| La morte del re 
 Angelo Scibone
  osserva gli edifici. Ettore Albanella gli
  spiega, deferente, quasi untuoso: - Al posto del teatro
  possiamo fare un casino di appartamenti. Due caseggiati di nove piani. Fa
  almeno quaranta alloggi. - Nessuno che possa
  mettere i bastoni tra le ruote? - C’è uno dei consiglieri
  di circoscrizione che scassa le palle, il Russo. Dice che il teatro è
  importante per il quartiere, che non ha senso costruire altri palazzi. Ha
  avviato una raccolta di firme. Angelo scrolla le spalle. - Le firme può usarle per pulirsi il culo. - Lamenta che ci sono state irregolarità.  - Starà zitto. Ettore Albanella non
  chiede come lo faranno stare zitto: lo sa benissimo. C’è ancora una domanda che
  gli preme. - Ci sarà qualcuno che non
  sarà contento, se siamo noi a fare il lavoro. Ma se è la famiglia Scibone che ce lo affida…  Angelo annuisce. Albanella
  ha scelto con cura le parole: vuole essere sicuro che ad affidargli i lavori
  sia la famiglia Scibone e non si tratti di
  un’iniziativa personale di Angelo, ma non si permette di certo di avanzare
  dei dubbi.  Angelo sa benissimo che
  suo padre non sarà contento: nel quartiere loro hanno sempre fatto affari con
  i Parete, che utilizzano le imprese di costruzione dei
  Tricarico. Rivolgersi ad Albanella è uno strappo
  alle consuetudini, ma i Parete dovranno far buon viso a cattivo gioco: non
  sono forti, possono solo chinare la testa e accettare. Suo padre mugugnerà, ma
  non ha importanza. Angelo dice: - Staranno zitti tutti. Il telefonino squilla.
  Angelo guarda il display. Suo fratello Leonardo. Albanella stava per
  parlare, ma si interrompe. Angelo risponde. Albanella
  si allontana. Leonardo lo aggredisce
  subito: - Che cazzo hai fatto,
  Angelo? Che cos’è questa storia dei rifiuti della Brianza? Come l’ha saputo Leonardo?
  C’è qualcuno che non sa stare zitto. Qualcuno che ha bisogno di una lezione. - Non scassare le palle,
  Leonardo. Non sono cazzi tuoi. - Ne parlerò a nostro
  padre. Vediamo che cosa ne dice lui. - Fa’ quel che cazzo vuoi,
  Leonardo. Angelo chiude la
  comunicazione. È incazzato. Il cellulare suona di nuovo, ma Angelo lo ignora. Leonardo è una testa di cazzo,
  tene ‘a capa sulo pe’ spartere
  ‘e rrecchie. Ma vuole mettere il becco dappertutto.
  Da tempo Angelo sa che è ora di provvedere. Angelo fa un cenno con la
  testa e Albanella si avvicina. - Quando incominciate? - Il teatro verrà
  consegnato tra un mese. C’è ancora uno spettacolo, poi chiudono. Si avvicinano all’ingresso.
  Albanella guarda il cartellone. - Antonio Basile. Il re di
  Napoli, lo chiamano. Dicono che è il re della scena qui in città. Anche se se ne andò a Torino, qualche anno fa, ma non fece
  fortuna e ritornò qui… Antonio Basile. Angelo se
  lo ricorda bene: era il suo insegnante di teatro alla scuola Santa Chiara.
  Era un uomo affascinante, allora. Chissà com’è adesso. Diversi pensieri gli si
  affacciano in testa. Albanella vuole aggiungere
  qualche cosa, ma esita. Angelo chiede. - Che c’è? - Basile è molto popolare.
  Recita spesso qua, tutta Napoli gira, mica frequenta
  solo i grandi teatri. Il re di Napoli si mescola alla folla. Se si mette in
  testa che il teatro non deve essere abbattuto… Se
  fa propaganda per la raccolta di firme… Angelo ghigna.  - Non lo farà. Il teatro in cui recita
  Basile. Chissà com’è? Dice ad Albanella: - Entriamo. Albanella è disorientato. - Ma è chiuso… Angelo sta per dirgli di
  procurarsi le chiavi, ma gli viene in mente un’altra idea e decide di lasciar perdere. - Non ha importanza.  Guarda Albanella e dice: - L’affare è tuo, ma bocca
  chiusa: ‘a parola cammina. Attento a come ti muovi.
  Con noi non si scherza. - Sì, eccellenza. Può
  contare su di me. Grazie. Angelo si avvicina
  all’auto. Chiama Ennio, di cui si fida pienamente.  - Ennio, voglio andare a
  vedere questo spettacolo che incomincia la settimana prossima. Mi procuri un
  biglietto per la prima. Un buon posto. Ma nessuno lo deve sapere. - Sarà fatto. Angelo fa un cenno a
  Ennio, che ritorna all’auto. Prende dalla tasca il cellulare e preme un
  tasto, per richiamare l’ultimo numero.  * - Un cadavere in un
  cassonetto. Fabrizio, va’ tu. Poi vediamo a chi
  tocca. Fabrizio annuisce. Da due
  anni lavora nella squadra omicidi.  Quando arrivano nella via,
  la scientifica è già al lavoro. Il cadavere è di un ragazzo: non deve avere
  più di vent’anni. Un colpo alla nuca: la classica esecuzione. Probabilmente è
  un delitto di camorra. Quando la scientifica ha
  finito con il suo lavoro, il responsabile passa il
  portafogli del morto a Fabrizio. Dentro c’è un documento di identità. Il
  morto è Leonardo Scibone. - Cazzo! Cazzo! Cazzo! L’agente Giraudo lo
  guarda, aggrottando la fronte.  - Che c’è, ispettore? - È Leonardo Scibone, uno dei figli di Salvatore Scibone.
  Questo significa guerra tra i clan. In commissariato si decide
  che a seguire l’inchiesta saranno due colleghi di Fabrizio, più addentro
  negli affari degli Scibone e dei Santagata, i loro nemici di sempre. A Fabrizio non spiace
  non doversene occupare. * Vincenzo Russo è al mercato.
  Raccoglie firme contro il progetto di demolire l’isolato del teatro per far
  posto a nuove costruzioni. Vuole portare la petizione in consiglio di
  circoscrizione e poi in consiglio comunale. Il tavolo per la raccolta
  delle firme è a un angolo, in una zona di passaggio. Ci sono due volontari
  che distribuiscono volantini per il mercato e invitano ad aderire
  all’iniziativa, mentre Vincenzo raccoglie le firme.  I quattro arrivano in un
  momento in cui Vincenzo è solo. In un attimo rovesciano il tavolo. Uno si
  impadronisce dei fogli delle firme e li straccia. Vincenzo cerca di
  intervenire, ma viene bloccato. Lo prendono a pugni nello stomaco e in
  faccia. Qualcuno guarda, senza
  intervenire. Una donna grida. I più si allontanano velocemente, guardando da
  un’altra parte.  È questione di un attimo.
  I quattro si dileguano, lasciando Vincenzo a terra, il viso insanguinato.  Uno dei due giovani che
  distribuiscono i volantini arriva e lo aiuta ad alzarsi. Vincenzo va alla fontana,
  camminando a fatica, e si lava la faccia, poi torna al banchetto. Risistemano
  il tutto e Vincenzo va all’auto per prendere altri fogli per le firme. Quelli
  stracciati li mette via: presenterà anche quelli. Sa quel che rischia, ma
  non intende fermarsi. Da quando è tornato a Napoli, dopo dieci anni al nord,
  ha deciso che doveva fare qualche cosa per la sua città. Anche a rischio
  della pelle. * C’è parecchia gente questa
  sera a teatro: ormai tutti gli spettacoli di Antonio Basile richiamano un
  pubblico numeroso. La serie di recite che incomincia oggi sarà l’ultima in
  questa sede: la sala verrà chiusa e abbattuta per far posto a nuove
  costruzioni. Il locale è più un cinema che un teatro e l’acustica lascia
  alquanto a desiderare, ma Fabrizio si chiede se ad Antonio non spiaccia
  lasciarlo. Sono diversi anni che la sua compagnia recita
  qui. La nuova sala in cui si sposteranno è migliore e più centrale, ma Antonio ha sempre amato portare il teatro in
  tutti i quartieri della città, ancora oggi fa teatro con i ragazzi di
  Scampia, per niente. L’Antonio di oggi non è diverso
  dall’Antonio di quattordici anni fa, è rimasto coerente con le sue idee e
  Fabrizio sa che è uno dei motivi per cui lo ama come allora. No, più di
  allora. Fabrizio pensa che sono quattordici anni che stanno insieme. Lui era un
  poliziotto, quando si sono conosciuti, adesso è ispettore. C’è stato in mezzo
  il periodo a Torino, quando Antonio lasciò Napoli, per due anni, per stargli
  vicino. Una scelta che pagò cara sul piano professionale, Fabrizio lo sa
  benissimo, ma Antonio accettò il prezzo e non glielo ha mai fatto pesare. Ora
  sono di nuovo a Napoli, da sei anni, e Antonio è diventato il nuovo re del
  teatro napoletano, come viene chiamato, anche se solo alcune delle opere che rappresenta sono in dialetto. Fabrizio è curioso di
  vedere il nuovo spettacolo di Antonio. È l’Edoardo
  II di Marlowe, lo stesso dramma per cui Antonio gli regalò il biglietto,  quattordici anni fa. Voleva metterlo in
  scena già allora, ma non lo fece e ne è passata acqua sotto i ponti prima di
  realizzare quel progetto, anche a causa del trasferimento a Torino. Ma oggi
  finalmente si avvera il suo vecchio sogno. Fabrizio lo ha aiutato a studiare
  la parte, ma Antonio non gli ha permesso di
  assistere a nessuna delle prove, come invece avviene di solito, Fabrizio non
  ha capito perché. Il sipario si apre.
  Fabrizio sussulta: Antonio è in scena, completamente nudo. Fabrizio conosce
  bene il corpo che ora si offre a tutti gli spettatori. È un gran bel corpo,
  di un uomo che ormai si avvicina ai cinquanta, ma ha conservato forza e
  armonia. Fabrizio guarda il cazzo
  di Antonio, come sa benissimo che stanno facendo tutti gli spettatori,
  stupiti, e un’ondata di desiderio lo prende. Che cos’è che lo turba tanto,
  che tende il suo cazzo al punto da fargli male? Ha visto Antonio
  nudo infinite volte, ha stretto quel corpo, lo ha posseduto, è stato
  posseduto da lui. Forse è il fatto che sono in centinaia a vederlo questa
  sera, che in qualche modo lo condivide con un pubblico? Nelle scene successive,
  Antonio appare vestito: un lungo abito nero che non rimanda a nessuna epoca
  particolare, come quello degli altri personaggi. Lentamente Fabrizio sente
  svanire l’eccitazione, ma rimane sempre presente il desiderio di rivedere
  Antonio nudo. Lo vedrà nella notte, a casa, ma
  Fabrizio sa che vorrebbe vederlo ancora qui, in scena, sotto i riflettori,
  insieme a tutti gli altri spettatori. E al pensiero, nuovamente il cazzo gli
  si tende. E, quasi a soddisfare il
  suo desiderio, nell’ultima scena, Antonio è di nuovo nudo. Il re è in carcere
  e aspetta di essere ucciso. Il carnefice entra. Ha una spada in mano. Lo
  seguono quattro uomini. Essi afferrano Antonio e lo costringono a stendersi
  su un tavolaccio, che viene sollevato da un lato: ora Antonio è disteso, la testa in basso, a livello del suolo, le gambe forse
  un metro più in alto, il cazzo che ricade sul ventre, ben visibile. Fabrizio
  sente di nuovo la tensione che sale. I quattro lo tengono fermo. Sono vestiti
  di nero e hanno guanti neri. Fabrizio fissa quelle macchie scure che bloccano
  le braccia e le gambe di Antonio. Il carnefice appoggia la
  spada sul tavolaccio, tra le gambe divaricate di Antonio, poi spinge verso il
  basso. Dalla platea sembra che stia infilando la spada in culo ad Antonio.
  Fabrizio sa che secondo la tradizione Edoardo venne effettivamente ucciso
  così. Antonio grida, un urlo che
  raggela il sangue, ma Fabrizio sente l’eccitazione
  montare. Pensa che questa sera sarà lui il carnefice e Antonio morirà una
  seconda volta, la spada nel culo. Il sipario si chiude.
  Grandi applausi. Quando infine il pubblico
  incomincia a defluire, Fabrizio si dirige ai camerini. Lo conoscono bene,
  ormai, e lo lasciano passare. Antonio si sta ripulendo
  la faccia dal trucco. Gli sorride nello specchio. - Che ne dici? - Stupendo, una delle cose
  migliori che hai fatto. Valeva la pena di aspettare tutti questi anni. Ma
  adesso il carnefice lo faccio io. Fabrizio ha raggiunto
  Antonio e si appoggia alla sua schiena. - Direi che tu hai la
  spada già pronta. Fabrizio gli mette le mani
  sulle spalle. - Devi andare a cena con
  gli altri? Io non reggo più. Antonio lo guarda nello
  specchio. C’è molta dolcezza nel suo sguardo. - No, posso farne a meno.
  Ma dalle tue condizioni direi che vorresti farlo qui nel camerino. Qualcuno
  passerà, di sicuro.  - Chiudiamo la porta. Per
  me va bene il camerino, pure il palcoscenico, purché tu non mi faccia
  aspettare troppo. Antonio esita un attimo. - Perché no? Marcello di
  certo mi dà le chiavi. Ci vogliono venti minuti
  perché gli attori se ne vadano e anche Marcello, il custode, li lasci.
  Antonio ha detto agli altri che li raggiungerà dopo.  Il teatro è vuoto. Ci sono
  solo le luci di emergenza. Antonio accende un riflettore che illumina solo il
  centro della scena, quello usato nell’ultimo atto, quando Edoardo II viene
  ucciso. Poi Antonio e Fabrizio portano sul palcoscenico un tavolo e lo
  piazzano sotto la luce. Antonio prende anche due corde. - Sei pronto? Fabrizio annuisce. Antonio
  gli porge un camicione nero. Entrambi si spogliano. Hanno tutti e due il
  cazzo duro. Antonio si stende sul tavolo, nudo, su un fianco, come se stesse
  riposando. Fabrizio si mette il camicione e prende le corde. Si avvicina ad
  Antonio, che al suo arrivo sussulta e si solleva su un gomito. - Perché vieni con quelle
  corde? - Devo legarti. - Perché? Di certo non posso
  fuggire di qui. Sono ben salde le mura, ben chiusa la porta. - Non hai scelta. Fabrizio passa la corda
  intorno alla caviglia destra di Antonio, poi tira, forzandolo a spostarsi,
  fino a che le gambe scendono dal tavolo. Fabrizio fissa la corda a una della zampe. - Perché mi leghi così?
  Che cosa vuoi da me? L’angoscia sale nella voce
  di Antonio, in questa recita improvvisata. Fabrizio non risponde.
  Passa la corda intorno alla caviglia sinistra e poi la lega all’altra zampa, in
  modo che i piedi di Antonio siano entrambi bloccati. Antonio ora è in piedi
  contro il tavolo. Fabrizio gli passa la
  seconda corda intorno al polso destro.  - C’è sapore di morte nel
  tuo silenzio. Fabrizio tende la corda,
  costringendo Antonio ad appoggiare il ventre e il torace sul tavolo. Fabrizio cerca le parole
  adatte per rispondere a tono. Non fa fatica a trovarle, dopo tanti anni di
  frequenza assidua a teatro: - È un piatto che stai per
  gustare. - No, no! Antonio tira la corda, ma Fabrizio la fissa alla zampa del tavolo e poi
  tira, fino a che Antonio cede. Poi Fabrizio passa la corda intorno all’altra
  zampa e blocca la mano sinistra. Lega anche quella. - Che morte mi darai? - La spada. - Intendi recidermi il
  capo? - Sarebbe una morte troppo
  onorevole per te. - Io sono re. - Lo eri, forse, ma non
  come re ti sei comportato e non come re morirai. Fabrizio si pone dietro
  Antonio. Guarda il culo dell’uomo che ama, la peluria scura che lo copre,
  l’apertura che ha violato tante volte. Questa volta gli farà male, ma
  Fabrizio sa che entrambi lo vogliono. Fabrizio avvicina appena
  il cazzo al culo di Antonio, fino a che la cappella sfiora l’apertura.
  Antonio sussulta, come se davvero avesse sentito il calore di una spada
  rovente. - No, no, no! Fabrizio si china, sputa
  sull’apertura, inumidisce, perché l’ingresso sia meno doloroso, poi dice: - È giunta l’ora. Infilza Antonio con un
  colpo secco, spingendo subito fino in fondo, con brutalità. Antonio ha un guizzo
  disperato e grida. - Nooooooooooo! * Da una quinta Angelo
  guarda la scena. Ha la bocca asciutta e il cazzo teso, non meno di Fabrizio.  Vedere Basile nudo in
  scena è stato un pugno nello stomaco. Non se lo aspettava. E non si aspettava
  che gli facesse quell’effetto. Non ha mai più avuto rapporti con uomini, dopo
  quella volta a Torino, quando aveva diciott’anni. È un capitolo chiuso. Non c’è posto per finocchi
  tra la gente che conta e Angelo è uno che conta.
  Quelle sono cose di quando era un guaglione, adesso è un uomo: ha ventisei
  anni. Alla fine dello spettacolo
  ha deciso di fermarsi per parlare con Basile, per dirgli che cosa, non sa
  nemmeno lui, forse per avvisarlo che non deve occuparsi della chiusura del
  teatro, se non vuole incorrere in qualche guaio. Ma Basile non è uscito. Per
  Angelo Scibone nessuna porta è mai chiusa. È
  rientrato nel teatro e ha visto la luce in scena. Non si aspettava di
  assistere a questo fuori programma. Angelo si accarezza la
  patta dei pantaloni con la sinistra. Con la destra prende
  la pistola. Pensa che potrebbe uscire
  sul palcoscenico, sparare alla nuca di quel tipo che fotte Basile e poi fotterlo lui. E dopo sparargli in culo. L’idea gli piace.
  Impugna la pistola. Sì, lo farà. È quello che ha voglia di fare. Ammazzare il
  tizio e fottere Basile. Sorride. Ma mentre guarda il
  movimento ritmico del corpo di Fabrizio e l’agitarsi scomposto di Antonio, il
  desiderio deborda e Angelo viene. Trattiene a fatica un gemito: troppo forte
  è stato il piacere. Angelo ripone la pistola e
  si allontana, in silenzio. * Antonio sente che la
  tensione cresce. Il culo gli fa un male bestiale, eppure sa che tra poco
  verrà. Antonio grida: - Ora, bastardo, ora! Fabrizio spinge più forte
  e lancia un grido selvaggio. E mentre il seme di
  Fabrizio gli riempie le viscere, Antonio sente l’esplosione del proprio
  piacere, che deborda come la lava di un vulcano. Grida anche lui, senza
  freni, un urlo di puro piacere, che risuona nel teatro vuoto. Fabrizio si abbandona su
  di lui, abbracciandolo. - Ti amo,
  Antonio, ti amo. - Anch’io ti amo,
  Fabrizio. Rimangono alcuni minuti
  distesi, immobili. Poi Fabrizio si alza. Antonio sussulta quando sente il
  cazzo del suo compagno uscire da lui.  Fabrizio scioglie le
  corde. Antonio si alza. Fabrizio lo abbraccia e si baciano. - Ti ho fatto tanto male? - Quanto ci voleva. È
  stato bellissimo. Avrò male al culo per una
  settimana. - Va giusto bene per il
  tuo personaggio, no? - Sì, però dobbiamo
  scopare più spesso in queste due settimane. Fabrizio rimane
  disorientato. Non capisce. Non dice nulla e guarda interrogativamente
  Antonio. - Se domani sera durante
  lo spettacolo penso a quello che abbiamo fatto, mi
  viene duro. Vuoi mica che mezza Napoli mi veda con
  il cazzo in tiro? Se ho scopato prima, è più difficile che mi si rizzi. - D’accordo, mi
  sacrificherò.  - Come sei buono! Rimettono tutto a posto.
  Da come si muove Antonio, è evidente che ha davvero male
  al culo. * Salvatore Scibone guarda dalla finestra. Attraverso l’ampia vetrata
  si vedono bene la città e il golfo: un panorama superbo. Ma Salvatore non vede
  ciò che i suoi occhi stanno fissando, è perso dietro altri pensieri.
  Salvatore sta riflettendo sulla morte di Leonardo: una settimana fa il suo
  secondo figlio è stato trovato in un cassonetto, ammazzato con un colpo alla
  nuca. Chi l’ha ucciso? I Santagata, nemici della
  sua famiglia, che furono suoi alleati per un certo periodo e poi di nuovo
  nemici? Salvatore vorrebbe essere sicuro che sono stati loro, come dice
  Angelo, come sospetta la polizia, come insinuano molti.  Salvatore vorrebbe
  cancellare il dubbio che lo rode, che non osa esprimere a se stesso.
  Salvatore non ha mai avuto paura di niente, non è uno che si tira indietro.
  Ma adesso non osa guardare in faccia il suo dubbio. Salvatore china il capo. Tra poco verrà Angelo, per
  quella faccenda del teatro. Salvatore ha detto ai suoi uomini di perquisirlo.
  Deve far perquisire suo figlio! Anche suo fratello Lucio fece perquisire
  Angelo quando andò da lui, ma Angelo lo ammazzò con la pistola di Lucio.
  Aveva tredici anni, allora.  Il primo uomo Angelo l’ammazzò
  quando aveva dodici anni. Ora ne ha ventisei e scalpita perché vuole
  comandare lui. Gli rimprovera di essere troppo prudente, di non prendere
  abbastanza iniziative, le stesse critiche che lui faceva a suo padre. La storia si ripete. Lui
  ha fatto ammazzare suo fratello e suo padre, per prendere
  il comando. E adesso… Salvatore scuote la testa.
  Cazzate, sono solo cazzate… È di umore nero perché
  hanno ammazzato Leonardo. Eppure…
   Salvatore apre il primo
  cassetto della scrivania, ne tira fuori il quaderno con le annotazioni. Ci
  sono alcune cose di cui vuole discutere con Angelo, per la faccenda del
  teatro. Cose che non tornano. Angelo ha dato il benestare senza consultarlo e
  questo a Salvatore non piace. Angelo deve riferirgli, non può fare di testa
  propria. Angelo ha affidato la faccenda del teatro all’impresa di Albanella.
  Perché non ai Tricarico? E
  anche la cifra concordata… No, Angelo non la conta
  giusta.  Angelo arriva puntuale,
  come sempre. Non mostra irritazione quando gli uomini lo perquisiscono e gli
  fanno lasciare la pistola, ma questo significa poco: Angelo è sempre stato
  bravo a fingere, al contrario di Leonardo, che era una testa calda e non
  riusciva a tenersi dentro niente. Con Angelo Leonardo litigava spesso, voleva
  anche lui potere e libertà d’azione, anche se aveva solo vent’anni. Teste
  calde, i suoi figli, Salvatore lo sa benissimo. Vent’anni, un colpo alla
  nuca, un cadavere in un cassonetto dei rifiuti. Merda! Angelo si siede dall’altra
  parte della scrivania. Salvatore lo guarda. Suo figlio ha un viso e un corpo adatti al suo nome, ma Salvatore sa che è tutt’altro che
  un angelo. Angelo espone la
  situazione, in modo chiaro e preciso: Salvatore ha sempre ammirato la
  lucidità e la capacità di sintesi di suo figlio. Ma Angelo è un temerario,
  che non arretra davanti a niente. - L’affare è ottimo, anche
  se ora non pagano molto. Pagheranno il resto dopo.   - Per queste cose abbiamo
  sempre lavorato con i Tricarico,
  in accordo con i Parete. - Questa faccenda è affare
  nostro. I Parete devono starsene ben lontani.  - E come li vuoi tenere
  lontani? - Facendogli capire che è
  meglio se lasciano perdere, perché i pesci piccoli
  finiscono sempre mangiati dai pesci grossi. - Come glielo fai capire? - L’uomo dei Parete nella
  zona è Irsina. Una pallottola all’Irsina e la faccenda è chiusa. - Alla nuca? E mentre lo dice, Salvatore fissa negli occhi suo figlio. Ma Angelo
  non mostra nessun segno di turbamento e prosegue: - I Parete in questo
  affare non c’entrano. - Già ci sono polemiche su
  questa faccenda, ci si è messo di mezzo pure quel Russo, il consigliere. - Quello stronzo è meglio
  farlo sparire. - Viene fuori un casino.
  Quando lo hai fatto menare, gli hai regalato una bella pubblicità. Non è
  stata una buona idea. - No, avremmo dovuto farlo
  ammazzare subito.  - Te l’ho già detto: viene
  fuori un casino. - Se non lo facciamo sparire, il casino lo fa quel fottuto bastardo. - Lascialo
  perdere, tanto non riuscirà a bloccarci. Angelo non dice nulla. Suo
  padre continua: - Quanto al cantiere, possiamo
  dividerci l’affare con i Parete. Abbiamo sempre fatto così. Sfidarli
  significa affrontare un’altra battaglia. - Credi di poter allargare
  il giro senza combattere? Cazzo, papà! - No, non se ne parla.
  Siamo già impegnati su troppi fronti.  Angelo storce la bocca, ma
  non replica. Salvatore prosegue: - Siamo già sotto assedio.
  E hanno ammazzato Leonardo. - I Santagata,
  quei figli di puttana. Avremmo dovuto sbarazzarci di loro molto tempo fa. - Come se fosse facile! - Si può fare. Dobbiamo
  vendicare la morte di Leonardo. Angelo si dirige alla
  finestra alle spalle del padre e guarda fuori.  - Quei bastardi non
  vogliono mollare la presa sulla città, ma andremo a stanarli anche nei cessi
  e li fotteremo. Salvatore si è voltato e
  fissa il figlio. Scuote la testa. - Tutti questi omicidi
  stanno attirando troppo l’attenzione. Disturbano gli affari. - Bisogna metterli a posto, papà. - Tu vuoi mettere a posto
  tutto il mondo. Devono fare tutti quello che vuoi tu. Sono io il capo e
  decido io. Angelo non replica. - Dirai all’Albanella che
  per il teatro non se ne fa niente. Lavoriamo con i Tricarico, come al solito. In accordo con i Parete. La
  guerra con i Santagata è già più che abbastanza. E
  lascia stare anche il consigliere. È troppo conosciuto. Chiaro? Angelo annuisce. - Come vuoi tu. Sei tu il
  re. Salvatore guarda suo
  figlio, ma non sembra esserci traccia di ironia nella sua voce. - C’è
  un’altra faccenda, Angelo. La storia dei rifiuti della Brianza. Salvatore si volta di
  nuovo verso la scrivania e apre il primo cassetto. Questa faccenda dei
  rifiuti è un problema grosso. Salvatore intravede appena
  il laccio che gli passa davanti agli occhi. Prima di rendersi conto di quanto
  sta succedendo, sente la pressione alla gola che rapidamente gli toglie il
  respiro. Si porta le mani al collo, per allentare la morsa,
  ma Angelo stringe, Angelo è forte, Angelo non esita. Salvatore vede il
  mondo diventare rosso e poi svanire, mentre un immenso incendio gli riempie i
  polmoni. L’odore di merda dice ad
  Angelo che ha finito, ma lui stringe ancora un momento. Poi molla il laccio e
  lascia che il cadavere si afflosci sulla sedia. I pantaloni sono bagnati:
  come succede di solito a chi viene strangolato, Salvatore Scibone
  si è pisciato addosso. Angelo guarda il cadavere
  del padre. Da bambino giocava spesso con lui, gli sparava, con le dita o con
  le pistole giocattolo e Salvatore faceva finta di morire. Poi usavano le
  pistole vere, con il giubbotto antiproiettile. Salvatore non era più
  adatto a guidare la famiglia. Come il nonno, invecchiando era diventato
  troppo prudente: a cinquantacinque anni non aveva più le palle per rischiare.
  La città è un campo di battaglia e ci vogliono i coglioni per affrontarla. Ora deve far fuori i due
  uomini. Angelo prende la pistola che il padre tiene
  nel cassetto centrale. La mette in tasca.  Passa nell’altra stanza. - Mio padre vi vuole
  parlare. I due uomini si dirigono
  alla porta, ma quando sono sulla soglia, Angelo spara. Un colpo alla schiena.
  Un colpo alla nuca per finirli. Angelo non esce subito.
  Vuole lasciare a chi può aver sentito gli spari il
  tempo di allontanarsi ed evitare di aver visto troppo. Adesso ci sono molte cose
  da fare. Parecchia gente da far stare zitta. Il Russo, l’Irsina,
  alcuni uomini troppo fedeli a suo padre. Parleranno di una nuova offensiva
  dei clan. Ci sarà, la nuova offensiva dei clan, ci sarà. È ora che a Napoli
  capiscano che c’è un nuovo re. 2012 |