid. Ben altro è il mio potere.

Cernunnos non può vedere colui che parla, ma nel cuore del dio non vi è paura.

- Lo so, grande Donn. Per questo sono qui. Perché tu solo puoi dare una risposta alle domande che mi pongo. Grande è il tuo potere. Non sono venuto per sfidarti, ma per interrogarti.

- Non puoi sapere nulla da me, se non sfidandomi e vincendomi. Molti hanno provato e puoi vedere da te quale sorte hanno incontrato. Vattene, se non vuoi che la tua testa si aggiunga alle molte che già sono infisse sui pali.

- Non ho paura di te, Donn. Se non ho altro modo per sapere da te ciò che bramo conoscere, ti sfido. Se il destino vuole che la mia testa sia infilata su uno di questi pali, sarà un degno ornamento per la tua fortezza. Se altro sarà l’esito della lotta, risponderai alle mie domande.

La porta si spalanca ed il dio appare. Egli è simile a Cernunnos per statura e forza, ma i suoi capelli sono neri come la barba folta. Ha con sé una lancia.

- Eccomi, Cernunnos. È una grande lotta quella che ci attende. So che sei un avversario formidabile, ma non ti temo.

Donn e Cernunnos si affrontano.

Donn scaglia la sua lancia, che Cernunnos schiva. Essa vola lontano, fino a raggiungere la montagna. Dove essa tocca la parete, si apre una grotta profonda, che oggi è chiamata Grotta della lancia.

È il turno di Cernunnos. Anch’egli lancia la sua arma, ma senza maggiore fortuna: Donn la evita ed essa colpisce la prima porta della fortezza, squarciandola. Attraversa le altre sei porte, fino a fermarsi alla base del trono di Donn.

- Bel colpo, Cernunnos. Ora puoi contare solo sulla tua forza.

Ed il dio si scaglia contro di lui.

Donn afferra Cernunnos e lo solleva, stringendolo tra le braccia. È una stretta mortale, che stritola il giovane dio, ma questi non cede e le sue braccia potenti costringono l’assalitore a lasciare la sua presa. È il suo turno ora, di afferrarlo e cercare di bloccarlo, ma il dio della fortezza sfugge alle mani che cercano di avvinghiarlo.

 A lungo lottano i due dei, avversari davvero degni uno dell’altro. Di Cernunnos è maggiore la forza, di Donn l’esperienza. Ma Cernunnos osserva l’avversario e da lui impara ciò che ancora non sa. E infine le sue braccia vigorose riescono a stringere il dio in una morsa da cui questi non può liberarsi e lo forzano a toccare terra con un ginocchio. Il giovane ha vinto, davanti a lui si è piegato Donn, che ora giace al suolo, schiacciato sotto il peso di Cernunnos.

- Non puoi liberarti, Donn. Riconosci la tua sconfitta?

- Hai vinto, Cernunnos.

Allora il dio scioglie la sua presa. E Donn non si rialza. Volta la testa verso di lui e gli dice:

- Mi hai sconfitto lealmente ed io riconosco la tua vittoria ed il tuo potere. Sigilliamo un patto di pace: prendimi e sempre mi avrai come amico sincero.

Così dicendo offre a Cernunnos i suoi fianchi. La vista di quella carne possente desta il desiderio del dio, ma Cernunnos non vuole uccidere il suo rivale e sa che penetrandolo gli darebbe la morte.    

- Non è possibile: se io ti penetrassi, ti darei la morte.

- Lo so, Cernunnos, ma la morte è solo un passaggio, tu ucciderai questo corpo, che non deve più vivere, perché ha conosciuto la sconfitta. Sotto un nuovo aspetto rinascerò e sarò nuovamente invitto. Questo corpo che tu distruggerai è solo una delle forme che posso assumere. Venendo dentro di me, tu mi ridarai vita in altra forma.

Donn sorride. Cernunnos acconsente con il capo alla richiesta. Sa che grande è il potere di Donn ed immensa la sua esperienza.

- Dopo che mi avrai ucciso, lavati nella fonte che c’è al centro della fortezza.

Le mani del dio accarezzano la carne che gli si offre e la grande asta si appoggia all’apertura. Lentamente le mani fanno pressione sulle natiche possenti di Donn e la allargano. Allora Cernunnos spinge in avanti la sua arma, che penetra nella carne divina, lacerandola.

Il piacere che avvolge Cernunnos è immenso. Il dio procede con lentezza, finché il desiderio che si espande dentro di lui non diviene troppo forte. Allora il dio incomincia a muovere con vigore la sua arma formidabile. Il desiderio che lo invade straripa e il fiotto riempie le viscere dilaniate di Donn.

Lancia un grande grido il dio della fortezza ed il corpo senza vita si affloscia. La terra sembra tremare e la palizzata che circonda la fortezza crolla. Altri muri, più interni cadono ugualmente e ben presto dell’immensa rocca che sfidava il mondo rimangono solo le macerie.

Cernunnos si ritrae, il membro lordo di sangue. Penetra nelle rovine della rocca e raggiunge la sorgente che si trova al suo interno. Qui si immerge e si deterge il corpo. Poi esce nuovamente.

Il corpo di Donn è ancora disteso a terra, in un lago di sangue, ma sotto gli occhi di Cernunnos un prodigio si compie. Il corpo si contorce, le gambe si uniscono, le braccia si fondono con il tronco, il collo scompare e Donn è ora un grande serpente che si arrotola sul suolo. E le mura della fortezza si sollevano nuovamente, la palizzata risorge, più grande e terribile.

Il serpente striscia verso Cernunnos e sale sul corpo del dio. Poi si avvolge intorno a lui, cingendogli la vita come una cintura di carne. 

La testa si erge fino a sfiorare un orecchio del dio e la voce del serpente sibila:

- Io ti lascerò tre segni del nostro patto di amicizia.

Il serpente affonda i denti nel collo del dio, sulla nuca, e dalla ferita il sangue zampilla in due rivoli che corrono intorno al collo e si avvicinano, senza congiungersi, sul davanti. Il sangue della ferita si trasforma in oro: è un monile a forma di serpente, con la testa e la coda che quasi si congiungono. 

- Questo monile, che nessuno può togliere dal tuo collo, se non lo farai tu stesso, ti renderà immune da ogni ferita. Nessuno potrà lacerare la tua carne.

La testa del serpente ora si avvicina al polso destro e morde a fondo. Cernunnos sente i denti penetrare nella carne. Il sangue zampilla attorno al braccio, creando una spirale, che si trasforma in un monile d’oro, un lungo bracciale a forma di serpente che si avvolge due volte intorno al braccio.

- Questo monile, che nessuno può togliere dal tuo braccio, lo renderà invincibile. Nessuno, dio o uomo, potrà sfuggire ai tuoi colpi.

La testa del serpente ora scivola in basso, fino al grande sesso di Cernunnos, che svetta, nuovamente gonfio di sangue.

Cernunnos sente i denti del serpente che lacerano la pelle alla base del membro ed un rivolo di sangue si forma là dove i testicoli possenti del dio si uniscono alla carne.

- Questo anello segreto, invisibile agli occhi degli uomini e degli dei, proteggerà la tua virilità da ogni maleficio: nessuno potrà violarlo.

Cernunnos guarda il monile che orna il suo braccio, accarezza con il dito quello che cinge il suo collo e poi quello segreto.

- Ti ringrazio dei tuoi doni, Donn. Essi mi ricorderanno la nostra amicizia e perciò mi saranno sempre cari. Ma venni qui, attraverso terre spopolate, per sapere se posso avere ciò che brama il mio cuore. Tu lo sai, Donn?

Il serpente ruota tre volte intorno alla vita di Cernunnos e gli risponde:

- Lo so, Cernunnos, io so tutto.

Il serpente avvolge nella sua bocca il membro possente del dio, poi la sua testa si infila tra i grandi testicoli ed infine scivola dietro, fino a premere contro l’apertura segreta.

- La maledizione di tuo padre ti accompagna, Cernunnos. Ogni anno, trasformato in uno degli animali che ami cacciare, sarai ucciso e gli uomini si ciberanno del tuo corpo e della tua virilità. Ma dopo che il tuo corpo sarà stato sbranato, ritornerai alla tua forma divina.

- Non è il ferro che dilania la carne a preoccuparmi. Se questo deve accadere, che accada. Ma la maledizione di mio padre mi impedisce di avere un compagno.

- Solo una forza più grande dell’odio di Esus può sconfiggere la maledizione. Ma a lungo dovrai attendere ciò che desidera il tuo cuore. Chiunque tu possederai morirà nella sua forma umana e ne assumerà una nuova.

- Non potrò mai avere un compagno?

- Puoi assumere la forma di un mortale e trovare compagni per la breve stagione della vita umana. Potrai dare e prendere piacere senza portare la morte. Ma solo come dio troverai chi cerchi e solo chi per amor tuo affronterà la morte potrà esserti compagno. Quando tornerai tra gli uomini, scegli la tua residenza. Là sorgeranno templi in tuo onore e ogni anno ti verrà offerto in sacrificio un uomo. Adesso devi andare, ma ricordati, qui avrai sempre in me un amico. Addio, Cernunnos.

- Aspetta, Donn. Tu dici che dovrò attendere a lungo. Non ha importanza, la mia vita non segue il conto dei giorni degli uomini, io vivrò fino a che gli dei non si rinnoveranno. Ma troverò quello che cerco?

- Un giorno, Cernunnos.

- Dimmi un segno, perché io possa riconoscere colui che cerco.

Il serpente scuote la testa.

- Lo capirai, non hai bisogno di un segno.

Poi Donn scivola via ed entra nella fortezza. Cernunnos lo segue con gli occhi finché il dio non scompare e le porte si richiudono.

Cernunnos guarda il grande portone sbarrato. China il capo. La risposta che ha ottenuto non basta a placare il suo cuore, ma Donn ha detto che un giorno troverà quello che cerca. Cernunnos rivede quegli occhi azzurri come il mare profondo.

 

2009

 

 

 

 

 

 

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