Un picciotto beneducato

 

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         - Perché ci sei andato da solo? Vuoi proprio finire ammazzato?

      Ettore alzò le spalle.

      - Inutile andare in due. C’era solo da fare un controllo.

      - Commissario, non mi pigliare per il culo. Queste minchiate le racconti a qualcun altro. Sappiamo tutti e due che è roba che scotta. Per non bruciarsi bisogna muoversi come i gatti, mentre tu…, non è che… che vuoi proprio farti sparare?

      Ettore guardò Salvo. Per un attimo pensò che potesse sapere, ma non era così. Aveva fatto gli esami a Roma apposta per evitare che qualcuno potesse parlare. E nessuno conosceva la sua storia con Antonio. L’aveva accuratamente tenuta nascosta a tutti. Un commissario finocchio a Trapani non avrebbe potuto lavorare. Ma quella storia con Antonio per Ettore era stata tutta la sua vita e ora che Antonio aveva ottenuto il trasferimento, le giornate avevano perso ogni sapore. Da mesi, alzarsi il mattino gli appariva uno sforzo inconcepibile e non trovava nessuna ragione per compierlo. Il risultato degli esami non l’aveva stupito. Aveva pochi mesi da campare e nessuna voglia di vivere nemmeno una giornata di più.

      L’inchiesta sul traffico d’armi avrebbe risolto i suoi problemi. Stava ottenendo risultati e, man mano che procedeva, la fine si avvicinava. Per quel giro avevano già ammazzato due agenti, sei anni prima, una bomba nell’auto, messa mentre i due esploravano l’area intorno ad un vecchio cascinale.

     E ora che il commissario Messina aveva cominciato a ficcare il naso in quelle vecchie carte, a interrogare mezze seghe e personaggi eccellenti, ora che stava mettendo le mani nel vespaio, anche il commissario Messina avrebbe fatto la fine dei due agenti. C’era già stato un avvertimento.

      Prima era, meglio era.  

      - Chiedi almeno una scorta.

      Ettore scosse la testa. Non intendeva coinvolgere nessuno, non voleva provocare la morte di nessun altro.

      Si alzò.

      - Lascia perdere, Salvo. Non stare a preoccuparti.

      - Cristo! Come cazzo faccio a non preoccuparmi, quando so che ti faranno saltare in aria e tu te ne vai in giro da solo come se niente fosse?! Sei una testa di minchia, commissario!

      Ettore sorrise all’irruenza di Salvo. Il suo vice gli voleva davvero bene. Se avesse amato lui, invece di Antonio, ora avrebbe cercato di suggere da quegli ultimi mesi di vita tutto il nettare che ancora potevano offrirgli. Ma Salvo aveva una moglie e due picciriddi. E lui aveva amato Antonio, che aveva chiesto il trasferimento per paura che la loro storia saltasse fuori.

      Guardò Salvo e gli sorrise. Poi gli disse:

      - Serve a qualche cosa saltare in aria in due?

      Uscì senza dare a Salvo il tempo di replicare. Raggiunse l’auto e salì. Al momento di mettere in moto, si chiese, come faceva sempre da due o tre giorni, se sarebbe saltato in aria. Lo desiderava, prima era, meglio era. Eppure, ogni volta doveva respirare a fondo ed infilare la chiave lo faceva sudare. Come se non fosse bastato il caldo porco di quei giorni a farlo sudare come un maiale. Ma quel paese del cazzo in cui l’avevano mandato, d’estate era peggio del Sahara.

         Quel paese del cazzo, in cui aveva conosciuto Antonio.

         Guardò la via davanti a sé, sgombra. Se fosse esploso ora, nessuno sarebbe rimasto ucciso.

         Girò la chiave. Il motore si mise in moto.

      Dal commissariato a casa sua erano venti minuti di strada. Si lasciò alle spalle la città e percorse la provinciale. Lì passavano sempre auto. Se lo aspettavano da qualche parte, non era lì, ma dopo il bivio, lungo la strada secondaria che lo portava a casa sua. Lì non passava mai nessuno.

      Svoltò. Dopo due chilometri vide un’auto ferma sulla destra, qualcuno era seduto al volante. Si tese e sentì una contrazione alle viscere. In lontananza, vide un’altra macchina sbucare da una curva. Di rado qualcuno passava lungo quella strada. Un’auto ferma ed un’altra che arrivava in direzione opposta, lungo una strada quasi sempre deserta.

Il solito incidente per bloccarlo, la sventagliata di mitra per farla finita. Respirò di nuovo a fondo e continuò a guidare. Era quello che voleva, no? Sì, era quello che voleva, ma aveva paura lo stesso. Sudava abbondantemente, si sentiva un nodo alla gola. Deglutì, con fatica.

      Superò la macchina ferma, senza guardarla. Arrivò all’altezza dell’altra auto. Passò oltre. Non era successo niente. Guardò nello specchietto retrovisore. L’auto proseguiva per la sua strada, l’altra era sempre ferma al posto di prima. Nulla.

      Ogni volta tirava un sospiro di sollievo. E ogni volta provava lo stesso rammarico, al pensiero che non era ancora arrivata l’ora.

      Parcheggiò contro il muro e scese.

      La sua abitazione era isolata. Anche quello era un buon posto per ucciderlo. Malfitani era saltato in aria aprendo la porta di casa sua. Infilò la chiave nella toppa e girò. Due giri. La porta si aprì.

      Entrò e si diresse subito in camera. Era in penombra, come l’aveva lasciata lui, le imposte chiuse e i vetri aperti. Si tolse le scarpe, la camicia, i pantaloni e le mutande e si diresse in bagno. Girò il rubinetto della doccia e regolò il miscelatore su una temperatura piuttosto bassa, poi entrò nella cabina e assaporò la frescura che gli regalava l’acqua.

      Il momento più bello era quando metteva la testa sotto il getto. Ora che si era rasato a zero, gli dava una sensazione di freschezza incomparabile.

      Rimase un buon momento sotto la doccia.

      Poi uscì e si asciugò la testa, passando appena l’asciugamano sul corpo. tanto si sarebbe trovato asciutto in fretta.

      Si diresse in cucina. Aprì il frigorifero e prese una lattina di birra. Strappò la linguetta e bevve. La sensazione del liquido gelato che gli scendeva in gola era piacevolissima. Una doccia fresca ed una birra gelata, era la perfezione in una giornata così.

      Una doccia fresca, una birra gelata e il culo d’Antonio. Ma quello se lo poteva scordare. Quello non l’avrebbe mai più visto. Né quello, né altri, a meno di non prendere l’aereo e andare a Milano. In sauna o in qualche locale avrebbe facilmente trovato un picciotto con un bel culo. Non faceva fatica. Ben piantato e ben dotato, portamento marziale e muscoli al posto giusto, i picciotti gli giravano intorno come mosconi.

      Sì, come mosconi intorno ad uno stronzo. E lui presto sarebbe stato merda e nient’altro. Non valeva la pena di sbattersi per fottere ancora una volta.

      Prese una seconda birra dal frigo e tornò in camera. Si stese sul letto, le braccia e le gambe larghe. In casa il calore non era soffocante. La camera da letto era rivolta a nord e, con le imposte accostate, rimaneva ragionevolmente fresca. Ora era avvolta nella penombra.

      Come sempre, il pensiero tornò ad Antonio. E per mettere a tacere il cervello, Ettore cominciò ad accarezzarsi. Con calma, con lentezza. Passò la punta dell’indice sul capezzolo destro, due volte, poi appoggiò l’intera mano e sfregò con forza. Lasciò che la mano scendesse verso il ventre, che l’indice indugiasse sull’ombelico, scavandolo, mentre pensava al corpo di Antonio steso su quel letto, alle natiche allargate, all’apertura segreta che aveva tante volte forzato. La mano scese ancora, trovando ciò che cercava, già sul piede di guerra.

      Fu in quel momento che sentì il rumore. Forse neppure un rumore, appena una presenza. Qualcuno stava entrando nella stanza. Voltò il capo verso l’uomo. Era giovane, molto giovane. Una pistola in pugno.

      Finalmente. Ma il cuore cominciò a battere come se volesse uscirgli dal petto e si sentì la gola secca. Deglutì.

      Attese. L’uomo era vicino al letto, ora. Ettore poteva vederne il viso, ma così, di spalle alla finestra, non riusciva a scorgerne bene i tratti.

      L’uomo lo guardava. Gli guardava il viso, poi lo sguardo scendeva verso il sesso proteso. Ettore si rese conto che non aveva smesso di accarezzarsi. Sorrise.

      - Avanti. Datti da fare.

      Il giovane tese il braccio, la pistola in direzione del cuore. Esitò.

      Era spaventato. Ora Ettore riusciva a vederne meglio il volto. Era maledettamente giovane. Doveva essere al suo primo omicidio.

      - È la prima volta, vero?

      Il picciotto non disse nulla. Abbassò il braccio.

      - Quanto ti hanno dato?

      Il picciotto era troppo giovane. L’avrebbero eliminato. Poteva parlare, se lo prendevano.

      Il picciotto alzò nuovamente il braccio e puntò un’altra volta al cuore.

      - Spara, dai. È quello che devi fare, no?

      La situazione era assurda. Il picciotto non si decideva. Lo vide abbassare il braccio.

      Ettore si mise a sedere sul letto. Il picciotto arretrò di un passo, puntando la pistola.

      - Avanti, hai mica paura di sbagliare?! Sono un bersaglio grosso.

      Era sempre stato grosso, anche se non grasso. Un fisico massiccio e una grande forza. Avrebbe potuto piegare quel picciotto come un fuscello.

      Il picciotto lo guardava, ora in faccia, ora più in basso.

      Solo seguendo il suo sguardo, Ettore capì. A turbarlo non era solo in pensiero di uccidere. Era il suo sesso eretto. Probabilmente…

      Ettore spostò il braccio verso il comodino, mentre il picciotto si irrigidiva nuovamente. Prese la birra ancora chiusa e l’aprì. La porse al picciotto.

      - Bevi. È gelata.

      Il picciotto la prese. Esitò un momento, poi la portò alle labbra e bevve. Prima un sorso, abbassando subito lo sguardo, per assicurarsi che Ettore non facesse qualche movimento. Poi un altro sorso e infine tutto il resto.

      - Grazie.

      A Ettore venne da ridere. Il suo assassino era un picciotto beneducato, che gli diceva grazie per la birra. Grazie per la birra e cinque o sei colpi al cuore. Avrebbe vuotato il caricatore, quello, come tutti gli assassini alle prime armi, sempre timorosi che tre colpi al cuore non fossero sufficienti a uccidere.

      Ora il picciotto era di nuovo davanti a lui, la lattina vuota in una mano, la pistola nell’altra. E lui era sempre davanti al picciotto, una mano sulle lenzuola, l’altra ad accarezzarsi il cazzo.

      - C’è altra birra. Andiamo a berne.

      Non aspettò una conferma. Se fosse stata una manovra per alzarsi e poi saltargli addosso, prima di alzarsi avrebbe studiato le reazioni del picciotto, ma non gliene fregava un cazzo. Se gli sparava ora, andava benissimo. Era quello che voleva.

      Si diresse in cucina, seguito dal picciotto.

      Aprì il frigo e ne estrasse due birre. Si voltò. Il picciotto aveva il braccio teso, la pistola puntata, era pronto a sparare. Che cosa aveva pensato? Che lui teneva una pistola in frigo? Era una testa di minchia. Che razza di killer avevano trovato, per il commissario Messina!

      In cucina c’era più luce. Il picciotto doveva avere vent’anni, l’aria spavalda di chi ha paura, ma non vuole farlo vedere. Una peluria corta gli incorniciava il viso. Era carino, sì, molto carino.

      Porse una birra al picciotto, ma questi non la prese.

      - Aprila tu.

      Ettore annuì. Certo, non ci aveva pensato. Per aprirla avrebbe dovuto posare la pistola o comunque usare le due mani. Aprì la birra e gliela porse. Poi si sedette sulla sedia, di fronte al picciotto, aprì la sua birra e la trangugiò. Era gelata. La sensazione di freddo era splendida. Una birra gelata in corpo, la frescura in gola, il cazzo duro, non poteva chiedere di meglio per crepare.

      Be’, il cazzo cominciava ad abbassare la testa. Meglio dargli una mano.

      Ettore si passò la mano dietro ai testicoli e sentì la risposta immediata del desiderio. Guardò il picciotto, che osservava attento la piccola operazione. Stava finendo di sorseggiare la sua birra. Beveva piano.

      Ettore si alzò nuovamente, senza dire nulla, aprì il frigo e prese altre due birre. Ne rimaneva solo una, ma lui non ne avrebbe più avuto bisogno.

      Aprì una birra e la porse al picciotto, che aveva appena finito l’altra. Poi si sedette e aprì la sua. Trangugiò tutto d’un fiato. Di che beccarsi una congestione e rimanere secco, senza che quel povero cristo di assassino novello avesse più niente da fare. Poi passò la lattina nella mano sinistra, mentre la destra tornava in posizione, per stuzzicare il palo. Si passò la lattina sul torace e la sensazione della lattina fredda contro i capezzoli aumentò ancora la sua eccitazione.

      Il picciotto aveva bevuto qualche sorso, ma ora lo guardava, a bocca aperta, il braccio con la pistola inerte.

      Ettore si passò la lingua sulle labbra e il picciotto dischiuse le sue. Poi Ettore si passò la lattina ancora sui capezzoli, sul ventre, la premette contro i testicoli.

      Il picciotto fece un passo avanti. Aveva lo sguardo di un uccello affascinato da un serpente. Il serpente era quello che lui aveva tra le gambe. Be’, ora non tra le gambe, ora contro il ventre. Per nulla sinuoso. Rigido, rigido.

      Rigido e prepotente. Ora Ettore sapeva che cosa voleva. Per morire c’era tempo. Sarebbe morto prima di sera. Ora aveva voglia di quella carne giovane che aveva di fronte. Aveva voglia di fottere. E quel picciotto aveva la stessa voglia, anche se non l’avrebbe mai confessato.

      - Prendo un’altra birra.

      Si alzò con calma e, come aveva previsto, il picciotto non sollevò il braccio. Era di un’ingenuità sconcertante.

      Gli fu addosso prima che avesse il tempo di capire. Gli bloccò il polso destro con la mano e gli sferrò un pugno allo stomaco che lo piegò in due. Lo spinse contro il tavolo, gli piegò il braccio dietro la schiena, torcendolo fino a che il picciotto aprì la mano che stringeva la pistola.

      Prese la pistola e la posò sul frigo, mollando il picciotto, che si drizzò, ancora barcollando. In un attimo Ettore fu di nuovo dietro di lui e lo spinse in camera da letto.

      Lo sbatté sul letto, si mise cavalcioni su di lui e gli tirò via la camicia, strappando i bottoni. Poi si voltò, sempre rimanendo sopra il picciotto, e gli sfilò le scarpe, i pantaloni, le mutande. Il picciotto cercò di resistere, ma Ettore quasi non se ne accorse. Con una mano lo afferrò per il collo e lo spostò, in modo che fosse steso per intero sul letto. Guardò il culo del picciotto. Un bel culo, stretto e sodo. Un bel culo da fottere. L’ultimo culo che avrebbe avuto.

      Avvicinò due dita alla bocca, le bagnò ben bene di saliva, le passò tra i fianchi del picciotto e poi cercò il buco del culo. Quando le dita gli toccarono il culo, il picciotto fece per alzarsi, ma Ettore lo bloccò appoggiandogli la sinistra sulla schiena e gravando con tutto il suo peso. Percorse l’incavo tra le natiche, trovò l’apertura e spinse fino a far entrare il medio. Sentì la resistenza della carne, una carne ancora vergine. Il picciotto cercò di nuovo di sollevarsi, ma la mano di Ettore lo bloccava. Ettore estrasse il medio, sputò sulle dita e inumidì l’area intorno all’apertura, poi infilò due dita dentro, l’indice ed il medio. Sentì il corpo del picciotto guizzare sotto di lui.

      - Buono, buono, piccolo assassino. C’è un prezzo da pagare per fottere il commissario Messina: farsi fottere da Messina.

      Rise e gli parve che la sua risata, aspra, fosse carta vetro.

      Si stese sul picciotto, cercò con la punta del suo arnese l’apertura che aveva già violato, ed entrò, senza riguardi. Aveva spesso desiderato poter entrare così, con violenza. Ora poteva farlo. Il picciotto gemette, forse gridò, cercò di sfuggire all’arma che lo trapassava, ma il peso di Ettore gli impediva ogni movimento.

      Ettore cominciò a spingere, lentamente, avanti e indietro. Non aveva fretta. Sarebbe stata la sua ultima scopata e voleva godersela.

      Il picciotto gemeva, ogni volta che Ettore spingeva a fondo. Poi tacque, ma Ettore avvertiva la tensione che percorreva quel corpo schiacciato sotto il suo e vedeva le mani contrarsi e afferrare il lenzuolo a ogni spinta.

      La pressione dell’anello di carne intorno al suo membro, il calore di quel corpo, la tensione che lo percorreva: tutto moltiplicava il suo piacere. Avanti e indietro, avanti e indietro, fin quasi a uscire dall’apertura che lo accoglieva, e poi dentro, scavando ogni volta più avanti, fino a che i coglioni premevano contro quel culo martoriato.

      Avanti e indietro, lentamente, perché voleva che quel momento durasse il più a lungo possibile. Avanti e indietro, per potersi lanciare nuovamente in avanti, fino in fondo.

      Si fermò, perché sapeva che presto sarebbe venuto. Rimase un momento immobile. Con le mani accarezzò il culo del picciotto, poi le sue dita si strinsero a tenaglia, facendo gemere il ragazzo. Si sarebbe trovato i lividi, l’indomani.

      Poi, capì che non era più in grado di contenere l’urgenza del desiderio. Estrasse completamente il membro e lo infilò nuovamente con forza, strappando un nuovo gemito al picciotto.

      E infine venne, in una serie di spinte violente, mentre le sue mani seviziavano il culo del picciotto.

      Si afflosciò su di lui, esausto. Non aveva mai goduto tanto.

      Il picciotto non si muoveva ed Ettore rimase a lungo così, con una sensazione di appagamento completo.

      Il sesso gli era rimasto dentro il picciotto e l’anello che lo stringeva lo stimolava nuovamente. Ettore si rese conto che gli stava diventando di nuovo duro.

      Avrebbe potuto prenderlo di nuovo, ma non ne valeva la pena.

      Si mosse lentamente, sentendo nuovamente l’eccitazione crescere. Quando l’ebbe un'altra volta duro, decise che era giunta l’ora.

      Si ritrasse e si stese di fianco al picciotto. Aveva la cappella sporca. Merda e sangue.

      - Forza, picciotto, la pistola è sul frigo.

      Il picciotto si alzò, tenendo la faccia voltata dalla parte opposta. Zoppicando, ma cercando di nasconderlo, passò in cucina.

      Ettore guardò il lenzuolo accanto a lui e vide la macchia. Il picciotto era venuto. Bene, ora non avrebbe esitato.

      Si spostò in centro al letto e sentì contro il culo il lenzuolo bagnato ed appiccicoso. Si carezzò ancora il sesso. Voleva crepare con il cazzo duro.

      Sentì le dita toccare qualche cosa di molle. Le avvicinò al naso. Sentì l’odore di merda e di sborro.

Allargò leggermente le gambe.

      Vide il picciotto entrare, la pistola in mano. Aveva tracce di lacrime sulla faccia, ma la mano non tremava. Si mise al fondo del letto e le sue gambe quasi toccavano i piedi di Ettore. Ettore gli guardò il sesso, ancora un po’ turgido.

      Ettore capì quello che il picciotto voleva fare. Allontanò le mani dal ventre.

      Il picciotto tese il braccio. Ettore fissò la bocca della pistola, puntata verso il proprio sesso.

      Il primo colpo trapassò la cappella e gli esplose nel ventre. Ettore chiuse le mani a pugno, impedendosi di portarle alla ferita. Strinse i denti.

      Il secondo colpo raggiunse la base del cazzo.

      Ettore sobbalzò, inarcando la schiena, mentre una smorfia di dolore gli stravolgeva i tratti. Digrignò i denti.

      Il terzo colpo prese in pieno il coglione destro. Questa volta Ettore non riuscì a trattenere l’urlo che gli premeva in gola.

      - Aaaaaaaaaaaaaaaah!

      Si portò le mani al ventre, a coprire le ferite.

      Il picciotto rimase immobile. Allora Ettore, con uno sforzo, allontanò le mani coperte di sangue e allargò le braccia.

      Il quarto colpo trafisse l’altro coglione, ma Ettore non urlò. Con un movimento convulso portò di nuovo le mani sulla carne lacerata e si girò su di un fianco, piegando le gambe. Teneva le mani tra le gambe, stordito da un dolore che gli faceva scordare il suo assassino.

      Si sentì girare sulla pancia. Non capì, fino a quando non sentì la punta della pistola che premeva contro il suo culo, che forzava lo sfintere. Ora era dentro di lui. Ora aveva la sua morte in culo.

      Digrignò i denti.

      Uno, due, tre, quattro colpi gli esplosero in culo e in tutto il suo corpo divampò un unico grande incendio. Poi le fiamme si spensero e il cadavere del commissario Messina rimase steso a pancia in giù sul letto, le mani tra le gambe, una smorfia sul viso, il sangue che colava dalle ferite e dalla bocca spalancata.

 

2007

                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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