Dotazione naturale Mi chiamo George Carey, ma nessuno mi conosce con questo nome. Non è un nome famoso, anche se credo che negli archivi dell'esercito esista ancora un rapporto, strettamente riservato, in cui esso appare più volte. Qualcuno forse ricorda il nome di un mio prozio, il missionario William Carey, e quello di mio padre, Arthur Carey, che ottenne una certa celebrità durante la rivolta dei sepoys: era ufficiale a Kanpur nel 1857 e faceva parte della piccola guarnigione che cercò di impedire il massacro della popolazione inglese. I ribelli lo fecero a pezzi, letteralmente, ma divenne un eroe e ottenne una decorazione alla memoria. Sulla nave che la riportava in Inghilterra, mia madre, rimasta vedova tre mesi dopo il matrimonio, scoprì di essere incinta di me. La
morte eroica di mio padre mi valse un posto in un collegio militare, quando
ebbi raggiunto l’età necessaria. Era l'ultima cosa che mia madre avrebbe
voluto, ma non aveva mezzi per assicurarmi un'educazione adeguata, così
accettò che anch'io seguissi la carriera di mio padre. Io ero entusiasta di
fronte alla prospettiva di entrare al servizio della Regina. Al
collegio, provenendo da una famiglia che non era né ricca, né nobile, ed
essendo mantenuto a spese della regina, ero completamente escluso dalla
cerchia degli allievi di buona famiglia, ma riuscii a farmi alcuni amici. Malgrado la mia povertà ebbi un discreto successo: da mio
padre avevo ereditato un'alta statura e un fisico robusto, che mi mettevano
almeno in parte al riparo dalle piccole angherie quotidiane e mi assicuravano
buoni risultati in tutte le attività sportive. Dopo che la squadra di cricket
del collegio vinse il torneo grazie al mio contributo, mi conquistai il
rispetto e la stima dei miei compagni di studi. Un secondo elemento mi
assicurò una notevole popolarità, in una cerchia più ristretta, ma che
superava le barriere sociali. Si trattava di un'altra caratteristica ereditata
da mio padre: una sostanziosa attrezzatura naturale, molto ricercata da
alcuni. Mia
madre si risposò ed ebbe una figlia. Il mio patrigno era disposto ad
assicurarmi un'educazione non militare, ma io ormai amavo la vita del
collegio e chiesi di poter proseguire. Mia madre mi supplicò solo di non
farmi mandare in India: aveva in orrore quel paese, in cui mio padre l'aveva
portata subito dopo il matrimonio e in cui aveva conosciuto solo violenza e
morte. Ma andare in India era proprio quello che desideravo e gli anni al
collegio militare e le stesse preghiere di mia madre non fecero che
rinforzare il mio segreto desiderio: volevo vendicare mio padre, che io non
avevo mai conosciuto e che tutti sembravano aver dimenticato. Così, quando la
mia istruzione militare fu terminata, chiesi ed
ottenni di partire per l'India. In
India finii nella guarnigione di un grosso centro del Bengala. Malgrado il mio entusiasmo, o forse proprio per questo,
l'India si rivelò una delusione. Sulla rivolta dei sepoys
e sulla conquista dell'India avevo letto volumi interi, ma di quei tempi
eroici non rimaneva molto. Solo compiti di polizia
ed una noia mortale, in un paese incomprensibile ed ostile, con un clima
sfibrante. Mi
adattai e devo dire che anche nella guarnigione, dove c'erano alcuni miei
compagni di studi, riscossi un certo successo, dovuto agli stessi motivi che
avevano fatto di me uno degli allievi più popolari del collegio militare.
Dopo un anno però fui trasferito a Delhi, alle dipendenze del colonnello
George H. Non posso saperlo con certezza, ma sono
abbastanza sicuro che il mio trasferimento fu deciso molto in alto, quando
qualcuno degli ufficiali superiori venne informato di quanto succedeva nelle
scuderie. Il
colonnello H. era una personalità affascinante. A differenza
di tutti gli inglesi che avevo avuto modo di incontrare in India, egli
possedeva una profonda conoscenza di tutti i diversi aspetti del paese: si
interessava alle vicende storiche, alle credenze religiose, alle espressioni
artistiche, alle feste e ai riti. Era in grado di parlare l'hindi e altre
quattro lingue locali e frequentava i notabili indiani. La
sua visione del ruolo del dominio coloniale in India era molto diversa da
quella prevalente tra i cittadini inglesi: egli riteneva necessario cercare
una collaborazione, che tenesse conto delle caratteristiche specifiche dei
due popoli e contribuisse al benessere di entrambi. La sua rapida carriera,
dovuta a un eccezionale talento, e le sue opinioni, sostenute con
determinazione, gli avevano procurato molti nemici.
Tra questi vi era il colonnello Flemish, uno dei
tanti inglesi secondo cui gli indiani erano sostanzialmente dei selvaggi
superstiziosi, capaci nel migliore dei casi di diventare mediocri servitori.
Sia Flemish, sia H.
esercitavano una forte influenza tra gli alti gradi militari e molti
pensavano che uno dei due fosse destinato a diventare comandante in capo
dell'esercito inglese in India. Flemish nutriva un
odio feroce per H., che considerava un traditore, e
ne temeva il grande ascendente: come tutti i nemici di H., aspettava soltanto
un'occasione per perderlo. Quell'occasione
la offrii io, io che lo servii per due anni con una dedizione assoluta. Fu
proprio la mia dedizione a perderlo, perché egli non diffidava di me ed io
non sapevo di essere la pedina di un gioco molto più grande di me. Durante
i primi sei mesi egli insegnò a me e agli altri ufficiali che erano al suo
servizio a vedere l'India: mi resi conto che nei mesi precedenti non avevo
mai realmente osservato il paese in cui mi trovavo, non avevo mai cercato di
capirlo. La grande stima e il profondo affetto che provavo nei confronti del
colonnello mi aiutarono a superare i pregiudizi e l'India non mi apparve più
come uno sfondo incomprensibile ed ostile, ma come
una realtà ricca e palpitante. Imparai a vedere negli indiani esseri umani,
diversi dagli inglesi, ma non di rado migliori. Dopo
sei mesi il colonnello fece di me il suo aiutante e cominciò ad affidarmi
alcune missioni, che io svolsi con cura, senza chiedere spiegazioni, se non
me ne venivano date, senza curarmi dei pericoli, se ve n'erano. In capo ad un
anno il nostro era un rapporto di completa fiducia e di reciproco
attaccamento. Il
colonnello non si ingannava sulle persone e aveva saputo riconoscere in me
lealtà e dedizione. Perciò si fidava pienamente di me ed io non l'avrei
tradito per nulla al mondo. La nascita di un rapporto di fiducia tra di noi
era quello che volevano i nemici del colonnello. Giunse
il mese di settembre: ero al servizio del colonnello da un anno e mezzo. La
stagione dei monsoni stava finendo e l'aria era piena di profumi, di
un'intensità che solo chi è stato in India ha conosciuto. Le notti erano
calde, ma non incandescenti come nei mesi che precedono l'arrivo dei monsoni:
le piogge avevano portato frescura. Il
colonnello ed io eravamo affacciati al balcone della sua stanza nella base di
Udaipur, dove ci trovavamo per una missione
importante. Durante il giorno da quello stesso balcone avevamo sentito il
verso dei pavoni ed osservato le scimmie che
correvano nel cortile di un tempio vicino. Ora potevamo vedere la luna piena
che si rifletteva sul lago ed illuminava il palazzo
del rajà. Io
ero turbato: il calore, i profumi, la luce lunare, tutto sembrava esasperare
i miei sensi. Il mio corpo pareva lamentare la prolungata astinenza: da
quando ero passato al servizio del colonnello, non avevo più avuto rapporti.
Il colonnello taceva, pensieroso. Rientrammo
nell'appartamento. Quel giorno il colonnello aveva acquistato due miniature moghul: era un collezionista di arte indiana e in
particolare di miniature. Gli chiesi di mostrarmele, come aveva
fatto tante altre volte. -
Non sono due pezzi di valore. -
Tanto non me ne renderei conto. Sa bene che non sono un intenditore. Il
colonnello prese il pacco e ne estrasse una miniatura. -
Questa è del secolo scorso. È un buon pezzo, abbastanza accurato. Nella
miniatura vi erano alcune donne, affacciate ai balconi di una casa, che
lanciavano liquidi colorati sugli uomini in mezzo alla strada. La scena non
aveva nessun significato per me. L'unico dettaglio comprensibile era la
presenza tra gli uomini di Krishna, l'incarnazione
del dio Visnu: l'avevo visto in numerose miniature ed il colore blu del corpo lo rendeva facilmente
riconoscibile. -
Che cosa rappresenta? -
Holi. Non sa che cos'è? -
No. -
È una grande festa, si tiene all'inizio della primavera. Per le strade ci si
spruzza di colore. Alla fine della giornata uomini e donne sono tutti
multicolori. Rimasi
a lungo ad ammirare incantato i personaggi e i dettagli che scoprivo: il
colonnello mi aveva insegnato ad osservare con cura
le miniature, a gustarne i particolari. La miniatura, per quanto meno
raffinata di altre che il colonnello mi aveva mostrato, era molto ricca e a
ogni sguardo scoprivo un nuovo elemento. Il
colonnello esitò prima di farmi vedere la seconda miniatura. -
Questa è recente, anche se riprende una miniatura più antica. Non vale quanto
l'altra, ma è un soggetto raro. La
miniatura rappresentava due uomini seduti in un locale aperto su un giardino,
forse una veranda. Erano uno di fronte all’altro, con i loro corpi che si
toccavano. Indossavano entrambi una veste completamente aperta sul davanti e
un copricapo adorno di perle. Altre perle formavano collane che ricadevano
sui loro petti, sottolineando la loro condizione sociale elevata. Ad attirare l’attenzione
erano però i loro uccelli, grandi ed entrambi tesi verso il corpo che avevano
di fronte, su cui poggiavano. Avevo
visto nella collezione del colonnello alcune miniature erotiche, ma nessuna
aveva per soggetto due uomini. Guardando la miniatura, mentre il colonnello
mi osservava, mi sentii in imbarazzo. Ero troppo cosciente del suo sguardo. -
È molto bella. -
Sì, i visi e i corpi sono disegnati con cura. La
guardai ancora. La scena mi attraeva, ma non volevo avere l'aria di fissarla
con eccessivo interesse. Non sapevo che cosa dire e dove guardare. Fu il
colonnello a parlare: -
Non vorrei averla messa in imbarazzo. -
No, no. Non è questo… -
È un soggetto che scandalizzerebbe i nostri compatrioti. La nudità e
l’erezione mostrano chiaramente che non si tratta di due amici, d'altronde
l'atteggiamento è inequivocabilmente quello di due amanti. Esistono miniature
in cui vi sono un uomo e una donna in questa posizione. -
Non mi scandalizza per nulla. Credo che sia naturale. Temevo
e speravo che quella conversazione portasse da qualche parte e cercavo di non
mostrarmi ritroso, ma neppure troppo pronto. -
Non pensa che sia contro natura? -
No, se è ciò che si desidera. Continuavo
a fissare la miniatura perché avevo
paura di alzare gli occhi. Temevo che il colonnello vi leggesse i miei
pensieri. La
sua voce ora era un sussurro. -
Lei ha mai desiderato così? Allora
alzai lo sguardo e lo fissai. -
Sì. Avrei
voluto chiedergli se anche lui aveva mai desiderato un uomo, ma non osavo ed intuivo che ormai era superfluo. Il colonnello si alzò e andò a chiudere a
chiave la porta. -
Non vorrei che qualcuno sentisse questa conversazione. Chi ha molti nemici
deve avere anche molta prudenza. Non
tornò a sedersi. Rimase in piedi davanti a me. -
George? La
domanda non era espressa, ma era chiarissima. Io annuii e risposi. -
Sì. Nella
camera da letto di H., dopo che la porta fu chiusa a
chiave, il colonnello incominciò a spogliarsi, senza dire una parola, ma
senza distogliere lo sguardo da me. Malgrado avesse raggiunto i
cinquant’anni, aveva il corpo asciutto e vigoroso di un trentenne: solo la
peluria grigia del torace e del ventre rivelava la sua età. Vederlo nudo mi
eccitava, ma spogliarmi davanti a lui mi metteva in un imbarazzo mortale, che
la crescente eccitazione non faceva che aumentare. Mi
spogliavo con lentezza, sempre più a disagio per la violenza di un desiderio
che presto sarebbe emerso in tutto il suo vigore. Quando però, togliendosi
l’ultimo indumento, il colonnello si mostrò completamente nudo e potei vedere
quanto anche in lui il desiderio premesse, superai le mie remore e completai
rapidamente l’operazione. Il
colonnello emise un leggero fischio e quel segno d’ammirazione, in un uomo
non abituato a mostrare le proprie emozioni, mi riempì d’orgoglio. Non
sapevo come muovermi. Avevo posseduto numerosi maschi e pochi mi avevano preso, ma erano tutti più o meno della mia età e
di condizione non molto diversa dalla mia: magari più ricchi, talvolta anche
nobili, ma pur sempre studenti o soldati. Con loro non avevo remore, avevo
rapidamente perso ogni pudore nei gesti come nelle parole.
Qui mi trovavo di fronte ad un uomo che era il mio superiore e che
aveva parecchi anni in più di me. Mi dovevo muovere in un territorio in cui
valevano regole diverse da quelle a cui ero abituato, regole che non ero io a
stabilire. Io ero disposto a tutto, perché ammiravo
l’uomo che avevo di fronte più di ogni altro al mondo. Mi chiesi se non
stendermi direttamente sul letto, offrendogli il culo. Il
colonnello mi tolse d’imbarazzo, in un modo che non avevo previsto. Sorrise e
mi disse: -
Hai un cazzo splendido. Mentre
diceva queste parole, si inginocchiò davanti a me e incominciò a percorrermi
il cazzo con la lingua. Molte volte altri uomini avevano preso il mio
attrezzo in bocca, ma ora la sensazione era più
forte: da troppo tempo non venivo e l’uomo la cui lingua scivolava dalla
cappella ai coglioni era il colonnello! Lasciai
che la sua bocca lavorasse, che le sue labbra si aprissero per accogliere la
cappella, che i suoi denti mordicchiassero il cazzo, che le sue mani mi stringessero
avidamente il culo, che un dito stuzzicasse sfacciato il buco. Gli
accarezzai la testa, passandogli le mani tra i capelli grigi, sulle guance. Non
avevo parole, i movimenti della sua bocca mi stordivano. La tensione crebbe ed in un movimento convulso gli afferrai i capelli. La
sua bocca lasciò la preda e con voce roca il colonnello disse: -
Sì, fammi male! Rimasi
stupito, ma la bocca riprese il suo lavoro e, man mano che l’eccitazione
saliva, le mie mani si mossero più libere, afferrando ciocche di capelli,
stringendo la nuca o le guance. Poi
il desiderio divenne troppo forte. Chiusi gli occhi. Nuovamente
la bocca lasciò la sua preda. -
Fottimi, George, fottimi in bocca. Il
colonnello inghiottì di nuovo il boccone di carne e allora io gli misi una
mano dietro la nuca ed incominciai a spingere ed a
ritrarmi, con forza, mentre gli bloccavo la testa. Quando gli spingevo il
cazzo in fondo alla bocca, l’aria non entrava più e quando lo ritraevo il
colonnello respirava affannosamente. Venni,
infine, con un gemito di piacere, senza curarmi più di nulla, riempiendo la
bocca del colonnello di una quantità inverosimile di sborro.
Cercò
di inghiottire, ma non riuscì. Prese a tossire, soffocando. Allora ritornai
in me e gli tolsi la mano dalla nuca ritraendomi. -
Scusi, io… Il
colonnello tossì ancora, scuotendo la testa. Poi sorrise. -
È stato perfetto. Il
colonnello si alzò e mi baciò sulla bocca. Io lo abbracciai e a lungo rimanemmo
così, mentre le nostre lingue si incontravano e le nostre mani percorrevano
il corpo dell’altro. Di
nuovo il colonnello mi invitò a fargli male ed io lasciai che le mie dita gli
pizzicassero il culo, con energia. Ad ogni stretta
il suo desiderio sembrava accendersi ed io persi ogni freno. Il
colonnello mi prese una mano e la guidò fino a che le mie dita raggiunsero la
fenditura tra le natiche. -
Dai, mettimi un dito in culo. I
baci, le carezze, le strette avevano riacceso il mio desiderio e non esitai:
il medio stuzzicò l’apertura e poi si infilò dentro, senza tante cerimonie.
Il corpo che stringevo tra le braccia sussultò ed io spinsi la mia lingua più
a fondo in quella bocca e il mio dito più avanti in quel buco. Ormai
sapevo che cosa sarebbe successo e l’idea che presto avrei posseduto quel
corpo mi faceva impazzire. Presi
l’iniziativa. Sempre stringendolo, mi stesi sul letto e rimasi sopra di lui,
baciandolo e abbracciandolo. Dopo un po’ la mia bocca lasciò la sua e gli
morsi un capezzolo, poi l’altro. Sussultò, dicendo: - Sì! Mi
sollevai sulle ginocchia e guardai il corpo steso sul letto, la peluria
grigia del torace, il cazzo duro. Gli accarezzai, senza delicatezza, i
coglioni. Avevo ormai capito che il suo piacere richiedeva una certa dose di
dolore. Poi
lo voltai, certo che avrebbe ceduto senza opporre nessuna resistenza. Fu così infatti. Quando
fu steso sulla pancia, guardai quel culo che mi si offriva. Pensai che stavo per inculare il colonnello e il pensiero mi trasmise
un brivido. Mi sembrava di essere sul punto di commettere un sacrilegio e
proprio questa sensazione mi esaltava. Avvicinai
la lingua alla fenditura, tracciai una carezza umida. La ripetei, poi la
lingua si fermò in un punto preciso e fece pressione. Alzai
la testa e mi distesi su quel corpo che aspettava, fremendo, il colpo. Sentii
la voce del colonnello: -
Senza pietà! No,
non ci sarebbe stata pietà per il nemico vinto, per quest’uomo che veneravo e
per cui sarei stato pronto a morire. Avvicinai
la cappella al buco del culo e premetti contro l’ingresso. Spinsi e sentii la
carne cedere. Entrai, trionfatore, spingendo fino in fondo. Il colonnello
ebbe un guizzo. Mi
fermai. Il colonnello sussurrò: -
Toglilo, per favore. Ubbidii,
timoroso. -
Entra di nuovo, come prima. Ripetei
il mio ingresso trionfale e il colonnello sussultò di nuovo. Spinsi
fino a che i miei coglioni non toccarono il culo del colonnello. Ora ero
padrone di quel corpo e provavo una sensazione vertiginosa di trionfo. Rimasi
un buon momento fermo, gustando la pressione di quel culo intorno al mio
cazzo. Poi presi a spingere, avanti e indietro, prima lentamente, poi, man
mano che il desiderio saliva e si moltiplicava, con maggiore forza. Dal mio
cazzo il piacere saliva a ondate, violento e feroce, come non mi era mai
capitato. Le mie mani afferravano il corpo steso sotto il mio, accarezzandolo
e martoriandolo. Proseguii a lungo, incitato dai gemiti del colonnello,
mentre mi sembrava che la stanza ondeggiasse al ritmo del mio corpo. Infine
emisi un gemito che era quasi un urlo e sentii il seme prorompere. Il gemito
del colonnello rispose al mio: anche lui era venuto. Dopo
un buon momento, mi alzai. Ero turbato: ora che il desiderio si era placato,
mi sentivo a disagio. Ripensavo a quello che avevo fatto e non sapevo come
comportarmi. Fu
il colonnello a dare una risposta alle mie domande inespresse: -
George, spero che a te sia piaciuto come è piaciuto
a me. Annuii
e sorrisi. -
Se vorrai, quando le circostanze lo permetteranno, riprenderemo ancora questo
gioco, senza altri limiti che i nostri desideri. Per il resto, nulla
cambierà. -
Sì, signor colonnello. Era
una risposta molto formale, leggermente assurda, se si considera ciò che era avvenuto tra noi. Il
colonnello sorrise e aggiunse: -
George, lo faremo solo se e quando lo vorremo entrambi, non sei obbligato a
nulla. -
Lo farò sempre volentieri, signor colonnello. Era
la verità ed anche lui lo sapeva. Fummo
sempre molto prudenti e per sei mesi la nostra intimità rimase segreta.
Furono sei mesi di passione, in cui il colonnello mi aprì il suo cuore così
come mi offriva il suo corpo. Mi rivelò i suoi progetti e le sue ambizioni,
condivisi i suoi successi e le sue delusioni. Ero ogni giorno al suo fianco,
se non mi affidava qualche missione delicata che mi portava altrove. E quasi ogni notte i
nostri corpo si incontravano. Il ricordo più forte che
conservo di quelle notti riguarda la festa di holi,
a primavera. Durante il giorno, rimanemmo nel quartiere militare, ma la sera,
attraverso una porta secondaria, il colonnello mi portò nella città indiana.
Eravamo vestiti come due mercanti e, anche se i nostri tratti ci segnalavano
come stranieri, difficilmente qualcuno ci avrebbe presi
per inglesi: abbronzati e vestiti all’indiana, sembravamo piuttosto due
mercanti arabi o persiani. Avevamo fatto pochi passi,
quando i primi spruzzi di colore ci raggiunsero ed
in capo a mezz’ora eravamo davvero la tavolozza di un pittore. Le mille tinte
che si mescolavano e si sovrapponevano sugli abiti e sul viso finirono per
renderci identici a tutti gli indiani che festeggiavano, in un’esplosione di
grida, e danzavano al ritmo incalzante dei tamburi o seguendo le melodie
struggenti del sitar. La musica, la danza, le
grida, le risate, il caldo di quella notte finirono
per stordirmi e quando ci ritirammo, mi sentivo ebbro. Non rientrammo nel
quartiere militare: il colonnello aveva preso una stanzetta in una casa
indiana. Lì ci spogliammo ed il colonnello ridendo
mi spruzzò ancora, questa volta di nero: colorò l’unica parte di me che, in
quanto più coperta, era in una certa misura sfuggita alle continue aspersioni
di colore. Poi, sempre ridendo, si fece spruzzare di rosso la guaina in cui
io avrei dovuto, come ogni sera, infilare la mia spada nera. -
Avanti, trafiggi senza pietà con la tua picca! Conoscevo
i gusti del colonnello, in cui il piacere di essere riempito non rifuggiva
dal dolore, almeno in una certa misura. E quella sera, ubriaco di musica e
colore, sentivo che desiderava più forte che mai
l’impeto della lama che entra e devasta. Avvicinai
la punta della picca all’apertura. Guardai ammaliato l’arma nera affondare
nella carne rossa e spinsi senza pietà, ben sapendo quanto dolore avrebbe
provocato, perché sapevo altrettanto bene che il
colonnello voleva quel dolore. Sentii
il suo gemito, avvertii il tendersi spasmodico del suo corpo, ma non mi
ritirai. Avanzai deciso: la devastazione che provocavo era attesa e
desiderata, il non compierla sarebbe stato tradire. Non
avevo mai goduto intensamente come quella sera, in cui infine ci abbandonammo
abbracciati in quel letto sconosciuto. Tutto
finì tre giorni dopo. Sapevamo
entrambi che se il nostro legame fosse stato scoperto, la sua carriera e la
sua reputazione sarebbero state travolte. Ma eravamo
molto prudenti e forse ci illudevamo di poter continuare così per sempre. La
nostra prudenza non fu sufficiente: uno dei servitori del colonnello era al servizio dei suoi nemici e lo vendette. Aveva una copia
della chiave di una porta secondaria che immetteva nell'appartamento del
colonnello a Delhi: una porta sempre chiusa, ma non bloccata dall'interno. Una
notte entrarono da quella porta e ci sorpresero.
Entrarono al momento giusto: non c'erano dubbi su quello che stavamo facendo.
Io fui sopraffatto dalla vergogna, che mi bloccò assai più del timore per ciò
che ci sarebbe successo. Rimasi paralizzato, coprendomi con il lenzuolo. Il
colonnello invece mantenne una calma impeccabile. -
Bene, Flemish, lei ha vinto la sua battaglia, con
le sue armi. Il
suo tono era sprezzante. -
Lei sa che cosa questo significa, vero, H.? -
Le mie dimissioni. Se
si fosse trattato soltanto di una rivalità tra due uomini in lotta per il
potere, tutto sarebbe finito così: la possibilità di ricatto garantiva al
colonnello Flemish la completa vittoria e H. non avrebbe potuto fare altro che ritirarsi dalla
lotta, dimettendosi. Ma tra i due uomini c'era un odio mortale. -
Le sue dimissioni saranno inevitabili dopo la denuncia per sodomia. Il
colonnello non mostrò nessun segno di turbamento. Doveva aver previsto la
reazione di Flemish. -
Solo la mia morte dunque può evitare la denuncia. Non
era neppure una domanda. -
Sì. -
Se questo avverrà, mi garantisce che il sergente Carey non sarà coinvolto in
nessun modo in questa faccenda? Io
ero del tutto irrilevante per Flemish, che non ebbe
difficoltà a essere magnanimo: -
Sì, ma dovrà dare le dimissioni e tornare in Inghilterra. Su di lui rimarrà
un fascicolo riservato, a garanzia del suo assoluto silenzio su tutta la
faccenda. -
Va bene, Flemish. Le garantisco che questa notte
stessa mi suiciderò. Ora può andarsene. Flemish e i tre militari che lo accompagnavano uscirono. Ci
rivestimmo, in silenzio. -
Aspettami di là. Uscii.
Non avevo detto una parola. Nella
sua stanza il colonnello sistemava le sue carte. Io aspettavo. Aspettavo che
l'uomo che amavo, che stimavo più di ogni altro al mondo, si uccidesse.
Sapevo di essere il responsabile di quella morte, che comunque privava la mia
vita di senso. Decisi di uccidermi anch'io. Quando
il colonnello uscì dalla stanza, il suo viso non tradiva nessuna emozione.
Parlai per primo: -
Voglio chiederle perdono. -
Di che cosa? Non hai nulla da rimproverarti. -
Ho distrutto la sua vita. -
Ed io ho distrutto la tua. Come vedi siamo pari e toccava a me, se mai, per
la mia posizione, badare a tutti e due. Non ne sono stato capace e ne
paghiamo entrambi le conseguenze. L’unica differenza è che chi sta più in
alto, cade con più fragore. Addio, George, e grazie per la tua fedeltà e per
il tuo affetto. Questa lettera ti servirà nel caso qualcuno cerchi di tirar fuori questa storia per danneggiarti. Mi
porse una busta. -
Non occorre. Il
colonnello sospettò le mie intenzioni e mi scrutò. -
Che cosa vuoi fare? -
Quello che farà lei. -
Non dire sciocchezze. Vuoi che domani tutti commentino sul colonnello e sul
suo attendente suicidi nella stessa notte? Flemish ne approfitterebbe per far sapere la verità, in
modo da infangare la mia memoria. Non ci pensare nemmeno. Qualcuno deve
rimanere per garantire che Flemish non si accanisca
ancora su di me. Il suo odio potrebbe spingerlo a tutto. Il
colonnello mi conosceva ed aveva saputo trovare
l'argomento giusto: se avesse tentato di dissuadermi in altro modo, ad
esempio invitandomi a non rinunciare alle possibilità che mi offriva la vita,
non l'avrei ascoltato, ma la prospettiva di provocargli un ulteriore danno mi
atterriva. Chinai la testa e presi la lettera. -
Addio, George. Mi
abbracciò e rientrò. Di
nuovo ero in attesa, ma sapevo che questa volta non avrei dovuto aspettare
molto. Il colpo risuonò quasi subito. Entrai.
Il colonnello era riverso sulla scrivania, la pistola nella destra che
pendeva inerte. Alla tempia un foro da cui sgorgava il sangue. Dalla pozza
sulla scrivania un filo colava sul pavimento. Diedi
le dimissioni e tornai a Londra. Ero completamente svuotato. Non mi importava
di nulla e di nessuno. Non
avevo lavoro e non sapevo a chi rivolgermi per trovarne uno. I miei esigui
risparmi sfumarono in pochi mesi. Non volevo chiedere a mia madre di fare
altri sacrifici: il mio patrigno era morto poco prima del mio ritorno
dall'India e mia madre si era ritrovata con una piccola eredità, sufficiente
a garantirle un'esistenza dignitosa, ma nulla di più. Conoscevo
pochissime persone: qualche mio ex-compagno del collegio che non aveva
seguito la carriera militare o l'aveva lasciato molto presto, come me. Essi
però conducevano una vita dispendiosa, che era al di sopra dei miei mezzi,
per cui con loro mi ritrovavo poco. Una
sera ero ormai ridotto alle mie ultime dieci
sterline. Decisi di provare la fortuna al gioco. Dicono che la fortuna arrida
a coloro che giocano per la prima volta, ma non andò così: persi rapidamente
quanto avevo. La prospettiva di non avere più nulla mi spaventò e mi
aggrappai al gioco come a un'ancora di salvezza: giocai sulla parola e
continuai a perdere. Alla fine della serata avevo un debito di cento sterline
e non avevo la più pallida idea di come potevo procurarmi quella somma, di
per sé non esorbitante, ma per me enorme. Piuttosto di chiederla a mia madre,
posto che l'avesse, mi sarei buttato nel Tamigi.
Mentre stavo meditando quale alternativa potevo trovare a quel gesto estremo,
mi si avvicinò qualcuno che non avevo visto. -
Allora, George, non sei stato fortunato. Era
un mio compagno del liceo, rampollo di una ricca famiglia del Surrey. Con lui avevo avuto alcuni contatti, alquanto
profondi, perché era tra gli estimatori della mia dotazione naturale. -
Sono contento di vederti, Michael. Sono nei guai
fino al collo. -
Non hai di che pagare? -
No e non so a chi rivolgermi. -
È un bel guaio, in effetti. Sapevo
che la mia richiesta era assurda, ma ci provai lo stesso: -
Tu non potresti prestarmi cento sterline? -
Cento sterline? Hai perso parecchio! -
Sì, mi rendo conto che è una somma considerevole, ma te le ripagherò appena
mi sarà possibile. -
Ho un'idea. Non te le presto, ma ti offro una possibilità di guadagnartele. -
Guadagnarle? Non chiedo di meglio. Come? -
Direi riprendendo un'attività a cui ci siamo dedicati a suo tempo al
collegio. Un tempo la proposta mi avrebbe fatto
inorridire: si trattava né più né meno di prostituirmi. Nello stato d'animo
in cui mi trovavo, l'idea di vendermi mi sembrò del tutto irrilevante. E poi
non avevo più avuto rapporti dopo l'ultima notte con il colonnello e una
ripresa non mi dispiaceva per niente. Accettai. Michael
mi portò nell’appartamento che aveva a Londra. Osservai il lusso di quella abitazione e la confrontai con le camere spoglie in
cui vivevo con mia madre e mia sorella. Ma non aveva importanza, avevo ben
altri pensieri. Nella
camera da letto Michael incominciò a spogliarsi ed
io feci altrettanto. Per un momento mi dissi che era la prima volta, dopo la
morte del colonnello, che avevo un rapporto con un uomo e mi fermai. Mi
sentivo a disagio, mi sembrava quasi di tradire la memoria dell’unico uomo
che avessi mai amato. Ma c’era una tale apatia in me, che mi gettai alle spalle questi pensieri e ripresi a spogliarmi. Michael
mi osservava e quando ebbi finito, lanciò un fischio. -
Me lo ricordavo così, ma pensavo che la mia memoria esagerasse un po’, come
succede con quelle cose che da bambino ti sembrano gigantesche e che poi
quando le rivedi ti deludono. Sorrise: -
Qui non c’è proprio da essere deluso. Sorrisi
anch’io e guardai Michael. I capelli biondi e gli occhi azzurri gli davano
l’aspetto di un angelo, ma il corpo muscoloso e il cazzo duro smentivano
quell’impressione. Michael
si avvicinò ad avvolse con la mano il mio bastone. -
Vacci piano, George, che non sono abituato a picche di questa taglia. Si
stese sul letto, a pancia in giù. Per
un momento provai l’impulso di entrare con violenza, sfondandogli il culo, ma
era un’idea assurda. Michael mi offriva la possibilità di saldare un debito
che avevo fatto per la mia stupidità. Avrei dovuto essergliene grato. -
Inumidisci bene, George. Mi
bagnai due dita con un po’ di saliva e le feci scorrere vicino all’apertura.
Ripetei l’operazione e questa volta spinsi un po’, in modo da farle entrare.
A quel punto decisi che potevo incominciare. Sputai
sul palmo della destra e mi inumidii bene la cappella. Poi la puntai in
direzione del buco del culo di Michael, la appoggiai e incominciai a
spingere. Mi mossi con delicatezza e George mugolò di piacere. Con il
colonnello mi ero abituato a entrare con un certo impeto, ma con Michael fui
molto più delicato. Procedevo con precauzione, avanzando con grande lentezza. -
Fermati, George! Michael
voltò un po’ la testa e mi sorrise. -
È una meraviglia, George, un cazzo così non l’avevo mai più sentito. Non
mi importava molto del suo apprezzamento, ma ero contento che fosse
soddisfatto: era lui che mi pagava. -
Va bene, adesso datti da fare. Proseguii,
spingendo ancora un po’, ma senza arrivare fino in fondo. Poi arretrai e
avanzai di nuovo. Michael mi incoraggiava, ripetendo: -
Sì, sì! Per
un po’ mi mossi con lentezza, poi impressi al mio movimento un ritmo più
deciso. Avevo sempre avuto una notevole resistenza e volevo soddisfare
Michael. Per cui continuai a lungo, fermandomi quando la tensione diventava
troppo forte, per evitare di venire troppo presto. Michael
ora gemeva, sempre più forte. Infine emise un grido strozzato e capii che
stava venendo. Mi
fermai. Non sapevo che cosa volesse. Michael
rimase un momento in silenzio, poi girò la testa di lato ed esclamò: -
Cazzo, George, sei un toro! E non sei ancora venuto! -
Vuoi che esca? -
Sì, non lo reggo più, ora. Mi
ritirai. Pensavo che fosse finita, ma Michael mi guidò a stendermi sul letto
e mi prese in bocca il cazzo. Lo leccò, lo succhiò, lo accarezzò con le mani.
Io chiusi gli occhi e mi abbandonai a quelle sensazioni, piacevolissime. Sentii
il desiderio salire, fino a che capii che non sarei più stato in grado di
contenerlo. Avvertii Michael, che continuò a succhiare: ben presto gli
riempii la bocca del mio seme. Inghiottì finché poté, poi lasciò a malincuore
la sua preda. Io
guardai lo sborro che mi si spargeva sul ventre. Anche Michael lo guardava e
quando il getto si fermò, mi passò la lingua sul ventre e poi sul cazzo,
leccando ogni goccia. Continuò
ancora a leccare il cazzo, che era ancora duro. Mi succedeva spesso, fin da
quando ero ragazzo. Dopo essere venuto, se qualcuno mi stimolava un po’ il
cazzo, questo restava in tensione per parecchio tempo. Michael
lo guardava affascinato. Poi prese ad accarezzarlo con le mani. Lavorò a
lungo, poi si sedette su di me, in modo che il mio cazzo gli poggiasse tra le
natiche. Prese a strusciarsi, mentre gli tornava duro. Venimmo una seconda volta, insieme, e il suo sborro si
mescolò con il mio sul ventre. Michael mi ripulì di nuovo. Dopo che ci fummo
rivestiti, Michael mi diede le cento sterline, con
cui avrei potuto saldare il debito d'onore. -
Te le sei meritate. È stato fantastico! -
Ogni volta che sei interessato, sono a tua disposizione. Ho bisogno di
guadagnare. -
Allora potresti cercare lavoro in un bordello. -
In un bordello? Ero
stupefatto. Avevo sempre associato i bordelli con le puttane, non con i
maschi. -
Per fare che? Michael
scoppiò a ridere. -
Quello che sai fare molto bene. -
Ma... esistono bordelli...? -
Di uomini per uomini, certo. Ti posso presentare al proprietario di uno di
questi. -
Il guadagno è buono? -
Per uno come te, senz'altro. -
Allora accetto. Quando mi puoi presentare? -
Devo sentire il proprietario. Ma bada, la presentazione ha il suo prezzo. -
E sarebbe? -
Cento sterline, pagabili in contanti... -
Sai che non ho il becco di un quattrino. -
... o in natura. Scoppiai
a ridere. -
Anche subito. -
No, quando ti presenterò. Adesso non reggerei
un’altra volta il tuo sperone.
Tre giorni dopo Michael mi comunicò che il proprietario di una casa
situata nell'East End era interessato a vedermi. Mi accompagnò egli stesso.
Dall'esterno l'edificio appariva squallido, come tutti quelli che
componevano la via. L'interno invece era arredato con una certa cura, perché,
come ebbi modo di scoprire ben presto, la clientela di quella casa era
costituita da benestanti: ricchi borghesi, nobili ed anche qualche principe
di sangue reale. Quando
entrammo, però, il padrone non c'era. Ci accolse il tenutario: -
Il padrone non sarà qui prima di un'ora. Vi prega di aspettarlo. Il
mio amico acconsentì e il tenutario ci fece entrare in una stanza, in cui si
trovavano due poltrone ed un letto. Quando il
tenutario chiuse la porta, mi rivolsi a Michael: -
Ma non avevi preso appuntamento? -
Avrà avuto da fare. Non è un problema. Possiamo approfittarne per saldare i
conti. -
Perché no?
Ci sono uomini che a letto amano variare, lasciandosi guidare dalla
fantasia. Ce ne sono altri che invece tendono a ripetere gli stessi
comportamenti, perché sono quelli che corrispondono alle loro esigenze più
profonde, e che, se vogliono provare qualche cosa di nuovo, si limitano a
cambiare il compagno di giochi. Michael apparteneva a questa seconda
categoria e mi fece ripetere quanto avevamo fatto la
prima volta. Era però chiaramente più eccitato, appariva insaziabile e mi spronava
in continuazione. Pensai che fosse l'ambiente a stimolarlo in modo
particolare e questo era vero, ma c’era anche un altro elemento, che scoprii
solo alla fine della nostra attività. Infatti,
quando ci fummo rivestiti, Michael mi disse: -
Sono sicuro che sarai assunto, adesso che il padrone ha visto la tua
dotazione e l'uso che sai farne. -
Che cosa intendi dire? -
In questa camera il letto è messo in modo da essere perfettamente visibile da
quella parete, dove si trovano alcune aperture. Il padrone desiderava vederti
all'opera prima di assumerti ed ora che l'ha fatto,
sono sicuro del risultato. Rimasi
allibito. Non mi stupiva l’idea che il padrone avesse voluto osservarmi in
azione, ma non capivo come Michael si fosse prestato ad
esibirsi. Ma, ripensandoci, capii che era proprio il fatto di esibirsi di
fronte ad un testimone che lo aveva eccitato tanto. Il
padrone entrò di lì a poco e, come aveva previsto Michael, fui assunto. Tre
giorni dopo incominciai a lavorare.
Il mio lavoro non mi dispiaceva: avevo sempre avuto un forte appetito
e in questo modo riuscivo a soddisfarlo, riempiendomi anche il portafogli.
Ben presto raggiunsi una certa fama: avevo alcuni clienti fissi, che richiedevano
esclusivamente di me. Riuscii a mettere da parte una piccola somma e
progettavo già di lasciare la casa di mia madre e di cercarmi un
appartamentino. Una
sera mi venne annunciato che un cliente si sarebbe
trattenuto tutta la notte: non era frequente, perché il costo di un'intera
notte era piuttosto alto. Il tenutario mi raccomandò di soddisfare ogni sua
richiesta, perché teneva moltissimo a questo cliente, che aveva gusti un po’
particolari. Il
cliente era un uomo alto, magro, con qualche anno in più di me. Mi diede
subito un’impressione di grande forza e determinazione. Mi
salutò cortesemente e mi parlò subito con chiarezza: -
Il signor Biggs le avrà detto che ho esigenze particolari. Annuii: -
Sono qui per soddisfarle. Mi
guardò attentamente. Spesso i nuovi clienti mi osservavano per decidere se
volevano le mie prestazioni. Questa volta però avevo la sensazione precisa
che quell’uomo mi stesse studiando e valutando molto più a fondo di quanto
non avveniva di solito. -
Benissimo. Vediamo subito come se la cava. Mi piace un po’ di violenza. Per
cui adesso mi deve dare qualche pugno in pancia, finché non cado. Allora mi
spoglierà, con le buone o con le cattive, picchiandomi ancora, se necessario,
e mi legherà le mani dietro la schiena. La
sua richiesta non mi stupì: non era certo insolita. Alcuni clienti mi
chiedevano di frustarli, di picchiarli, di umiliarli in vari modi che non è
il caso di descrivere. Il cliente decide e il suo accompagnatore esegue. Io
eseguivo, almeno entro certi limiti. Alcuni dei miei colleghi non ponevano
nessun limite, ma io potevo permettermi di dire di no, in certe occasioni. Lo
facevo di rado. Mi avvicinai all’uomo e lo
colpii allo stomaco. Mi aspettavo di vederlo piegarsi in due, perché, anche
se non avevo certo usato tutta la mia forza, era stato un colpo abbastanza
deciso. Ma l’uomo non fece una piega, come se l’avessi appena sfiorato. Gli
vidi solo un’ombra di sorriso, chiaramente ironico, come a dire: “Tutto qui?” Colpii
più forte e questa volta gli lessi in faccia che il
pugno aveva avuto un certo effetto, ma non cadde, non si piegò neppure. Non mi ero sbagliato quando l’avevo
giudicato un uomo forte: avevo soltanto sottovalutato la sua forza. Lo
dovetti colpire altre quattro volte, con tutte le mie forze, per vederlo
infine cadere in ginocchio, le mani contro il ventre. Allora lo presi per i
capelli e lo sbattei a terra. Mi sedetti sul suo culo e incominciai a
togliergli la giacca e la camicia. Non oppose resistenza, ma non mi facilitò
neppure il compito. Gli tolsi ancora le scarpe, ma quando cercai di
togliergli i pantaloni, cercò di divincolarsi. Aveva
una grande forza e non riuscivo a tenerlo fermo. Allora lo voltai e gli
mollai un bel pugno nello stomaco. Poi, senza dargli il tempo di riprendersi,
gli tolsi pantaloni e mutande. Era
alquanto ben dotato. Istintivamente, senza pensare, gli presi con le mani i
grossi coglioni e li stuzzicai energicamente. Ebbe un guizzo, ma sorrise.
Ripetei l’operazione, due volte, in modo sempre più brusco. Vidi che gli
procurava piacere. Il suo cazzo incominciò ad
irrigidirsi. Poi
mi alzai per prendere la corda che pendeva ad una
parete: in tutte le stanze ce n’era almeno una, perché quella di farsi legare
era una pratica abbastanza comune. Quando però cercai di legare i polsi dell’uomo,
questi oppose resistenza e non fu facile forzarlo. Mi rendevo perfettamente
conto che se avesse fatto opposizione fin dall’inizio, non avrei avuto la meglio su di lui, per quanto fossi forte come un
toro e più alto di lui di almeno cinque dita. Un
altro elemento mi rendeva più difficile manovrare: ero ormai eccitato e il
contatto con quel corpo nudo mi trasmetteva brividi che rendevano i miei
movimenti meno efficienti. A un certo punto mi sdraiai su di lui e gli passai
le braccia intorno al torace, per bloccarlo, ma steso in quel modo, a
contatto con quel corpo, facevo fatica a controllare la mia eccitazione. La
lotta proseguì a lungo. Io non volevo fargli male e non osavo colpirlo al
viso. Gli diedi diversi colpi allo stomaco, ma
avvinghiati come eravamo, i miei pugni non avevano la forza necessaria a
domare un uomo di quella tempra. Fu
lui infine a dirmi: -
Passami il braccio intorno al collo e stringi, finché non sono più in grado
di resistere. Obbedii.
Gli cinsi il collo con un braccio ed incominciai a
stringere. Ero spaventato, temevo di stringere troppo, di ucciderlo. Ma ero
anche eccitato. Lo sentii dibattersi
disperatamente. -
Più forte! La
voce con cui aveva pronunciato il comando era strozzata. Esitai, poi piegai
il braccio di più. Ci fu ancora un guizzo, poi
l’immobilità. Lo lasciai subito, spaventato, e lo voltai. Vidi con sollievo
che respirava ancora. E che aveva il cazzo teso come una lama. Il cuore
batteva regolarmente e l’uomo stava sbattendo le palpebre. Allora lo rivoltai
e, prima che potesse opporsi, gli legai saldamente le mani dietro la schiena.
Poi
lo voltai e lo guardai in faccia. Mi sorrise. Anch’io gli sorrisi. Quell’uomo
mi piaceva, era inutile che lo negassi, la protuberanza dei miei pantaloni
era un indizio chiarissimo di quanto mi attraeva. Non
mi diede nessun ordine ed io non sapevo che fare. Ci
guardavamo e sorridevamo. Pensai che gli avevo dato
tanti di quei pugni che doveva essere rintronato. Era
steso a terra, sulla schiena, le mani legate dietro. Non era una posizione
comodissima. Gli passai una mano sulla faccia, tra i capelli. Fu un gesto
istintivo, ma lui sorrise di nuovo e allora ripetei il gesto. Continuava a
tacere ed io mi stesi al suo fianco e lo baciai sulla bocca. Era assurdo,
completamente assurdo. Non avevo mai baciato un cliente. Ben di rado mi era
capitato di baciare qualcuno sulla bocca. Ma in quella notte che
incominciava, limiti e confini stavano saltando. Quando
la sua lingua si infilò tra le mie labbra, aprii la bocca più per lo stupore
che per accoglierla, ma quando si ritirò, fu la mia a seguirla. Ci baciammo a
lungo, senza una parola, senza un suono, mentre le mie mani percorrevano il
suo corpo. Avrei voluto che le sue percorressero il mio. In
una pausa del nostro gioco di baci, mi parlò di nuovo: -
Alzati e, stando sopra di me, spogliati completamente. Mi
drizzai, mettendo i piedi uno a destra e uno a sinistra del suo culo, e mi
tolsi tutto quello che avevo addosso. Lo feci lentamente, molto lentamente,
senza smettere di fissarlo negli occhi. Infine
fui nudo, in piedi sopra di lui. Sorrise,
contemplandomi. Continuava a tacere. Io
gli posai un piede sul ventre e, con delicatezza, incominciai ad
accarezzarlo. Non l’avevo mai fatto, ma il silenzio di quell’uomo mi
stimolava. Gli passai il piede sul torace, poi sulla faccia. Gli lessi negli
occhi che gli piaceva e premetti con forza, costringendolo a voltare la testa
di lato. Poi ritornai ad accarezzare, passando il piede sul collo, sul
torace, premendo sui capezzoli, scendendo al ventre. Gli poggiai il piede sul
cazzo e premetti con forza. Poi scivolai sui coglioni. Divaricò
le gambe. -
Prendimi a calci. Non aveva specificato, ma avevo capito
benissimo. Gli
diedi un colpo leggero ai coglioni. Sussultò. Lo
colpii una seconda volta, un po’ più forte. Chiuse gli occhi, trattenendo un
urlo. Avevo voglia di colpirlo, più forte, eppure non volevo fargli male. O
forse lo volevo. Riaprì
gli occhi: -
Ancora, più forte. Esitai,
ma lo colpii. Questa volta ebbe un guizzo e spalancò la bocca, ma non urlò. Mi
stesi su di lui. I nostri corpi aderivano completamente e i nostri cazzi,
entrambi tesi, erano l’uno contro l’altro. Lo
baciai ancora, più volte, spingendo la lingua in profondità. Ricambiò i miei
baci. E
poi, come prima, a quel momento di tenerezza, seguì una richiesta di
violenza. -
Prendimi a sberle in faccia. In
un altro momento, in un’altra situazione, con un altro uomo, la richiesta mi
sarebbe sembrata solo la stranezza di un tipo fuori di testa. Ma in quel
momento mi sembrava che ogni cosa che quell’uomo mi diceva, per il solo fatto
che me la diceva, diventasse anche il mio desiderio. Mi sedetti sul suo
torace e gli diedi uno schiaffo, poi un altro. Lo colpii più e più volte,
senza smettere, prima più delicatamente, poi con forza, finché dal naso non
gli colò un po’ di sangue. Allora
smisi e nuovamente lo baciai, più e più volte. Mi sembrava di essere ubriaco,
di non essere più in grado di capire quello che facevo. E forse era davvero
così. Adesso
però il desiderio era troppo forte. La tensione del mio cazzo era diventata
una tortura e sentivo il bisogno di alleviarla. Ma non sapevo che cosa voleva
lui. Non ero io a condurre il gioco. -
Voltami. Lo
girai. Ora avevo davanti agli occhi il suo culo, forte
e muscoloso. Il desiderio premeva feroce. -
Mordi, colpisci. Morsi
con forza, con tutta l’urgenza del bisogno che non riuscivo più ad arginare.
Morsi più volte, guardando la curva rossa lasciata dai denti in quella carne
chiara. Colpii con le mani, con tutta la forza di cui ero capace, più e più
volte, lasciando altri segni rossi. Affondai le dita nelle natiche e le
strinsi. Poi
avvicinai il viso e incominciai a percorrere quel culo con la lingua,
scendendo ogni volta nell’avvallamento profondo, percorrendolo in una
direzione e nell’altra, in preda ad un piacere sfrenato. La lingua indugiò a
lungo sul buco, lo forzò. Non
avevo mai fatto nulla del genere, non rientrava nelle mie prestazioni. Ma non
avevo più limiti e sentivo che se quell’uomo mi avesse chiesto di farmi del
male, avrei obbedito. Ripetei
l’operazione più volte, poi mi sdraiai su di lui, gli morsi una spalla, il
collo, la nuca. -
Ora prendimi, con tutta la forza di cui sei capace. Aspettavo
con ansia quel momento. Ancora una volta obbedii, ben sapendo che un attrezzo
delle dimensioni del mio, introdotto senza precauzioni, avrebbe provocato un
dolore molto forte. Avvicinai
la cappella al buco ed entrai con un’unica spinta, penetrando fino in fondo.
L’uomo ebbe un guizzo disperato e per la prima volta lo sentii gemere. Pensai
che mi avrebbe chiesto di ritrarmi, ma non fu così. Quando
fui arrivato al fondo, mi fermai. Era una sensazione bellissima e la
assaporavo. Avvertii
che l’uomo si stava rilassando, il dolore iniziale scemava. Allora mi incitò: -
Dacci dentro, più che puoi, più a lungo che puoi. Accettai
la sfida. Arretrai fin quasi a estrarre l’arma, poi la introdussi nuovamente
fino in fondo. Ripetei l’operazione più e più volte, con un ritmo a volte
intenso, a volte più lento, fermandomi solo quando era necessario per non
venire. Ero in grado di reggere molto lungo: erano sempre i clienti a
chiedermi di fermarmi, perché ad un certo punto non
riuscivano più a reggere l’arma. Ma
questa volta non fu così. L’uomo non mi chiese di smettere ed io proseguii,
in un crescendo di furore, a cui si alternavano momenti di quiete. Venne
infine il momento in cui capii che avrei dovuto
uscire o venire. Glielo dissi. Mi
diede le istruzioni, con una voce in cui potevo avvertire la fatica. Le
eseguii. Uscii. Lo feci alzare e lo spinsi contro
il muro. Lo colpii ancora più volte con i pugni, finché non cadde in
ginocchio. Allora gli infilai il cazzo in bocca e lo fottei finché venni,
riempiendogli la bocca di sborro. Inghiottì tutto e quando ebbi finito, mi
ritrassi. Aspettai che l’eccitazione diminuisse. Lui mi guardava. Era
esausto. Io sorrisi e presi a pisciargli in bocca. Di
nuovo bevve tutto. Rimase
silenzioso. Le sue istruzioni si fermavano a questo punto. Ma io presi
l’iniziativa. Mi inginocchiai di fianco a lui, lo abbracciai, lo sollevai e lo stesi sul letto. Poi incominciai a baciarlo, sulle
labbra, sugli occhi, sulla fronte, sul torace, sul ventre, sul cazzo, sui
coglioni. Infine
gli presi il cazzo in bocca e presi a succhiarlo,
finché venne. Anch’io bevvi. Gli
sciolsi le mani, poi mi stesi di fianco a lui, esausto e appagato. Gli presi
una mano e la strinsi. Rimanemmo a lungo così e, per la prima volta dalla
morte del colonnello, mi sentii felice. Pensavo
che il nostro gioco fosse finito, ma non era così. Dopo un buon momento, si
voltò verso di me e poi si stese sul mio corpo. Non mi stupì la reazione,
immediata e intensa, del mio cazzo. Lui sapeva benissimo che cosa voleva. Io
non avrei saputo dirlo. Mi fissò negli occhi, mi baciò. Poi si alzò. Pensai che intendesse
andarsene, ma si appoggiò contro una parete. Disse solo: - La frusta. La
frusta era un altro attrezzo che non mancava mai. La presi e vibrai subito un
colpo deciso contro quel culo che mi si offriva. Sulla pelle apparve un segno
rosso, ma non ci fu nessuna reazione da parte dell’uomo. Colpii una seconda
volta, con forza e poi una terza. Mi fermai, esitante. Avevo paura di fargli
troppo male. -
Avanti. Colpii
ancora, diverse volte, lasciando segni rossi su
tutto il culo e sulla schiena. -
Ora fottimi. Ero
già pronto. Mi abbassai un po’, in modo da riuscire ad
infilargli il cazzo in culo, ed entrai con la consueta forza. Non mollai la
frusta, ma la passai intorno al suo collo, stringendo un po’. Poi
presi a fotterlo, con tutte le mie energie. Non so per quanto tempo andai
avanti. Questa volta non gli chiesi che cosa volesse: venni dentro di lui, travolto da un piacere intensissimo. Uscii
da lui e lo accompagnai al letto. Contro il muro c’era una macchia umida: era
nuovamente venuto. Lo stesi sul letto come fosse stato un bambino. Mi lasciò
fare. Lo baciai sulla bocca e lo strinsi tra le braccia. Al
termine di quella notte folle ero esausto, ma fisicamente appagato come non
mi era mai capitato. Confesso
che nelle settimane successive pensai al mio cliente di quella notte più e
più volte. Quell'uomo mi aveva turbato profondamente. Il giro dei clienti mi
infastidiva. Continuavo a pensare a lui, non riuscivo a togliermelo dalla
testa. Quando,
dopo tre settimane, il tenutario mi informò che il cliente sarebbe ritornato,
provai una gioia intensissima. Anche questa volta mi aveva prenotato per
tutta la notte. Pregustavo una nuova notte di violenza e desiderio, ma la
realtà fu del tutto diversa. Il
mio cliente entrò e si sedette sull'unica sedia della stanza. Mi guardò fisso
e mi disse: -
Voglio parlarle. -
Mi dica. Rimasi
un po' stupito. Mi dissi che probabilmente voleva propormi qualche nuova
fantasia e ne fui ben contento. -
Perché fa questo lavoro? O, se preferisce, che cosa le è successo in India? Credo
di essere impallidito. -
Come fa a sapere che sono stato in India? -
Da alcuni termini che usa, da certi gesti che rivelano in lei un ex-ufficiale.
Ma questo è secondario. Laggiù le è successo qualche
cosa per cui al suo ritorno ha accettato questo lavoro. Vorrei che me lo
raccontasse. La
sua domanda mi aveva spiazzato completamente. -
Vuole davvero saperlo? La
mia era una domanda fasulla, per prendermi il tempo di capire se volevo
rispondere. -
Gliel'ho chiesto due volte. Allora
respirai a fondo, come se avessi dovuto tuffarmi in acqua, e cominciai a
raccontargli. Non l'avevo mai raccontato a nessuno e non avrei mai pensato di
farlo, ma quell'uomo mi affascinava. Gli
raccontai tutto, dalla morte di mio padre fino all'ingresso nel bordello,
omettendo solo il nome del colonnello. Parlai per almeno due ore, senza
interrompermi: l'attenzione assoluta con cui mi ascoltava mi impedì di fermarmi
o di mentire. Non avevo mai incontrato nessuno
capace di una tale concentrazione nell'ascolto. Quando
finii rimase in silenzio. Fui io a riprendere il discorso. -
Perché ha voluto sapere queste cose? -
Sono abituato a pesare tutti gli elementi prima di arrivare ad una conclusione. -
E ora ci è arrivato? -
Sì. -
Allora adesso vuole dirmi perché ha voluto sapere...? -
Il nostro scorso incontro è stato per me un'esperienza davvero notevole.
Credo che lei sia abituato a ricevere complimenti,
ma devo dire che non ho incontrato nessuno alla sua altezza, e non è una
questione di attrezzatura. Non ho mai provato con altri quello che ho provato con lei. Ero molto contento di
quello che l’uomo mi diceva, perché corrispondeva esattamente a quello che
avevo provato io. - Nello stesso tempo ho
avuto modo di osservare che questo ambiente non le è
congeniale. Di qui nasce la mia proposta. Mi
venne da ridere: che il mio cliente ideale fosse il proprietario di un'altra
casa? -
Vuole propormi di cambiare bordello? -
No, voglio proporle di venire a vivere con me. Io le darò vitto ed alloggio, pagherò tutte le spese relative a spostamenti
o viaggi e le erogherò una somma annuale di... diciamo duecento sterline.
Forse non moltissimo, ma più che sufficiente per le sue necessità... purché
si moderi nel gioco! Aspettò
che il mio sorriso sfumasse, prima di proseguire: -
In cambio di quella cifra lei si impegna a fornirmi le sue prestazioni, che
non saranno sempre come quelle dell'altra volta... ma nemmeno come quelle di
oggi! Mi
venne di nuovo da sorridere alla battuta, mentre
cercavo di riflettere sulla sua proposta. Se me l’avesse fatta chiunque
altro, avrei rifiutato, ma quell’uomo mi attraeva. E forse proprio per quello
la proposta mi spaventava. -
Potrei obiettare che qui guadagno in uno o due mesi quello che lei mi offre
per un anno. -
Ed io potrei risponderle che corre molti rischi continuando in questo lavoro:
prima o poi si prenderà qualche malattia, in case di
questo tipo c'è sempre il rischio di ricevere una visita della polizia, che
non sarebbe tenera con lei, gli stessi clienti possono rivelarsi pericolosi.
E così via. Ma non è quello che le dirò. Lei non ha paura dei rischi, ma non
è fatto per questo lavoro. -
Che cosa glielo fa pensare? -
L'ho osservata con cura, durante la nostra prima notte. Lei aveva paura di
farmi troppo male. Quando sono quasi svenuto era sinceramente preoccupato:
questo in un lavoro come il suo non può funzionare. Inoltre lei è onesto ed anche questo è uno svantaggio. -
Che cosa ne sa della mia onestà? -
Mentre ero semi-incosciente, un altro avrebbe cercato il portafogli. Lei ha
soltanto pensato a farmi rinvenire. E poi, è buona regola nel mestiere
lasciar chiacchierare il cliente, ma non gli si confessa tutto a una sua
semplice richiesta. L'osservazione
mi irritò: mi stava criticando per aver acconsentito a una sua domanda?
Cercai di non lasciarlo trasparire, ma lui capì. -
Non si arrabbi: dirle che non è fatto per questa vita non è un'offesa, no? Aveva
ragione, dovevo ammetterlo. -
Va bene, su questo punto non posso darle torto. -
Quello che le è successo in India l'ha ferito profondamente e l'ha reso
pessimista sugli uomini, ma lei è giovane e può recuperare una visione meno
squallida della vita. Qui finirebbe per perdere ogni ideale, non provare più
nulla e ridurre il sesso a un puro esercizio meccanico. -
Può darsi. - E infine, a favore della mia proposta,
posso aggiungere che fisicamente le piaccio molto e che aspettava il mio
arrivo con ansia? -
Come fa a saperlo? -
La volta scorsa le sue reazioni erano spontanee, non costruite per soddisfare
un cliente esigente: non è in grado di fingere. Quanto al fatto che aspettava
il mio ritorno, mi lasci dire che lei è molto giovane e lascia trasparire le
sue emozioni: quando mi ha aperto la porta, le si leggeva in faccia che era contento. Non abbiamo avuto una notte di sesso sfrenato,
eppure lei non è insoddisfatto. Penso che staremo
bene insieme. Rimasi
in silenzio. -
E poi, se cambia idea, non le sarà difficile riprendere questo lavoro. Non
dissi nulla. Avevo già deciso di accettare, ma non sapevo come dirlo. Lo
disse lui. -
Grazie per aver accettato. Questa
volta scoppiai a ridere. -
Lei mi legge nel pensiero. -
Un po', è il mio mestiere. -
Il suo mestiere? Che lavoro fa? -
Un lavoro interessante. Sono sicuro che le piacerà. Ma ora andiamo. -
Così, subito? Non è possibile. Dovrò pur parlare con... Mi
interruppe: -
Il signor Biggs ha un grosso debito con me. Gli ho già parlato. Lei ha finito
questa notte. Quella
notte stessa lo accompagnai a casa sua e l'indomani, dopo aver provveduto a
guadagnarmi la giornata, andai a prendere le cose che avevo da mia madre e mi
stabilii da lui. La
casa era anche lo studio ed egli mi presentò ai clienti come il suo
assistente. Non mi aveva mentito: il suo lavoro era davvero interessante,
come ebbi modo di scoprire in breve tempo. Era un investigatore privato, a
cui clienti diversi proponevano casi, spesso molto difficili da risolvere.
Tra questi c’era stato anche Biggs, che si era rivolto a lui quando si era
trovato in un grosso guaio: questa era l’origine del debito contratto da
Biggs. Così
di giorno ero l'assistente dell'investigatore e avevo modo di appassionarmi
ai casi ed alle indagini, in cui il mio datore di
lavoro dimostrava un talento insuperabile. La sera l'assistente si
trasformava nel complice di una continua e piacevolissima infrazione alle
leggi inglesi: trovammo presto un accordo perfetto e devo dire che, malgrado
lui fosse il mio datore di lavoro, il nostro era un rapporto sempre libero,
basato sul reciproco desiderio e sulla fantasia. Nonostante
l'indubbia bravura del mio amico, come investigatore, intendo, i clienti
erano poco numerosi e di conseguenza lo erano anche gli introiti. In più di
un'occasione mi resi conto che aveva difficoltà a pagare il mio appannaggio e
mi dichiarai ben disposto a rinunciarvi, ma lui non ne volle mai sapere. Ebbi
allora un'idea: descrivere le sue indagini in racconti che avrei proposto ad
alcuni editori. Dovetti inventarmi un nome d'arte, naturalmente, e
presentarmi con un'altra identità, ma nel descrivere la figura e soprattutto
il metodo dell'investigatore fui molto fedele alla realtà. I
miei racconti vennero pubblicati e suscitarono un grande interesse, che ebbe
immediatamente un effetto positivo sull'attività dello studio: ora molti
clienti venivano a cercare il famoso Sherlock Holmes, quello di cui avevano
letto le avventure, per presentargli i loro casi, e persino la mia modesta
persona, a cui avevo dato il nome di Watson, era
oggetto di interesse. Ben presto capii che molti venivano anche nella
speranza di potersi riconoscere in un personaggio di una delle future storie
di Sherlock Holmes. Io li accontentavo. Naturalmente, quando si trattava di
casi delicati, cambiavo i nomi, inserivo qualche particolare diverso, ma
cercavo di rimanere rigorosamente fedele allo svolgimento delle indagini. Altrettanto
naturalmente, dalle nostre avventure dovetti escludere alcuni dettagli, più personali,
che senza dubbio avrebbero stimolato la curiosità dei lettori, ma avrebbero
portato me e Sherlock diritto diritto
a quel processo per sodomia che già una volta avevo scampato per un pelo. Devo infatti dire che il pericolo eccitava Sherlock ed alcuni
dei nostri rapporti più intensi si svolsero proprio nel bel mezzo di
indagini. Ricordo ad esempio il caso del dottor Roylott,
di Stoke Moran, che aveva
assassinato una delle due figliastre e che voleva fare lo stesso con l'altra,
Helen. Quando visitammo la sua residenza, controllammo la stanza in cui
dormiva Helen e quella vicina, che era la camera di Roylott.
Io ero stato in India e intuii, non meno di Sherlock, che il dottor Roylott si era servito di un serpente per uccidere la
figliastra. Capimmo quindi che durante la notte il serpente sarebbe entrato
nella camera di Helen, attraverso un'apertura per la ventilazione, e che
sarebbe sceso sul letto per ucciderla. Prendemmo il
posto della donna. Non era una bella situazione: io ero armato,
ma contro un serpente la pistola serve a poco e sapevo che il veleno
di quel serpente uccideva la vittima in pochi secondi. Mentre
aspettavamo nel buio assoluto, sentii i movimenti leggeri di Sherlock: sapevo
che si stava spogliando. Mi dissi che era pazzo, ma quando mi si mise in
grembo, incontrò immediatamente quello che cercava, già pronto: devo dire che
in una certa misura il pericolo eccita anche me e
Sherlock mi eccita ancora di più. Con
il tempo imparai molto da Sherlock e in più di un'occasione seppi essergli
d'aiuto, ma questo mi guardai bene dallo scriverlo, perché la gente amava i
personaggi delle mie storie così com'erano ed il mio
ruolo di narratore poco intelligente permetteva ai lettori di identificarsi
con me, ammirando la bravura dell'investigatore. Dovetti però inventarmi una
moglie, per evitare che certe maldicenze (o, per essere più esatto, certi
fondati sospetti) circolassero troppo. Le
storie mi assicurarono una rendita indipendente più che sufficiente per le
mie necessità e per quelle di mia madre, finché visse: misi anche da parte
una discreta cifra con cui assicurai a mia sorella la dote. Non
ho comunque rinunciato al mio appannaggio. Ne parlai una volta con Sherlock
Holmes. -
Mio caro amico, ormai guadagno più che a sufficienza grazie ai miei racconti,
e quindi grazie a lei, e non mi sembra il caso di continuare a ricevere una
paga. -
Ha intenzione di rinunciare al suo lavoro? Di
giorno Holmes ed io ci trattiamo in modo formale, un'abitudine che elimina
ogni rischio, sia di tradire la nostra intimità inavvertitamente di fronte ad
estranei, sia di essere sorpresi in un momento in cui crediamo di essere
soli. -
No, naturalmente. Non lo lascerei per nessun motivo al mondo. -
Allora lasciamo tutto com'è. Patti chiari, amicizia lunga. Non
insistetti e da allora non sono più ritornato sull'argomento. Probabilmente
abolire il mio appannaggio non cambierebbe nulla, ma non si sa mai.
Preferisco non rischiare. 2009 |