Sindrome di Stoccolma

 

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Carlos Cartero entra nell’appartamento che è diventato la sua casa.

Anche oggi non l’hanno ucciso: non hanno fatto saltare in aria la sua auto; non hanno assalito il tribunale; un cecchino non l’ha colpito mentre saliva in macchina. Qui, nella caserma, è infine al sicuro e può riposare tranquillo. Carlos sa di essere un condannato a morte, ma la sentenza che pende sulla sua testa non verrà eseguita oggi. Prima o poi riusciranno a ucciderlo, ma questa sera può ancora vivere.

Posa la sua borsa e in quel momento vede la busta sul tavolo. Sente una mano che gli stringe lo stomaco. Spera, senza speranza, che sia soltanto un messaggio lasciatogli da uno degli uomini che sorvegliano la casa a tutte le ore del giorno e della notte, ma sa che non è così.

Si avvicina. Guarda la busta, bianca. C’è scritto in stampatello:

Al giudice Cartero

È una busta piatta. Non contiene certo esplosivo. Carlos sa che farebbe meglio a lasciarla dov’è e a chiamare i responsabili della sicurezza, ma si limita a cercare un paio di guanti nell’armadio, per non alterare eventuali impronte. Con cautela solleva il lembo della busta che è stato ripiegato. Dentro un foglio e un DVD.

Sul foglio, ancora in stampatello:

Tanto per ricordarti come finiscono i finocchi come te.

Carlos sente che gli tremano le gambe. Non ha bisogno di guardare il contenuto del DVD per sapere chi glielo ha mandato e che cosa significa: se la busta era sul suo tavolo, vuol dire che i narcotrafficanti possono entrare nel suo alloggio, in una caserma speciale, dove i migliori agenti dovrebbero assicurare una sorveglianza 24 ore su 24.

Carlos inserisce il DVD nel lettore. Sa che non dovrebbe farlo, che farebbe meglio a chiamare direttamente il maggiore Ramirez, responsabile della sua sicurezza, e il governatore Puebla. Si accorge che la mano gli trema leggermente. Carlos Cartero non è un vigliacco: ha accettato questo processo, nonostante le minacce; non si è tirato indietro, anche se conosce bene la sorte degli altri giudici che hanno osato opporsi ai narcotrafficanti.

Sullo schermo appaiono le immagini. Un uomo è legato, nudo, in una cella. Cartero lo conosce: è il giudice Sombras, scomparso nel nulla. La prima scena è una violenza: quattro uomini sistemano il prigioniero su un tavolo e lo prendono con la forza. Poi si va avanti. Lo stupro è stato solo un antipasto, un gioco innocuo, rispetto a quello che segue.

È passata un’ora. Carlos è in bagno, seduto a terra di fianco alla tazza del gabinetto, quando il telefono squilla. Il DVD è finito da poco, Carlos non sente più le urla e le voci. Ha interrotto la visione a metà, sopraffatto da un conato di vomito. Non è più tornato a guardarlo: è rimasto in bagno a vomitare. Avrebbe voluto tornare nella stanza e spegnere, ma si sentiva troppo debole per alzarsi. A tratti si tappava le orecchie.

Il telefono continua a squillare. Carlos sa chi è. Hanno atteso che lui vedesse tutto il filmato. Hanno calcolato con cura i tempi. Sapevano che l’avrebbe guardato subito. Ma sanno anche a che ora è arrivato in caserma. E conoscono il numero di telefono della sua linea: nessuno dovrebbe esserne a conoscenza, se non Ramirez e Puebla.

Carlos si alza, a fatica. Entra nella sala. Guarda il telefono. Non vuole rispondere. Non vuole.

Tende la mano. Esita ancora. Solleva la cornetta. Non parla. Dall’altra parte una voce, aspra, gli dice:

- Ora sai cosa facciamo ai finocchi come te, Cartero. Rinuncia al tuo incarico, se non vuoi finire come Sombras. Sei un morto che cammina, Cartero.

Non aspettano una risposta. Riattaccano.

Carlos si appoggia alla parete. Sta tremando e piangendo. Non è la morte a spaventarlo: sapeva già di essere un morto che cammina, lo sapeva quando ha accettato questo incarico, spinto dal senso del dovere, dalla speranza di contribuire ad arginare l’orrore in cui sprofonda la sua terra. Ma il ribrezzo per ciò che ha visto supera tutto quello a cui ha assistito nella sua carriera di giudice.

Con fatica Carlos riattacca il ricevitore, poi lo prende di nuovo in mano e compone il numero di Ramirez. Ne sente la voce, decisa, che per un attimo gli trasmette un senso di sicurezza. Si accorge che la propria voce non è altrettanto salda mentre gli chiede di venire subito. Coglie la preoccupazione nella sua risposta affrettata.

Ramirez si presenta dopo pochi minuti: abita nella stessa caserma, in un altro cortile.

Carlos gli racconta. C’è poco da dire. Ramirez è furente: qualcuno dei suoi uomini ha tradito. E gli uomini di sorveglianza all’abitazione di Carlos Cartero sono i migliori, i più fidati. Merda!

È Ramirez a dire:

- Bisogna avvisare il governatore.

Carlos lo sa. Non l’ha fatto subito per rispetto nei confronti di Ramirez. Ma il governatore va avvertito.

Carlos compone il numero del governatore. È uno dei pochi ad avere un numero diretto. Gli dice alcune parole. Poi aggiunge:

- Loro sanno che le sto telefonando. Faccia attenzione, non vorrei che fosse un modo per uccidere anche lei.

“Anche”. Gli è venuto automaticamente. Sì, anche il governatore può essere sotto tiro.

C’è un attimo di silenzio.

- Vengo, Cartero. Con le precauzioni del caso.

Carlos non crede che sia una trappola per attirare il governatore alla caserma e ucciderlo nel tragitto, ma la possibilità non va esclusa. Non vuole che Puebla muoia per colpa sua. Non vuole che altri muoiano. È per fermare l’orrenda carneficina in corso, che ha accettato questo incarico, che ha accettato di morire, perché fare da giudice in questo processo significa finire uccisi.

 

Sono seduti tutti e tre nel salotto. Il DVD, inserito in un sacchetto di plastica finirà all’ufficio di polizia.

Puebla guarda Ramirez e dice:

- Accettiamo la proposta degli Stati Uniti.

Carlos lo guarda, senza capire. Non chiede.

Ramirez abbassa il capo, umiliato.

- Sì, è l’unica cosa da fare.

Puebla si rivolge a Carlos:

- Giudice, da domani la sua protezione sarà affidata ad agenti degli USA. Ce l’avevano offerto: tengono moltissimo a questo processo e temevano che la corruzione di alcuni ci impedisse di garantirle una protezione efficace. Devo pensare che avessero ragione.

Carlos non sa che dire. Uomini di un altro paese, che non conoscono la realtà messicana, saranno in grado di assicurare la sorveglianza necessaria? Il fatto di essere stranieri riduce i rischi di corruzione, ma manca la conoscenza del territorio, che è importante per muoversi nel modo giusto.

Ovviamente ci saranno delle indagini per capire chi e come ha messo il DVD sul tavolo, ma tutti e tre sanno che non concluderanno niente.

Quando Puebla e Ramirez se ne sono andati, Carlos si stende sul letto. Questa sera non mangerà, non se la sente. Le immagini del DVD ritornano nella sua mente, anche se Carlos cerca di bloccarle.

Un altro pensiero si affaccia a tratti. Due volte gli hanno dato del “finocchio”. È solo un insulto? O sanno? Carlos ha avuto pochissime esperienze, ai tempi dell’università e poi ancora in occasione di un viaggio in Europa, diversi anni fa. In Messico ha sempre condotto una vita austera, per il sesso non c’è spazio nella sua esistenza: un giudice non può essere ricattabile. Ma loro sanno. Loro sanno anche questo.

 

Il giorno seguente tutto si svolge nel modo abituale, ma al ritorno in caserma, davanti alla porta dell’appartamento di Carlos ci sono parecchi uomini, accanto a Ramirez. Alti, solidi, trasmettono un’impressione di grande forza. Sono almeno una dozzina, forse di più. Carlos individua subito il comandante. Nulla lo distingue dagli altri nell’abbigliamento, ma la posizione, leggermente più avanti rispetto agli altri, e qualche cosa di indefinito nella postura non lasciano dubbi. È alto e molto robusto.

E in effetti l’uomo si fa avanti, insieme a Ramirez, e gli tende la mano, mentre Ramirez lo presenta.

- Samuel Hawke, responsabile della sua protezione da questo momento in poi.

A Carlos non sfugge la nota di amarezza di Ramirez. Saluta l’uomo in inglese e gli stringe la mano, poi si rivolge a Ramirez e gli dice, in spagnolo:

- Credo che lei abbia fatto il miglior lavoro possibile, nelle circostanze attuali, e la ringrazio.

Ramirez gli sorride.

- Cedo volentieri la responsabilità, perché la cosa più importante è che sappiano proteggerla.

Si stringono le mani. Ramirez tiene un momento quella di Carlos nella sua stretta, poi la lascia. Ramirez gli è affezionato, lo ammira. Se sapesse quanto è spaventato, non avrebbe tanta stima di lui. E mentre lo pensa, Carlos capisce che Ramirez lo ammira proprio perché sa che lui è spaventato a morte e va avanti lo stesso.

Hawke presenta i suoi uomini collettivamente, ma Carlos stringe la mano a ognuno di essi: rischiano la vita per lui, forse alcuni di loro saranno uccisi. Carlos vorrebbe che questo non accadesse, che altri non morissero per colpa sua. Carlos si fa dire i loro nomi.

Nonostante la situazione in cui vive lasci ben poco spazio ad altri pensieri e desideri, mentre rientra Carlos si dice che non ha mai visto una simile collezione di maschi.

 

Carlos entra in casa, Hawke lo segue.

- Ho bisogno di parlarle. Se vuole farsi una doccia o riposarsi un momento, aspetto.

Ha parlato in spagnolo. Carlos ne è stupito:

- Lei conosce lo spagnolo.

- Certo. Negli ultimi dieci anni ho lavorato più in Messico e in altri paesi dell’America latina che negli USA. Per noi la conoscenza della lingua è importante.

Carlos vorrebbe chiedere a chi si riferisce Hawke quando usa il termine “noi”, ma decide di lasciar perdere. Forse è la CIA, forse qualche corpo speciale dell’esercito.

Carlos si siede. È stanco. Le udienze sono faticose e la continua tensione non aiuta. Ma gli sembra scortese far aspettare l’uomo.

- Mi dica pure, posso fare la doccia dopo.

L’uomo incomincia a chiedere. Una valanga di domande, molto precise.

Carlos risponde, ma sente la stanchezza salire.

Dopo un’ora Hawke si interrompe.

- Adesso basta. Ho ancora delle cose da chiederle, ma lo farò dopo cena. Adesso ha bisogno di riposare. Si lavi, si sistemi, si riposi, come vuole. Faccia conto che io non esista.

Carlos lo guarda, perplesso. Hawke intende rimanere con lui mentre cena?

Hawke gli legge negli occhi il dubbio e lo chiarisce:

- Io vivrò qui fino a che lei non se ne andrà. È necessario. Ma lei mi consideri come un mobile, una radio che ogni tanto parla. Può ignorarmi completamente. So che ha bisogno di riposare.

Carlos scuote la testa.

- Ma…

Hawke non dice nulla. Aspetta che lui concluda la frase. Carlos annuisce e, senza dire una parola, si dirige alla camera da letto.

Sulla soglia si ferma, allibito. C’è un secondo letto di fianco al suo. Si volta.

Hawke lo sta guardando. Carlos ricambia lo sguardo, senza dire nulla, ma nei suoi occhi la domanda è chiarissima.

- Spero che non le dia troppo fastidio, ma io dormirò nella sua camera. Glielo ripeto: faccia conto che io sia un mobile.

Gli sorride e dice:

- Tanto, ho visto di tutto in vita mia.

Ha un bellissimo sorriso. Ed è un uomo magnifico. Non molto bello di viso, ma forte, deciso, con un corpo da statua greca. Il tipo di uomo che Carlos ha spesso sognato.

Hawke si volta e va a sedersi. Carlos si stende sul letto e chiude gli occhi. Lascia che la tristezza lo avvolga. Quell’appartamento era un’oasi di pace e di serenità. Da ieri sera sa che non garantisce nessuna sicurezza e ora c’è anche questo straniero che lo occupa, che non lo lascerà solo un momento. È un incubo.

Carlos rimane a lungo disteso. Il riposo diventa sonno. Si sveglia dopo un’ora. Si alza e fa per spogliarsi. Ma lo sguardo gli cade sul secondo letto e allora si dirige in bagno senza togliersi gli abiti.

Hawke è seduto, una pistola in mano. Gli sorride:

- È riuscito a riposare un po’?

- Sì, grazie.

Carlos entra in bagno, si spoglia e si fa una doccia. L’acqua fresca lo rinvigorisce. Il pensiero va spesso a Hawke. Quanto è in gamba? Riuscirà a proteggerlo fino alla fine del processo?

Completata la doccia, Carlos, si mette l’accappatoio, poi torna in camera e si cambia. Adesso che sta arrivando il caldo, gli piace stare nudo in casa, ma con un ospite non è pensabile.

Carlos si riveste. Rientra nel salotto e dice:

- Vediamo che cosa ci hanno lasciato per cena.

Ha incluso nel “ci” anche Hawke: è ovvio che mangerà con lui. Il suo angelo custode ha una smorfia imbarazzata e gli dice:

- Mi spiace, questa sera non c’è nulla di cucinato. Abbiamo svuotato il frigorifero e buttato via tutto quello che c’era. Precauzione probabilmente inutile, ma non possiamo permetterci nessun margine di rischio. Anche il sistema di preparazione del cibo subirà alcuni cambiamenti. Li abbiamo messi a punto oggi, ma partiranno da domani, quindi oggi dovrà accontentarsi della spesa. Ma so che apprezza lo yogurt, ci sono diversi formaggi, pane fresco e frutta. Non mi guardi così, altrimenti avrò l’impressione che non mi voglia bene per niente.

Hawke lo dice con un sorriso buffo e Carlos sente svanire il cattivo umore provocato dalle ferali notizie. Ha sempre amato la cucina (e una certa pancetta lo dimostra) la cuoca che prepara i suoi pasti è davvero brava e la sua vita non presenta molti altri aspetti piacevoli, per non dire nessuno.

Carlos ride e dice:

- Non è che non le voglio bene, se mi ha buttato via i tacos che mi aveva promesso la signora Maria, la odio.

Hawke si finge molto contrito.

- Il mondo è pieno di disgrazie. Pensi a me che vivo a bistecche e sono finito con uno che mangia pochissima carne.

- Lei sa tutto di me.

- No, non ancora.

Carlos deve riconoscere che Hawke è cordiale.

- Va bene, spero almeno che la scelta dei formaggi sia stata adeguata.

La cena è molto semplice, ma Carlos scopre con stupore che non gli dispiace avere qualcuno con cui scambiare due parole. Nulla di personale, ma rispetto alla solitudine di tutte le sere, non è male.

Al momento di andare a dormire, Carlos si sente invece molto a disagio. Gli scoccia avere qualcun altro in camera. Vorrebbe chiedere a Hawke se è proprio necessario, ma sa che la risposta sarebbe comunque affermativa.

- Io vado a dormire, Hawke.

- Ah, dimenticavo. Abbiamo buttato via anche i medicinali, ma quelli li abbiamo ricomprati tutti.

Carlos sorride. Sì, questa sera prenderà un sonnifero, come ha fatto ieri. È troppo teso. Di solito ne fa a meno, anche se magari si sveglia diverse volte per notte.

Quando Carlos va in camera, Hawke rimane in salotto.

Carlos si spoglia completamente. Dorme sempre nudo. Si mette a letto e spegne la luce. Hawke gli ha detto di non preoccuparsi di lui.

Lo sente arrivare subito dopo. Hawke ha lasciato la luce accesa in bagno: gli ha detto che deve rimanere così tutta la notte. La stanza non è completamente buia. Hawke inizia a spogliarsi. Carlos si gira su un fianco, in modo da dargli la schiena. Non vuole guardarlo mentre si spoglia, avrebbe l’impressione di commettere un’indiscrezione.

Quando sente che Hawke si corica, gli dice:

- Buona notte.

- Buona notte, giudice. Se ha bisogno di qualche cosa, non esiti a chiamarmi.

Verso le quattro Carlos si sveglia: l’effetto del sonnifero è finito. Si alza in assoluto silenzio per andare in bagno, ma Hawke è già seduto sul letto.

- Tutto bene?

- Sì, vado solo a pisciare. Non dormiva?

- Dormivo, ma ho il sonno molto leggero quando sono di servizio.

Carlos annuisce e si dirige in bagno. È un po’ in imbarazzo all’idea di essere nudo davanti a Hawke, ma scrolla le spalle. Sciocchezze.

Fa quel che deve e torna a letto. Cerca di dormire ancora un po’ e in effetti riesce a riaddormentarsi.

Quando si sveglia, Hawke non è più nel suo letto.

Carlos si alza, si infila la vestaglia e passa in salotto. Hawke è seduto, vestito di tutto punto.

- Ha dormito bene?

- Io sì, grazie. E lei?

- Sì.

Mentre fanno colazione, Carlos avverte nuovamente il disagio per la presenza di un estraneo. Avere qualcuno con cui scambiare due parole la sera va benissimo, ma averlo tra i piedi ogni minuto no, è un’altra cosa.

Hawke fa una colazione abbondante. Carlos non è abituato a mangiare molto il mattino. Hawke gli comunica che usciranno venti minuti prima del solito. Da oggi l’auto partirà ogni giorno a un’ora diversa. Carlos annuisce.

All’ora prevista, escono insieme, Hawke davanti e lui dietro. Ci sono dieci uomini, fuori. Uno entra in casa, sei salgono sulla sua auto e su quella di scorta, tre rimangono fuori dalla casa. Hawke è seduto di fianco a lui.

Il viaggio è breve: la caserma è stata scelta proprio per la sua vicinanza al bunker del tribunale e alla prigione dove sono rinchiusi i detenuti. Hawke non dice una parola. Ha la pistola in mano e si guarda intorno. Carlos avverte la sua tensione. Non dice nulla.

Durante il giorno Carlos non vede più Hawke, ma ci sono sempre almeno quattro dei suoi uomini nell’aula. Ci sono più poliziotti e soldati che civili: è il più importante processo ai narcotrafficanti mai tenuto in Messico.

Al ritorno Hawke è di nuovo seduto di fianco a lui, la pistola in mano, concentrato sul suo lavoro.

Nella caserma l’auto si ferma come al solito davanti all’appartamento, dove ci sono due uomini di guardia. Carlos sa che la casa è stata sorvegliata ogni minuto. Carlos li saluta per nome: ha memorizzato tutti i nomi, ha sempre avuto una memoria fantastica per i nomi e le facce. I due rimangono stupiti e sorridono, mentre ricambiano i saluti. Quando fa per entrare, la porta si apre e ne esce un altro degli uomini della sorveglianza. Anche in casa c’è sempre stato qualcuno. Carlos saluta anche lui, Jim, ed entra con Samuel.

A cena Hawke mangia una bistecca, mentre per Carlos ci sono i tacos, buoni come sempre, piccanti al punto giusto.

- Non vuole assaggiare, signor Hawke?

Hawke fa una smorfia, poi ghigna e dice:

- Solo un pezzetto.

Mette in bocca il boccone che gli offre Carlos e lo guarda con un’espressione sofferente. Carlos scoppia a ridere.

- Lo butti via, se proprio non le piace.

Hawke trangugia, fingendo di farlo a fatica. Poi sorride e dice:

- Deliziosi, ma non voglio sottrarglieli.

- Va bene, meglio così. Non mi fa concorrenza.

Le cena con Hawke è piacevole, ma dopo Carlos vorrebbe che la sua guardia si togliesse dai coglioni. Purtroppo dovrà sopportarlo. Hawke non è invadente, sembra quasi voler scomparire, ma Carlos ne avverte la presenza continua.

Carlos legge, ascolta musica, pensa, lavora al portatile. Anche Hawke usa il computer.

Carlos è stanco e va a letto presto. Hawke si corica subito dopo di lui, come la sera precedente: è chiaro che è Carlos a dettare i tempi. Un altro motivo di fastidio e di imbarazzo.

La sera successiva, Hawke gli parla molto chiaramente.

- Giudice, se ha bisogno di qualche cosa, mi dica. Qualunque cosa sia.

Carlos scrolla le spalle.

- Che cosa può servirmi? Un’assicurazione sulla vita?

Hawke sorride:

- Sono io la sua assicurazione sulla vita.

Hawke ghigna, poi riprende:

- Parlavo di libri o CD o DVD o vedere un amico o scopare o qualunque altra cosa.

Carlos è disorientato dalle parole di Hawke, glielo si legge in faccia.

- Preferisco essere sincero con lei. Ho visto persone sotto tutela correre rischi gravissimi per raggiungere un’amante o la moglie, per procurarsi una puttana o per vedere un amico. Se le serve qualche cosa, ci penso io.

Carlos è infastidito dal discorso. Borbotta, cercando di dare alle sue parole un tono scherzoso:

- Le tocca pure fare il ruffiano.

- Non è un problema. Il problema è se le succede qualche cosa. Lei deve arrivare vivo alla fine di questo processo.

Carlos ha un sorriso amaro. Hawke vuole che arrivi vivo alla fine del processo, dopo potrà farsi ammazzare tranquillamente.

Ma Hawke prosegue:

- Intendo portarla tutto intero negli USA.

Carlos lo guarda, interrogativamente. Si è parlato di inviarlo negli Stati Uniti alla fine del processo: in Messico sarebbe sempre un bersaglio. Negli USA potrà collaborare con l’antidroga a livello internazionale, servendosi della sua esperienza. Ma è tutto così lontano. E si stupisce che Hawke lo sappia.

Hawke capisce, perché aggiunge:

- Il mio compito finisce quando la lascerò a Washington. Devo accompagnarla fino là. E ci arriverà, giudice. Nessuno di quelli a cui ho fatto da guardia del corpo è mai stato ammazzato. Non vorrà mica essere il primo? Farebbe crollare le mie quotazioni.

Carlos sorride. Hawke riprende:

- Voglio finire il discorso di prima. C’è un’unica cosa che non intendo procurarle: bambini.

Carlos ha uno scatto.

- Scusi se glielo dico, escludo che le interessi, ma ho avuto uno scontro per questo con un uomo che proteggevo. Se vuole una donna, un uomo, ci pensiamo noi. Un bambino no.

- Signor Hawke, per favore, io non intendo chiederle un bel nulla. E di sicuro non bambini.

Hawke sorride.

- Sì, lo immaginavo, ma ho preferito essere chiaro.

Il discorso di Hawke ha infastidito Carlos. Ma è la sua presenza che fa fatica a reggere. Hawke è cordiale e non è invadente, ma non si può vivere continuamente con qualcuno che dorme con te, mangia con te, pretende che tu non chiuda neppure la porta del bagno quando vai al cesso (gliela lascia accostare, però) ed esige che tutto passi attraverso di lui.

Tutto. Che cosa?

Carlos non ha più amici. Ha deliberatamente lasciato alle spalle quei pochi che gli rimanevano quando ha capito che avrebbe messo a rischio le loro vite. Non ha un compagno. Non ha parenti stretti.

 

Con il passare dei giorni, la tensione aumenta. Carlos cerca di controllarsi, ma la presenza di Hawke gli è diventata intollerabile. Una sera decide di parlargliene:

- Senta, signor Hawke, non è nulla di personale, ma è proprio necessario che lei dorma qui, in camera mia?

- Sì. Mi spiace. Mi rendo perfettamente conto di non esserle simpatico e capisco che dover sopportare un estraneo ficcanaso ogni minuto del giorno non sia proprio il massimo, ma la priorità è la sua sicurezza. Mi spiace.

Carlos scuote la testa.

- No, lei deve scusarmi. Lei non mi è antipatico. È molto gentile e mi fa piacere avere qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. Ma ogni tanto ho bisogno di stare da solo.

- Faccia conto di esserlo. So che non è la stessa cosa, ma faccia finta che io non esista. Quando vuole che io torni a esistere, fa uno schiocco con le dita e io riappaio.

È una battaglia persa, Carlos lo sa benissimo.

Nel fastidio crescente che prova, c’è un altro fattore. Samuel Hawke è un bel maschio e la sua vicinanza è un’ulteriore fonte di tensione. Una notte, dieci giorni dopo la loro conoscenza, Hawke fa una visita nei sogni di Carlos. Non è una visita inattesa: Carlos evita di sfogare la tensione sessuale in altro modo e talvolta la notte il desiderio, ignorato durante il giorno, esplode.

Nel sonno Hawke gli appare nudo. Lo abbraccia, lo stringe e Carlos emette un gemito, forte, mentre il piacere lo attraversa e si disperde. Si sveglia di colpo. Nel sogno ha allontanato le lenzuola, è nudo, il sesso ancora teso e il seme sul ventre. Guarda in direzione di Hawke, che gli dà la schiena. Sa benissimo che è sveglio, che ha sentito, che ha visto (accidenti a quella fottuta luce in bagno che deve sempre rimanere accesa). Si è voltato perché lui possa fare finta di niente. Se sapesse che ha sognato di lui!

Carlos si mette a sedere. Dovrebbe andare in bagno, lavarsi e tornare a letto, senza dire una parola. Ma è nervoso. Il fatto di aver sognato Hawke gli dà fastidio, anche se sapeva già prima che gli piaceva.

Dice:

- Non finga di dormire, Hawke. Ha visto benissimo che cosa è successo.

Hawke si volta, mettendosi sulla schiena e sollevando un po’ il lenzuolo con le ginocchia.

- È successa una cosa perfettamente naturale, giudice. Quello che succede a qualunque uomo sano che non ha rapporti e non si fa le seghe.

Carlos digrigna di denti. È furente, anche se cerca di controllarsi.

- Non ha nessun diritto di vedermi anche quando sogno, anche quando… Non è… Merda! Merda! Merda!

Non riesce a esprimersi.

Hawke si solleva e si mette a sedere su letto, rivolto verso di lui. Ha tolto il lenzuolo e non nasconde più il suo uccello, magnificamente teso. A Carlos manca il respiro.

- Giudice, so che è fastidioso. Siamo tutti e due nella stessa barca. Non abbiamo più una vita privata. Tra due o tre mesi, concluso il processo, tutto tornerà normale e lei si dimenticherà la mia faccia. Come vede, anch’io soffro di un’astinenza a cui non sono abituato. Non sono un santo come lei.

- Non mi pigli per il culo.

Carlos è ancora nervoso e cerca parole più forti di quelle che usa abitualmente per scaricarsi.

- Giudice, io ho una grandissima stima di lei. Mi ritengo un uomo coraggioso, mi piace il rischio, ma non credo che mi sentirei di vivere come lei. E lei non vive così perché le piace, ma perché crede che quello che sta facendo sia necessario. Lo credo anch’io, ne sono sicuro, ma spesso mi chiedo come faccia: niente famiglia, niente amici, niente sesso, chiuso con uno sconosciuto che le sta un po’ sul culo. Cazzo! Credo che impazzirei.

- Gliel’ho già detto, lei non mi sta sul culo. E poi… senta, mi chiami Carlos. Chiamami Carlos. Non posso dormire ogni notte con uno a cui do del lei.

- Grazie, Carlos. Io sono Samuel e sono contento di lavorare per te, anche se so che vorresti che mi togliessi dai coglioni.

- Scusami, Samuel. So di non essere il massimo come bersaglio da proteggere.

- Lo sei, Carlos. Sapessi quanti ne ho visti. Tanti sono emeriti stronzi, tanti ti considerano una pezza da piedi, tanti cercano di fare tutto quello che non dovrebbero… Con te sto benissimo. Peccato che non sia reciproco.

Carlos lo guarda. Samuel gli piace un casino. Ci starebbe insieme volentieri, ma in un altro modo.

- Mi spiace Samuel. Sono teso e me la prendo con te perché sei l’unico che ho sotto tiro.

- Fallo, Carlos, va benissimo. Puoi usarmi come punching-ball, se vuoi, anche in senso fisico: se hai voglia di tirare due pugni, va bene.

- Cazzo! Sai anche che ho fatto boxe!

- E che te la cavavi bene. So un sacco di cose di te.

- Ed io non so nulla di te, se non le poche cose che mi hai detto a cena in questi giorni.

- Perché non sei un impiccione come me, anche se pure tu ficchi il naso nelle vite altrui per lavoro.

- Sì, però non passo le notti con quelli di cui mi occupo.

Carlos adesso è rilassato. Vedere Samuel nudo davanti a lui lo solletica, ma è appena venuto e non gli crea troppi problemi. L’erezione di Samuel si è un po’ attenuata.

Carlos scuote la testa.

- Certo che quando alla scuola superiore controllavate le misure, tu dovevi vincere sempre.

Samuel scoppia a ridere.

- Ma no, c’era un certo Sean Hitchins che batteva tutti. È finito a fare il pornodivo, lo chiamano Bruce Bull, ora, fa soldi a palate e non rischia la pelle.

- Mica male: un sacco di donne a disposizione.

Samuel scuote la testa.

- No, fa il pornodivo gay.

- Ah…

- Adesso non mi dire che ti scandalizzi. A Città del Messico avete pure i matrimoni gay.

- Anche a New York, gringo.

- In questo siamo pari.

Parlano ancora, per quasi un’ora. Samuel racconta di aver fatto da guardia del corpo per un’agenzia, poi però si è stufato di incontrare clienti stronzi ed è passato a lavorare per i servizi degli Stati Uniti. Ha fatto carriera ed è stato ben contento di assumersi l’incarico di proteggere il giudice Cartero. Carlos sente che l’irritazione svanisce. Sono le quattro quando va infine a lavarsi. Poi torna a letto e dice:

- Una di queste sere facciamo davvero un incontro di boxe. Così posso menarti.

- Ehi, ehi! Fa’ attenzione. Picchio sodo anch’io!

- Tu sei addetto alla mia sicurezza. Non puoi mica menarmi.

- Fuori servizio…

- Tu sei sempre in servizio.

- Te ne approfitti, però!

Carlos ride.

- Buona notte, Samuel. Sono contento che ci sia tu qui. Non so se avrei sopportato un altro.

- Buona notte Carlos. Io ne ho dovuto sopportare tanti e sono contento per una volta di non dover sopportare.

La conversazione segna una svolta nei loro rapporti. Parlano molto più spesso, si raccontano le loro vite, si scambiano battute, si punzecchiano sui rispettivi paesi, raccontano aneddoti relativi ai loro lavori (ne hanno tutti e due una bella riserva), si prendono per il culo.

Carlos sta bene con Samuel, ora è davvero contento di averlo al suo fianco. Sa benissimo di desiderarlo e anche di esserne un po’ innamorato. Ma è un amore impossibile e tanto Carlos ai sentimenti ha dovuto rinunciare.

Gli capita altre volte di venire nella notte e quando si sveglia, ci scherza con Samuel, il quale non cerca più di nascondere le sue erezioni. Una volta Carlos gli chiede se non viene mai, ma Samuel gli risponde che fa da sé. Carlos si sente in imbarazzo, ma Samuel sembra perfettamente rilassato. Samuel parla anche di sesso senza pudore, ma rivela poco di sé e Carlos non indaga: non sono affari suoi.

 

Il processo si avvia alla fine, ma uno sviluppo imprevisto provoca un ritardo. Non è nulla di grave, ma Carlos è nervoso: gli sembra che tutto stia andando per storto. La tensione accumulata negli ultimi mesi lo sta logorando. Al momento di coricarsi, Samuel gli dice:

- Mi sa che è meglio se prendi una pastiglia, Carlos. Altrimenti non dormi.

- Preferisco evitare di prenderne troppo spesso. L’ho già presa due volte, questa settimana. Avrei bisogno di rilassarmi, di fare una bella passeggiata. Sai, Samuel, mi piaceva molto passeggiare, a volte camminavo per ore. Mi distendeva.

- Negli Stati Uniti potrai tornare a farlo, ma adesso puoi solo fare in giro intorno al tavolo.

- Non credo che mi scaricherebbe: mi sentirei come una belva in gabbia. Che è un po’ quello che sono.

- Come belva, non ti vedo proprio. Comunque, se vuoi scaricarti, possiamo fare un incontro di boxe.

Carlos ride.

- Perché no?

Si affrontano, a torso nudo, ma ognuno dei due è molto attento a non fare male all’altro. È più un balletto che uno scontro.

- Fatti sotto, fottuto messicano, cholo di merda.

- Datti da fare, gringo.

Carlos attacca, senza troppa convinzione. Vedere il corpo di Samuel lo turba. L’idea dell’incontro di boxe è stata una cazzata. Aumenta la tensione, invece di scaricarla.

Samuel attacca deciso, all’improvviso, e mette a segno due tiri. Non sono vibrati con grande violenza, ma Carlos sente il dolore, forte, al torace e al ventre. L’attacco lo sorprende. Reagisce con foga. Samuel si difende, lo colpisce ancora, forte, facendolo piegare in due. Carlos si scatena. Samuel si mette sulla difensiva, per sfuggire alla gragnola di pugni. Carlos ha perso il controllo, colpisce con forza. Solo la smorfia di dolore sulla faccia di Samuel gli restituisce la coscienza della situazione. Si ferma. Lo guarda.

- Scusami, Samuel, non volevo farti male. Non so che mi è preso.

Samuel sorride.

- Era un incontro di boxe, no?

- Scusa, io…

- Ti ho colpito io per costringerti a reagire. Dovevi sfogarti, no?

Carlos annuisce, ma è scosso.

- Su, non è successo niente.

Samuel lo abbraccia. Ma Carlos si scioglie dall’abbraccio. Il contatto con quel corpo lo fa bruciare. Non è stata una buona idea, quella della boxe. Prenderà una pastiglia anche questa sera.

 

Il processo volge al termine. Per la prima volta Carlos si dice che forse arriverà alla fine, che forse non lo uccideranno. È una sensazione strana. Ci sono dei momenti in cui pensa persino al suo futuro negli Stati Uniti come a qualche cosa di possibile, non come a un sogno. Si chiede se avrà occasione di rivedere Samuel. Sono diventati amici, ma sa benissimo che quando saranno negli Stati Uniti, Samuel passerà a occuparsi di altro e probabilmente non avranno più occasione di vedersi. Sa di esserne innamorato, ma questo non conta: l’amore per lui sarà sempre un sogno, un bel sogno su cui non bisogna soffermarsi troppo.

Carlos si accorge che Samuel è più teso. Scherza meno spesso e quando lo fa, si avverte una forzatura nella sua allegria. Carlos sa benissimo di che cosa si tratta: è rimasta solo una settimana e i narcotrafficanti devono ucciderlo prima della sentenza, per poter fermare il processo. Carlos è ancora un morto che cammina, non deve scordarselo.

Per due sere di fila Samuel non viene a cena: gli dice che ha da fare. Al suo posto c’è Albert Lawrence, un gigante taciturno con cui Carlos scambia appena due parole.

La seconda notte, quando Samuel torna, verso l’una, e viene a coricarsi, Carlos gli chiede:

- Allora, Samuel, preparano qualche cosa?

Samuel esita, prima di rispondere:

- Sì. E credo di sapere anche che cosa. Non devi preoccuparti, Carlos.

- Non puoi dirmi di più?

- No, non voglio dirti niente. Sappi solo questo: non corri rischi. Ti proteggeremo.

- Samuel…

- Che cosa c’è?

- Vorrei che tu... Evita di esporti troppo.

- Carlos, è il mio lavoro.

Carlos è angosciato.

- Promettimi di non correre rischi inutili.

- Carlos, farò quello che devo.

Carlos sente una tristezza di piombo montare dentro di sé. Si volta verso la parete opposta a quella di Samuel e dice:

- Buona notte.

Ma Samuel si alza, si siede sul letto di fianco a lui e gli accarezza i capelli, in un gesto che toglie il fiato a Carlos.

- Buona notte, Carlos. Non ho nessuna intenzione di morire e baderò a me stesso.

- Grazie.

 

Durante il giorno Carlos non vede Samuel. Di solito passa nell’aula più volte, anche se non si ferma mai molto a lungo: ci rimangono diversi dei suoi uomini.

La sera, Samuel gli dice:

- Questa notte non dormirai qui.

Quindi è per questa notte. D’altronde il processo finirà tra pochissimi giorni.

- Dove andremo?

Samuel ha detto “non dormirai”, ma Carlos vuole includere anche lui, vuole che Samuel gli dica che dormiranno tutti e due da un’altra parte, lontano dal pericolo.

- Tu dormirai in una cella sotterranea.

- E tu?

Samuel scuote la testa, ma nel suo sorriso c’è molta tenerezza.

- Io farò la mia parte, Carlos.

Carlos chiude gli occhi.

- Ho paura, Samuel.

Samuel fa per aprire bocca, poi la richiude senza dire nulla. Dopo un momento dice:

- Paura che mi succeda qualche cosa, vero?

Carlos annuisce.

Samuel gli mette una mano sulla sua.

- Baderò a me stesso, te lo prometto.

Si mettono a tavola prima del solito, ma Carlos non riesce a trangugiare nulla.

Quando è buio, Samuel gli infila un cappuccio sulla testa: mentre lo trasportano qualcuno può vederli e anche nella caserma Carlos deve sembrare un prigioniero, nessuno deve capire che è il giudice.

Nella cella sotterranea c’è un letto. È stato messo un paravento, in modo da assicurare a Carlos un po’ di intimità. Due uomini del servizio di guardia rimarranno nella cella. Altri saranno di guardia fuori.

Carlos è angosciato. Samuel gli sorride.

- Andrà tutto bene.

- Samuel… promettimi che quando sarà finito verrai a dirmi subito che stai bene. Samuel…

La voce gli si spezza.

Gli uomini di guardia sono fuori dalla cella. Samuel abbraccia Carlos, stretto. Gli accarezza ancora la testa.

- Non aver paura per me, Carlos.

Si stacca ed esce. Entrano due uomini. La porta viene chiusa.

Carlos si stende, ma sa che non dormirà. Uno degli uomini, Matt, gli chiede se vuole dormire. Carlos dice di sì. L’uomo spegne la luce. Rimane accesa solo una lampada oltre il paravento. A un certo punto Carlos si mette a sedere sul letto. Si prende la testa tra le mani. Non regge. Non ce la fa. Poteva sopportare l’idea di essere ucciso, si era abituato a essere un morto che cammina. Per quanto l’angosciasse, riusciva a tollerarlo. Ma non questo. Il pensiero che Samuel possa venire ucciso per proteggerlo lo fa impazzire. Non vuole che Samuel muoia. A un certo punto si alza. Vorrebbe uscire, esporsi così, nudo, ai colpi. Che lo ammazzino, ma che Samuel non rischi per colpa sua. Lo farebbe, lo farebbe davvero, se non sapesse che oltre il paravento i due uomini vegliano e altri sono davanti alla porta della cella e altri ancora… Non lo lascerebbero certo uscire.

Carlos si prende la testa tra le mani. Singhiozza.

Sente una voce, oltre il paravento:

- Non sta bene, signor giudice? Ha bisogno di qualche cosa?

Con uno sforzo, Carlos risponde:

- No, niente, Matt. Grazie.

Carlos si stende, si copre completamente con il lenzuolo, nonostante il caldo. Vorrebbe annullarsi. Questa angoscia è intollerabile.

Si scopre. È sudato, ma trema. Si rimette in piedi. Non ce la fa, non può reggere, non può. Samuel… Se lo uccidessero…

Il tempo non passa. Si è fermato. Carlos guarda l’ora e gli sembra impossibile che siano appena le dieci. Gli sembra di essere in questa cella da giorni, non da un’ora.

Matt si avvicina.

- Cerchi di dormire, signor giudice. È meglio che prenda questa pastiglia.

Carlos scuote la testa. Come dormire, sapendo che potrebbero uccidere Samuel? Ammazzarlo mentre lui dorme. No!

- La prenda, altrimenti domani sarà ridotto a uno straccio.

Carlos prende la pastiglia. La mette in bocca, sotto la lingua. Beve l’acqua che Matt gli porge, senza inghiottire la pastiglia. Lascia l’agente che gli auguri la buona notte e si stende. Si toglie la pastiglia di bocca. Non vuole dormire, non vuole dormire.

Carlos si rimette a sedere. Cerca di non fare rumore, ma agli uomini di Samuel non sfugge niente. Matt si avvicina di nuovo.

- Non riesce a dormire? Neanche con la pastiglia?

Carlos scuote la testa. Vorrebbe piangere.

- Non l’ha presa la pastiglia, vero?

Carlos scrolla di nuovo il capo.

- Qui non corre nessun rischio, glielo assicuro.

Carlos lo guarda. Riesce infine a parlare:

- Ne correte voi, tutti, per me.

- Lei ne corre per tutti noi. E noi per lei. Ma la situazione è sotto controllo.

Matt sorride.

- E adesso, prende questa pastiglia, a costo di fargliela ingoiare a forza. Tanto dormirà poco lo stesso, teso com’è. Ma almeno sarà meno angosciato.

Carlos annuisce. Non ha più la forza per opporsi. Non riesce più a reggere la propria disperazione.

Manda giù la pastiglia. Si stende. Sa che non riuscirà a prendere sonno, ma il sonnifero lo fa sprofondare in un dormiveglia in cui la sua angoscia è attutita.

A ridestarlo completamente è un rumore che nei sotterranei giunge attutito. Un elicottero. Carlos sa che cosa significa. Non è la prima volta che i narcos ne usano uno per le loro imprese.

Carlos si alza in piedi di scatto. Samuel! Samuel!

Anche i colpi dei mitra sembrano risuonare lontano, ma sono vicinissimi, Carlos lo sa.

L’esplosione no, quella è violentissima, il rumore si sente benissimo, sembra riempire la stanza. Carlos cade in ginocchio. Si prende la testa tra le mani.

Rimane fermo. Il tempo passa. Dentro di lui c’è solo il vuoto.

Una voce. La porta si apre.

Carlos alza la testa.

Samuel è davanti a lui, sorridente. Lo guarda, scuote la testa. Si avvicina, lo solleva da terra.

- Tutto a posto, Carlos.

Carlos annuisce. Sta piangendo. Samuel prende dalla tasca un fazzoletto e gli asciuga le lacrime.

- Adesso stenditi e mettiti a dormire.

Carlos scuote la testa.

- No. Io vengo con te.

Samuel riflette un momento.

- Va bene. Possiamo tornare a casa.

“A casa”. Un appartamento in una caserma. Ma per Carlos è la sua casa, da tempo, e anche per Samuel lo è stata negli ultimi mesi.

Carlos si riveste e segue Samuel.

Nel cortile che attraversano prima di arrivare a quello in cui si trova l’appartamento, Carlos vede molti soldati intorno a rottami che ancora bruciano.

- Volevano bombardare la casa. Sapevano dov’era. Ma li abbiamo intercettati prima.

- Come… come avete fatto a scoprire che cosa volevano fare?

- Fonti diverse. Non sono solo gli uomini che hai conosciuto tu a occuparsi della tua protezione. Costi un casino di soldi al governo degli USA, Carlos.

Carlos annuisce, ma non sorride. Non sta in piedi.

Samuel lo accompagna nell’appartamento. Carlos gronda di sudore. Si fa una doccia. Poi si stende, stanchissimo. Sprofonda nel sonno.

 

Verso mattina, Samuel torna nei suoi sogni. Ma questa volta non è come le altre. Sono in auto. Ora Samuel cammina di fianco a lui. Un uomo con il mitra. Spara. Samuel si getta in avanti, lo copre con il proprio corpo. Cade, crivellato di pallottole.

Carlos urla, un “No” che ripete all’infinito.

- Carlos! Carlos!

Samuel è seduto sul letto di Carlos, ma il terrore è troppo forte. Carlos lo afferra, lo stringe, continuando a gridare:

- Samuel! Samuel! No! Samuel! No!

- Carlos! Calmati Hai sognato! Carlos.

- No, no!

 Le mani di Carlos stringono il corpo di Samuel, salgono al viso. Carlos trema. Samuel lo avvolge in un abbraccio. Carlos sta piangendo. Di nuovo Samuel gli asciuga le lacrime, ma questa volta sono avvinghiati. Carlos avvicina il viso di Samuel al suo. Si baciano. Carlos continua a piangere. Samuel lo bacia di nuovo.

Lentamente Carlos si calma, ma le loro braccia non si sciolgono. Ancora tremando, le sue mani accarezzano il corpo di Samuel.

Samuel lo guida a sdraiarsi e si stende su di lui. I loro corpi nudi aderiscono. Samuel lo bacia, con molta dolcezza, sulla fronte, sugli occhi, sulle guance, sulla bocca. Poi spinge la sua lingua tra le labbra di Carlos. Carlos geme. L’angoscia si sta dissolvendo, ma altre sensazioni emergono prepotenti. Il desiderio divampa, lo avvolge tutto, guida i suoi gesti, le sue mani che scorrono lungo la schiena di Samuel, che scivolano al culo, che lo pizzicano con forza, che scorrono sulle cosce e poi ripercorrono la stessa strada, in senso inverso, fino ad accarezzare i capelli di Samuel.

Samuel solleva un po’ la testa e lo guarda negli occhi.

- Carlos! Sei bellissimo.

Carlos non è bello, lo sa, ma accetta le parole di Samuel come un grido di desiderio.

- Io no, tu sei bellissimo.

E lo bacia sulla bocca e di nuovo le sue mani percorrono il corpo di Samuel.

Samuel si solleva sulle ginocchia. Carlos lo guarda, da sotto, fissa il grande cazzo teso, maestoso. Vorrebbe prenderlo in bocca, ma non osa. Le mani di Samuel lo accarezzano, gli stringono i capezzoli, gli afferrano i pettorali in una morsa, scendono sul ventre, avvolgono l’uccello di Carlos, gli soppesano i coglioni. È Samuel a chinarsi e a prendergli in bocca il cazzo. Carlos sussulta.

- Samuel! Samuel!

La lingua di Samuel stuzzica la cappella, le labbra l’avvolgono, le dita accarezzano lievi.

- Samuel! Samuel!

Samuel gli pone una mano sulla bocca. Fuori ci sono gli uomini di guardia. Potrebbero sentire.

Samuel è in ginocchio sul letto, le gambe divaricate. Il viso è in penombra, ma nel suo sguardo Carlos legge una domanda. Sorride e si volta, stendendosi sul ventre.

Samuel gli allarga le gambe. Gli stringe il culo, facendogli male. Si china e Carlos sente i morsi e poi la lingua che percorre il solco. Carlos geme.

- Carlos, mio Carlos. Mio piccolo Carlos.

Carlos non è piccolo, ma si abbandona come un bambino a quell’abbraccio.

- Lo vuoi, Carlos? Lo vuoi?

- Sì.

Samuel si alza e torna poco dopo. Si è infilato il preservativo.

Samuel si stende su di lui. Gli passa la lingua sulla nuca, gli mordicchia una spalla. Poi Carlos sente la pressione del cazzo di Samuel sul suo culo, la spinta che dilata l’apertura e, lento, l’ingresso trionfale.

- Samuel, amore mio!

Le parole gli sono sfuggite di bocca.

- Carlos!

Samuel gli accarezza la testa e spinge più avanti, sempre più avanti, in un movimento lento, continuamente interrotto, ma inesorabile. E Carlos si abbandona completamente, felice, mentre il piacere sale dentro di lui.

Quando è giunto fino in fondo, Samuel si ferma e gli sussurra ancora:

- Carlos, mio Carlos.

E poi incomincia a muoversi avanti e indietro ritmicamente. È doloroso, quel movimento intenso: da troppo tempo Carlos non ha più avuto rapporti. Eppure anche quel dolore è piacere, perché viene da Samuel, dall’uomo di cui si è innamorato.

Carlos geme, mentre Samuel si muove ritmicamente, prima con lentezza, poi più in fretta, sempre più rapidamente, squassando il corpo di Carlos. Il dolore cresce, ma Carlos si sente felice, felice che Samuel lo prenda, lo faccia suo. Samuel emette un suono strozzato, spinge con forza e poi si abbandona sul corpo di Carlos, gli sussurra all’orecchio:

- Carlos, mio Carlos!

Gli bacia la nuca, l’orecchio, i capelli. Poi si solleva, esce da lui e lo volta. Di nuovo gli allarga le gambe e si inginocchia sul letto. China la testa e gli prende in bocca l’uccello. Lo avvolge con le labbra, lo inghiotte, lo succhia. Le sue mani intanto stringono le cosce di Carlos, che chiude gli occhi.

Carlos sente la tensione salire: ogni carezza della lingua è una scossa che moltiplica il desiderio. Il cazzo è gonfio di sangue e rigido e la bocca di Samuel lo sta facendo impazzire.

Carlos si rende conto che sta per venire. Avvisa Samuel, che non toglie la bocca, ma beve il suo seme.

Carlos guarda Samuel, chino su di lui. Si sente felice, immensamente felice.

 

Non hanno molto tempo: ormai è mattina, devono alzarsi, incominciare una nuova giornata, una delle ultime qui. E poi? Carlos sorride mentre si fa la doccia. Questa sera parleranno del futuro.

 

La giornata è finita. Tra due giorni si concluderà il processo e Carlos lascerà il Messico, per un lungo periodo di tempo, forse per sempre. Nei momenti di pausa della giornata il pensiero è andato spesso a Samuel, alla notte passata, al futuro. Mille domande premono. Carlos si dice che questa sera alcune troveranno una risposta. È teso, è di nuovo in gioco la sua vita, ma in un modo del tutto diverso: non più la sua sopravvivenza fisica, ma la possibilità di essere felice, un obiettivo che mai si sarebbe posto solo qualche giorno fa.

Durante il breve spostamento in auto, Samuel ha la faccia di sempre, è concentrato su quello che fa e non sembra badare a lui: è stato così tutti i giorni, ma oggi forse Carlos si aspettava qualche cosa di diverso, magari anche solo un sorriso, una strizzata d'occhi. Samuel non deve nemmeno aver visto il suo, di sorriso.

Samuel non perde di vista un attimo la strada. È quello che fa sempre, ma Carlos ha una strana sensazione. Gli sembra che qualche cosa non funzioni. Forse Samuel vuole solo evitare che uno sguardo estraneo possa cogliere qualche cosa. Carlos si dice che le sue sono soltanto seghe mentali, ma avverte dentro di sé una crescente irrequietezza.

Arrivano alla casa, Gilbert e David, i due uomini che sono rimasti nell'appartamento, escono. Sono allegri, loro: la missione si avvia alla fine, il pericolo mortale sembra essere stato scongiurato, avranno un lungo periodo di vacanza. Mentre lui e Samuel entrano in casa, Carlos è inquieto. Non sa come incominciare.

È Samuel a parlare.

- Sei più tranquillo, ora?

La domanda spiazza Carlos: è così lontana da quello che si aspettava. Ma è soprattutto il tono di Samuel a colpirlo: distaccato e falso. Un distacco che cela male una tensione. Perché?

- Tranquillo?

- Questa notte eri alquanto agitato...

Samuel sorride. Un sorriso complice e fasullo come il tono usato prima. Poi aggiunge:

- ... che cosa non ho dovuto fare per calmarti…

Il sorriso si allarga. Non diventa più convincente, solo più falso.

Potrebbe essere una battuta, ma Carlos vi coglie un messaggio. Gli sembra di aver ricevuto un secchio d'acqua gelata in testa. Ignora il tono scherzoso e risponde, diretto:

- Hai dovuto fare? Credevo che anche tu lo volessi, Samuel.

Samuel ridacchia e Carlos vorrebbe colpirlo, per cancellare quel sorriso imbarazzato e stupido.

- Cazzo, Carlos! Dopo mesi e mesi di astinenza, come avrei potuto non volerlo anch'io? È stato molto piacevole. Ne avevamo bisogno tutti e due, per alleggerire la tensione di questi mesi e soprattutto della notte. Tu eri così angosciato!

Non è rimasto molto dei sogni e dei pensieri della giornata. Carlos potrebbe tacere, ora. Dovrebbe farlo, lo sa benissimo: non c'è più molto da dire. Ma nella testa di Carlos ci sono ricordi, frammenti di parole dette nella notte. E allora parla, diretto:

- Credevo che non fosse solo una questione di scopare.

Samuel ridacchia.

- E dai, Carlos, non fare il bambino, adesso. È un po' di Sindrome di Stoccolma, tutto lì.

Una volta Carlos, da ragazzo, aveva litigato con un compagno nella palestra di boxe, mentre aspettavano di salire sul ring. L'altro gli aveva sferrato un pugno nel ventre a tradimento. Carlos si era piegato in due, stroncato da un dolore lancinante. L'impressione è la stessa. Non si piega in due, ma gli pare di accartocciarsi, dentro. Balbetta:

- La Sindrome di Stoccolma?

- Ma sì, sai che quando una persona viene rapita, può capitare che, vivendo a lungo con il suo carceriere, gli sembri di innamorarsi di lui. Ma poi svanisce. Con te è successa la stessa cosa. In fondo in questi mesi io sono stato un po' il tuo carceriere.

Carlos sa benissimo che cos'è la Sindrome di Stoccolma, ma ascolta senza dire nulla. C'è ancora qualche cosa da dire? Ci sono parole che hanno un senso? No, nessuna. Carlos tace. Annuisce e tace. Abbassa lo sguardo. Non vuole guardare in faccia Samuel. Una stanchezza atroce si sta impadronendo di lui.

- Mi stendo un attimo.

- Sì, fai bene, dopo la notte che hai passato, hai certo bisogno di un po' di riposo.

Quanto sollievo nella voce di Samuel! Temeva di dover discutere. Carlos annuisce e si dirige nella camera da letto. Discutere di che? Dei sentimenti ha senso discutere? Se non si ama, non si ama. Se non si è amati, non si è amati. C'è altro da dire? C'è altro che conta?

Carlos si stende. Chiude gli occhi. Sprofonda nella disperazione. È stato un idiota a sognare, a illudersi. Le parole di una notte di passione risuonano ancora al suo orecchio, ma sono beffarde, ora. È stato fortunato a sopravvivere fino a ora. Probabilmente lo sarà ancora tanto da lasciare il Messico. Che cosa voleva di più? Si è innamorato? Povero coglione!

Si alza per la cena. Mangia molto poco, a fatica. Parlano appena. Carlos si sforza di sembrare normale. Samuel sembra tranquillo, ma Carlos avverte che è ancora teso. Teme che lui gli salti addosso? Di certo non lo farà.

Dopo cena Carlos legge un po', poi prende una pastiglia e si mette a letto. Nonostante la stanchezza, il sonno viene molto tardi.

 

I due giorni successivi si svolgono senza intoppi. Il processo si conclude, le condanne vengono pronunciate, Carlos riceve elogi da tutti. I giornali esaltano il suo coraggio. Carlos vive come un automa. Rifiuta di ascoltare la sofferenza che ha dentro, l'ha accantonata. Farà i conti con lei dopo, quando sarà solo, quando non avrà più Samuel davanti ogni momento, quando finalmente avrà una casa, anche solo una stanza, che non dovrà condividere con nessuno.

Sbarcano all'aeroporto militare di Washington. Carlos ripartirà subito, per il Maine.

Samuel gli si avvicina. Ha perso la baldanza fasulla degli ultimi giorni. C'è un'espressione molto seria sul suo viso. Gli stringe la mano e gli dice:

- Carlos, è stato un piacere lavorare con te. So di essere stato insopportabile, ma era necessario per portare a termine il compito.

Non una parola, non un cenno ad altro.

- Grazie, Samuel. Grazie di tutto.

Carlos vorrebbe aggiungere: "anche di avermi fatto sognare per un giorno".

Null'altro. Non si abbracciano neppure. Gli uomini della scorta, che hanno viaggiato con loro, lo hanno abbracciato tutti, alcuni gli hanno detto cose che lo hanno commosso: sentire il loro affetto gli ha fatto bene.

Samuel si limita a una stretta di mano, poi si volta e se ne va tranquillo. Carlos lo guarda allontanarsi sulla pista.

 

È bello il Maine. Chi ha scelto la località, non poteva trovare un posto migliore. Una cittadina, poco più di un paese, tra un mare disseminato di isole e i monti coperti di foreste. L'autunno è arrivato e Carlos cammina lungo la strada per tornare a casa. Ogni giorno cammina per almeno due ore. Lavora in casa, collegandosi via Internet all'Agenzia per la lotta al narcotraffico. È un uomo molto utile, il giudice Cartero: molto competente, conosce perfettamente la legislazione e la situazione messicana. Probabilmente più avanti andrà a lavorare a New York o a Washington, ma per il momento è meglio che viva isolato, in un posto che quasi nessuno conosce.

Il mattino presto e la sera Carlos si concede una lunga passeggiata. Adesso i boschi sono uno spettacolo: una sinfonia di rosso, giallo, marrone e verde.

È un mese che Carlos vive nel Maine, in solitudine. Poche parole con i vicini di casa, qualche scambio di posta elettronica con amici del passato, con lontani parenti. Molte letture.

Una vita tranquilla, ma Carlos non è tranquillo. Un po' per volta ha lasciato affiorare il dolore: non poteva portarselo dentro, a rodergli l'anima. Il lavoro lo distrae dalla sofferenza. Le lunghe passeggiate lo aiutano a calmare l'angoscia.

Carlos sta tornando a casa. È quasi buio, ormai. La macchina è ferma sul ciglio della strada, un po' prima di casa sua. Carlos non l'ha vista prima, quando è uscito. Perché ha di colpo la certezza che quella macchina sia lì per lui? Lo hanno trovato? Lo uccideranno? Carlos si ferma. Se sono lì per ucciderlo non ha scampo. Inutile che si metta a correre.

La portiera dell'auto si apre. Samuel scende.

Carlos si ferma. Vorrebbe voltarsi e tornare indietro. Samuel chiude l'auto e si appoggia contro la portiera. Non sorride. Non dice nulla. Non si muove.

Anche Carlos è immobile. A dieci metri uno dall'altro, si guardano, senza che nulla nei loro volti tradisca ciò che provano. Se qualcuno sta osservando la scena dalla finestra, di certo si chiederà che cosa sta succedendo, ma Carlos non ci pensa.

Carlos non riesce a tollerare la sofferenza che sente dentro di sé. Con uno sforzo si muove e si avvicina, ma non dice niente, non riesce a parlare. Samuel rimane al suo posto, muto.

Sono uno di fronte all'altro, ora. Non parlano. Carlos non vuole dire cose che non hanno senso. C'è qualche cosa che avrebbe senso dire?

Si guardano, sempre senza sorridere. Ognuno dei due legge negli occhi dell'altro la stessa angoscia.

È Samuel a parlare:

- Non credevo che fosse così forte. Pensavo di poterlo soffocare. Sindrome di Stoccolma! Che cazzata!

Carlos si appoggia all'auto, di fianco a Samuel. Non si regge in piedi. Articola, a fatica:

- Perché mi hai detto quelle stronzate?

- Perché sono uno stronzo, suppongo.

Carlos tace. Samuel non può cavarsela con così poco. Samuel tira il fiato:

- Sapevo che cosa stavo provando, ma davvero pensavo che per te fosse solo un po' di Sindrome di Stoccolma, l'astinenza, la gratitudine e altra roba di quel genere. Non volevo che la faccenda mi coinvolgesse ancora di più: ero già abbastanza coinvolto. Non... non ero pronto per questo.

Carlos chiude gli occhi. L'angoscia si sta dissolvendo.

- E adesso sei pronto?

- Non ho alternativa. Non ce la faccio a stare senza di te, Carlos. A meno che tu non mi mandi a fare in culo.

Carlos sorride:

- Se è insieme a me, va bene. Hai portato la valigia?

- Poche cose.

- Penserai mica che ti lasci andare via tanto presto?

Samuel scuote la testa. Sorride.

- Ho la carta di credito. Posso comprare tutto ciò che voglio.

Carlos lo guarda, ghignando. Sono ancora tutti e due appoggiati all'auto di Samuel.

- Almeno i preservativi, li hai con te?

Samuel tira fuori dalla tasca una confezione, senza dire niente.

Carlos ride.

- E allora, cos'altro ci serve?

 

2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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