I
miti di Cernunnos IV - Il ciclo delle morti
I
– La discesa di Doche Nelle nere viscere della
terra, dove vagano gli spiriti dei morti, si aggirano demoni avidi di sangue,
sempre pronti a portare distruzione e terrore tra gli uomini che ancora
vedono la luce. Su di essi regna il possente Arawn,
che impedisce loro di scatenarsi e devastare il mondo dei viventi. Ma le
forze oscure che si agitano nel buio infernale fremono, bramando di salire
alla superficie, per spegnere ogni forma di vita. Qui giace il corpo esanime
di un mostro terribile, Aillén mac
Midna, che il grande Trwyth
uccise in un tempo remoto, trapassandolo con la sua lancia. E i demoni alati
decidono di restituire la vita a quel corpo, perché la tremenda creatura
distrugga gli uomini e gli stessi dei. Dieci sono i demoni che
stringono un patto fatale. Ognuno di essi versa il suo seme nella bocca del
mostro e questi infine si desta dal suo sonno di morte. Apre le fauci la
belva infernale e inghiotte il demone che per ultimo lo nutrì. Tremano coloro
che hanno risvegliato l'orrenda creatura, non sospettando che contro di loro
si sarebbe rivolta la sua furia, ma non c’è via di scampo: prima che abbiano
spiccato il volo, altri due demoni vengono dilaniati e quando sbigottiti i
compagni si levano in alto, per sfuggire alle zanne mortali, scoprono con
terrore che il mostro ha assunto la forma di un immenso uccello e piomba su
di loro come un’aquila che senza fatica ghermisce le colombe. Non c’è scampo
per gli incauti che hanno destato dal sonno eterno una creatura ben più
potente di loro. Gran strage semina il nero
uccello di morte, Azu, dagli occhi di fuoco e dal
becco adunco. Egli devasta il regno di Annwn, dove
regna lo spietato Arawn. Per il re degli inferi non
c’è altra via di salvezza, se non aprire le porte del mondo sotterraneo e
lasciare che l’uccello portatore di distruzione spicchi il volo verso il
cielo. Di demoni si è nutrito il
corpo di Azu e di intelligenza diabolica è dotato
il mostro tremendo. Esso assume la forma di civetta, l’uccello sacro alla
grande dea Rigani, e si avvicina alla residenza
degli dei, senza che nessuno sospetti la sua vera natura. Poi, eludendo la
sorveglianza del guardiano della sacra dimora, la creatura infernale ruba la
tavola dei destini, che assicura l’immortalità degli dei. Compiuto il
sacrilegio, Azu ridiventa uccello mostruoso, dagli
occhi di fuoco e dal becco adunco, e si libra alto nel cielo. Con la sua
forza tremenda si lancia sulla terra e devasta città e villaggi, campi e
pascoli, seminando terrore e disperazione. Il terrore prende gli dei
quando scoprono il furto della tavola. Chi mai potrà affrontare il mostro
terribile e salvare gli uomini dall'annientamento? Nessuno osa sfidare la
morte, perché troppo potente appare la creatura infernale. Rigani invia allora un messaggero al figlio, il possente Cernunnos, affinché venga in aiuto degli altri dei. Nell’isola a lui sacra vive
il dio dalla grande forza, insieme al suo compagno, Doche,
dai capelli colore del grano e gli occhi azzurri come il mare profondo. I
giorni e i secoli scorrono per loro senza mutare i loro corpi e i loro cuori
e i due dei vivono sempre l’uno al fianco dell’altro, mai sazi del loro
amore. Insieme cacciano e percorrono la terra che è loro sacra. Boschi e
prati, campi e pascoli, grotte e sorgenti sono testimoni dei loro amplessi.
Fertile è l’isola di Cernunnos, come nessuna altra
terra al mondo, e venerati sono i due dei. Ma ora che una tremenda
minaccia grava su tutti gli dei, un messaggero giunge. Gli occhi del divino
inviato scorgono Doche e Cernunnos,
allacciati in una radura. Il dio che assume la forma dei quattro animali, il
cinghiale, l’orso, il lupo e il cervo, possiede il corpo di Doche, che gli si offre senza tema, disteso sull’erba.
Godono del loro amore, i due dei, e baci e carezze accompagnano il
congiungersi dei loro corpi. Ma il messaggero divino
scende e si pone di fianco a loro: non è tempo di indugiare, questo. Un
immenso pericolo sovrasta gli dei e gli uomini. Sciolgono il loro amplesso i
due dei e, ancora accesi di desiderio, ascoltano le parole dell’inviato: - Dal mondo infernale uscì
il grande uccello Azu e ora semina distruzione
sulla Terra. Anche i divini abitatori del cielo sono minacciati, perché la
creatura delle tenebre ha rubato la tavola dei destini. Perciò la madre
divina ti prega, Cernunnos, di raggiungere il
consiglio degli dei, per difendere il mondo e i tuoi fratelli. Obbedisce Cernunnos al messaggero e subito con Doche
si dirige verso la dimora degli altri dei. Qui si tiene il consesso degli
abitatori celesti. Sul loro volto vi è una paura nuova: tutti temono per la
loro esistenza. Tra loro si alza il
possente Oengus, colui che protegge la vita. - Solo il più forte degli
dei può spezzare la vita del mostro che ci minaccia. Ma come mortale e senza
nessuna protezione dovrà affrontare il mostro terribile. Senza esitare si fa avanti Cernunnos: - Io affronterò il nemico.
Mi spoglierò dei sacri amuleti che mi proteggono e affronterò il mostro
armato della mia sola lancia. Non può tacere Doche, il compagno fedele, vedendo quale pericolo
minaccia il suo amico: - Ti accompagnerò, Cernunnos. Ma Oengus
scuote la testa: - Uno solo degli dei può
affrontare Azu e soltanto Cernunnos
può farlo. Se egli cadrà, ucciso dalla creatura infernale, allora altri
proveranno. Trema il cuore di Doche, non può tollerare che il suo compagno affronti da
solo il pericolo, con lui vorrebbe lottare e con lui morire, se non vi è via
di salvezza. Ma china la testa e obbedisce. In cuore si dice che se il mostro
spegnerà il possente Cernunnos, egli lo affronterà,
sperando di uccidere Azu e trovare nello scontro la
morte, perché privi di senso sarebbero i suoi giorni senza colui con cui
divide la vita. Prende congedo il possente Cernunnos dagli altri dei e poi si apparta con Doche. Si stringono i due amanti, un oscuro presagio nel
cuore. Con baci e abbracci e carezze rinnovano il legame che neppure la morte
potrà sciogliere. Poi, quando il desiderio accende i loro corpi e i membri
sono tesi allo spasimo, Doche offre i suoi fianchi
al dio che gli è compagno. A lungo dura l’amplesso,
fino a che i loro corpi sono sazi. Non così le loro anime, che per sempre
vorrebbero rimanere allacciate. Cernunnos si toglie dal collo il monile dorato che
gli diede un tempo ormai molto lontano Donn, il
dio-serpente che vive a Flag Fenn.
Poi prende il bracciale che sempre ha indossato e l’anello che gli cinge i
testicoli fecondi. Porge i tre gioielli, che la luce del sole fa splendere,
al fedele compagno: - Tieni, Doche. Mai mi privai di questi ornamenti, segno
dell’antico patto con il serpente, ma questo prescrive il fato per il
combattimento che devo affrontare. A te li lascio, perché tu li custodisca.
Me li renderai, se farò ritorno. Se invece la nera morte mi ghermirà, essi
saranno tuoi per sempre, pegno dell’amore eterno che ci unisce. Ben sa Doche
nel suo cuore che se Cernunnos il terribile troverà
la morte, egli lo seguirà, ma nulla dice. Non vuole turbare il compagno che
si accinge a grande impresa, quale uomini e dei a lungo ricorderanno nei loro
canti. Parte Cernunnos
e Doche gli è compagno fino ai piedi dei monti
sulle cui cime volteggia l’uccello infernale, Azu,
dagli occhi di fuoco e dal becco adunco. Qui i loro corpi ancora si
congiungono: mai sazi uno dell’altro, rinnovano i sacri giochi dell’amore e Cernunnos sparge il suo seme divino nelle viscere di
colui che gli è compagno fedele. Poi il dio dalle molte
forme prosegue solo e Doche si ferma, il cuore
lacerato dall'angoscia. Nessuno dei due sospetta che qualcuno ha seguito i
loro passi: è Man’en-nen, tessitore di inganni, che
una trama oscura nasconde dentro di sé. Saldo, senza timore, sale Cernunnos lungo il ripido fianco della montagna,
brandendo la lancia che è la sua arma infallibile, sicuro del suo braccio e
della sua forza, pronto ad affrontare la morte. Lo vede Azu,
il mostro tremendo che ha voce umana, e ride. Terribile è la sua risata che
echeggia nelle valli e suscita sgomento nei cuori. - Ben stolto sei, se credi
di potermi abbattere. Troverai la morte e mi pascerò del tuo corpo, come ho
fatto con tutti i guerrieri che hanno osato affrontarmi. Non uno di loro è
tornato alla sua famiglia, ma i loro corpi ho divorato e della loro forza mi
sono nutrito. E ora anche a te toglierò la vita e il tuo vigore mi renderà
ancora più temibile. Non trema Cernunnos di fronte al nemico, le cui ali sono tanto
grandi da oscurare il cielo. - Non sarò una preda
facile, Azu, dagli occhi di fuoco e dal becco
adunco. Non con un guerriero qualunque hai a che fare, ma con un dio. Temi il
mio braccio, perché questa lancia spezzerà la tua vita e donerà alla terra e
agli uomini pace. Ride ancora Azu. Nel loro lontano palazzo tremano gli dei e in ogni
villaggio e città un oscuro terrore afferra gli animi. Contro Cernunnos
si scaglia Azu, le sue ali scuotono l’aria,
sollevando un vento tremendo, e le stesse montagne tremano. Non può scagliare
la lancia Cernunnos, il dio terribile, perché il
terreno vibra, ma quando Azu dagli occhi di fuoco e
dal becco adunco sta per ghermirlo, egli salta di lato e si sottrae agli
artigli. Si alza in cielo Azu e nuovamente piomba sul dio, per dilaniarlo, ma una
seconda volta Cernunnos gli sfugge, mentre la terra
trema tanto che gli alberi si abbattono al suolo e grandi massi precipitano
lungo i fianchi della montagna. Si libra nuovamente in alto, Azu, fremendo di collera: ancora una volta gli è sfuggita
la preda, ma al terzo attacco i suoi artigli afferreranno il corpo del dio e
il suo becco gli aprirà il ventre, regalandogli atroce sofferenza e morte. Sempre più in alto sale Azu e sembra che un’immensa ombra sia calata su tutta la
terra. Un oscuro terrore è nel cuore degli uomini e degli dei, nelle loro
tane si nascondono tutti gli animali e i pesci scendono nelle profondità del
mare. Come una freccia che, scagliata da un guerriero possente verso un
bersaglio lontano, va diritta alla meta e trafigge il nemico, così Azu dagli occhi di fuoco e dal becco adunco si precipita
su Cernunnos. Ma saldo lo aspetta il dio e quando
l’uccello è sopra di lui, con tutta la sua forza immensa, egli scaglia la
lancia, trapassando il petto del nemico. Privo di vita si abbatte al
suolo il grande Azu, terrore degli uomini e degli
dei, creatura tremenda, a cui i demoni avevano dato vita e che dei demoni
stessi si era cibato, ricavandone forza. Il grido di morte di Azu avvolge la terra intera, lo sentono dei, uomini e
animali e a tutti pare che il cuore si fermi, tanto è il terrore che li
avvolge. Il corpo del mostro ricopre i monti, celandoli alla vista. Sotto una
delle immense ali Cernunnos osserva la preda
abbattuta, felice della sua vittoria, che restituisce agli dei la loro forza
e libera il mondo dalla minaccia oscura. Non vede che alle sue spalle è
giunto Man’en-nen, tessitore di inganni. Man’en-nen
ha seguito il combattimento e ha visto la morte del mostro terribile. Ora
pensa dentro di sé: “Cernunnos ha ucciso il grande
uccello Azu, ma non ha con sé i divini amuleti che
lo proteggono e non ha ancora recuperato la tavola dei destini. Mortale è il
suo corpo. Nell’oscurità che ci ha avvolto, sotto l’ala di Azu, chi mai ha potuto vedere la sua vittoria? Nessuno ci
vede ora. Cernunnos riceverà grandi onori, senza
dubbio Teutates e sua madre Rigani
gli daranno nuovi poteri per aver ucciso il grande uccello Azu e aver restituito loro la tavola dei destini, ma io
ucciderò Cernunnos, perché ora egli è senza armi. E
dirò che il grande uccello Azu lo ha ucciso, ma io
l'ho vendicato e ho salvato gli dei, uccidendo la creatura infernale.” Così delibera Man’en-nen e prende la spada, mentre Cernunnos
guarda il corpo del grande uccello Azu. Con un
colpo deciso Man’en-nen, tessitore di inganni,
trafigge alla schiena il dio vittorioso. Privo di difese è Cernunnos, senza talismani, senza armi. La spada si
immerge nella carne e trapassa il fegato, attraversando il corpo inerme. Non
muore Cernunnos, tanta è la sua forza vitale.
Contro Man’en-nen si rivolta e alla gola lo afferra
con le sue mani. Man’en-nen colpisce una seconda
volta e la lama affonda nello stomaco. Cernunnos
allenta la stretta, ma non è ancora domo, ancora il fiato della vita non lo
lascia, nuovamente le sue mani stringono il collo di Man’en-nen
e il respiro si fa corto al traditore. Allora Man’en-nen
decide di schiantare la forza virile del dio e afferrato il sesso possente e
i testicoli fecondi nella sua mano, li recide. Urla di dolore Cernunnos e le sue mani lasciano la presa. Ancora una
volta lo colpisce Man’en-nen e la lama gli trapassa
i polmoni, nuovamente lo ferisce Man’en-nen e la
spada scava la sua strada nel ventre, per la sesta volta lo ferisce Man’en-nen e la lama si infila nella milza. E infine, quando
per la settima volta colpisce Man’en-nen, il
tessitore di inganni, la lama trapassa il cuore del dio. Cade Cernunnos
e la montagna trema e trema la terra e nel loro palazzo gli dei odono la
terra tremare e si alzano in piedi sgomenti e Rigani
si strappa le vesti e lacera i capelli e Doche, che
sale lungo il fianco del monte, cade a terra e urla tre volte. Man’en-nen,
tessitore di inganni, solleva il corpo del dio e lo precipita nell’immenso
crepaccio che scende fino al cuore della terra, affinché nessuno più possa
ritrovarlo, e i demoni possano farne il loro pasto. Poi con la spada, ancora
lorda del sangue del dio, apre il corpo di Azu e ne
estrae la tavola dei destini. Reggendo la spada e la
tavola egli fa ritorno trionfante alla sede degli dei e a tutti mostra il
corpo bagnato di sangue e si vanta della sua impresa, dicendo: - Il grande uccello le cui
ali facevano ombra al mondo ha ucciso Cernunnos, ma
io l’ho vendicato, uccidendo il mostro. Ho recuperato la tavola dei destini,
grande merito acquisendo. Che si celebri un banchetto in cui festeggeremo la
mia vittoria. Gioiscono gli dei al sapere
sconfitto il nemico terribile e a vedere la tavola dei destini restituita
alla loro dimora. Solo Rigani soffre nel suo cuore
per il figlio, ma tiene chiuso in petto il suo dolore, come una gemma in uno
scrigno. Intanto Doche
cerca invano il corpo di Cernunnos. Non ve n’è
traccia sul monte, dove giace l’immenso uccello infernale, che minacciava la
terra intera e gli stessi dei. A lungo percorre valli e dirupi, sale sulle
cime più elevate e scende nei baratri più profondi, ma del dio che gli era
compagno non trova traccia il valoroso Doche e il
suo cuore è dilaniato da un dolore feroce. Neppure quando scende la
notte Doche interrompe le sue ricerche. Ma quando
la luna sale a illuminare le cime, il corpo di Azu,
oscuro manto che copriva i monti, si dissolve. Per tre giorni e per tre
notti cerca Doche una traccia del compagno, senza
nulla trovare. Allora torna alla dimora degli dei e Rigani
gli riferisce quanto ha narrato Man’en-nen,
tessitore di inganni. Ma Doche
non crede alle parole menzognere. Quando gli dei lo invitano a unirsi al loro
banchetto, si mantiene in disparte e risponde che troppo forte è il suo
dolore: - Per me sarà sempre notte
fonda, anche quando il sole splenderà sui mortali. Senza Cernunnos,
che fu il mio compagno, non mi siederò a banchetti, né parteciperò a canti,
perché la mia anima è straziata. A lungo medita il da farsi
il forte Doche e questo infine gli pare saggio:
cercare il dio che tutto sa, Donn, che un tempo
lontano Cernunnos sfidò. Egli affronterà il dio
terribile e lo costringerà a rivelare come può liberare Cernunnos
dal mondo infernale, oppure da lui riceverà la morte. Non teme di perire, Doche, gli è un peso la vita senza il suo compagno: a che
gli giova l’immortalità che ha ottenuto, se da solo deve trascorrere i suoi
giorni? Doche prende allora la strada per Flag Fenn, dimora di Donn, il dio che diede a Cernunnos
i tre doni incantati. Conosce quel cammino, Doche,
perché Cernunnos stesso gli raccontò il suo
viaggio, nulla tenendo celato al compagno dei suoi giorni. Segue le stesse
tappe del dio e attraversa le terre della Desolazione, dove incontra i musici
divini, come centinaia di anni prima fece Cernunnos:
ma essi sono eterni e nulla può spezzare il loro canto. E infine, dopo un viaggio
che il dolore ha reso gravoso e la speranza lieve, Doche
vede davanti ai suoi occhi la fortezza di Flag Fenn, terribile e inespugnabile, circondata da pali
aguzzi. E, come un tempo, ogni palo porta sulla cima il capo reciso di un
uomo, che ha osato sfidare il dio che tutto sa, per avere da lui una
risposta. Sotto l’aspetto di un
gigante con un occhio solo appare Donn, il dio che
tutto sa, e a lui si rivolge: - Sapevo che saresti
venuto, Doche. Ti attendevo. Doche china il capo, in omaggio al dio
possente, poi lo solleva e parla: - Tu solo puoi insegnarmi
come liberare Cernunnos dal mondo infernale. Perciò
vengo a sfidarti, possente dio. - Vedi da te qual è la
sorte di coloro che mi sfidano, ognuno di questi pali può narrarti la stessa
storia. E tu, per quanto divenuto dio, non hai la forza immensa di Cernunnos, il solo che mai mi piegò. - Lo so, ma affronterò la
morte, pur di non lasciare nulla di intentato. Pare sorridere Donn, il dio serpente, che ha assunto l'aspetto di un
ciclope, mentre dice: - Conosco il tuo cuore. No,
Doche, non combatteremo: avrai da me ciò che tu
chiedi, senza sfidarmi, perché mi è caro Cernunnos
e un patto di amicizia eterna ci unisce. Donn prende la forma di serpente e avvolge il
corpo di Doche. Tre volte egli affonda i denti
nella carne dell’uomo, ormai dio, caro a Cernunnos,
e il sangue che cola dalle ferite si trasforma nei tre monili: quello che
protegge il corpo dalle ferite, quello che rende invincibile il braccio e
quello che protegge dai malefici. E dopo aver donato a Doche tre gioielli d’oro uguali a quelli che un giorno
lontano ottenne Cernunnos e che ora Doche custodisce, Donn, il dio
serpente, rivela a Doche attraverso quale strada e
a quale prezzo può liberare dalla morte Cernunnos. Lieto in cuore è Doche: non c’è strada troppo difficile da percorrere, non
c’è prezzo troppo alto da pagare per restituire alla luce Cernunnos.
La propria vita non ha valore di fronte a quella del dio dalle mutevoli
forme. Lieto ritorna alla dimora
degli dei, Doche, e va da Teutates,
colui che custodisce il talismano della vita. Doche,
colui che non dimentica, si inginocchia davanti al possente dio e gli dice: - Dammi il talismano della
vita, che io possa scendere agli Inferi nella dimora dei morti e trarne Cernunnos, il valoroso. Non gli nega il talismano
della vita Teutates, il possente, perché a lui è
caro Cernunnos. Doche indossa i tre amuleti di Cernunnos, accanto ai propri. E portando solo un perizoma
che gli cinge i fianchi, scende verso le terre. Nascosto in bocca cela il
talismano della vita, che protegge chi lo porta. Senza tema percorre la terribile
strada che scende verso il mondo infernale, seguendo le indicazioni di Donn, il dio che tutto sa. Nel buio egli si immerge, dove
solo la luce rossastra dei fuochi infernali permette di scorgere le ombre
minacciose dei demoni. Un fumo pestilenziale riempie l'aria e il respiro
manca, ma Doche procede senza esitare, verso la
morte atroce che lo attende: nulla vale per lui la sua vita, se dandola può
rendere alla luce Cernunnos, il compagno dei suoi
giorni, anche se non potrà stringerne il corpo neppure per un attimo. E dopo l’aspra discesa
lungo le valli infernali, giunge infine Doche in
vista delle grandi città dove hanno dimora le anime dei morti. Nessun mortale
le ha mai vedute, ma non è più uomo Doche, egli è
un dio. Eppure anche il suo cuore trema davanti all’orrenda vista che si
offre ai suoi occhi. Terribili sono le città dei morti, dove risuonano atroci
lamenti. Tutt’intorno si ergono alte palizzate e in cima ai pali sono
infilate le teste di molte vittime. Esse gridano, ridono, piangono, gemono e
immenso è il loro clamore. Verso la prima porta si
dirige Doche. Non trema, ma il suo cuore è
oppresso. Sette sono le porte e
nessuna di esse si può superare senza lasciare un pedaggio. Alla prima porta i
guardiani infernali impongono a Doche di lasciare
il grande ornamento di Cernunnos che egli ha messo
al collo. Obbedisce Doche, senza proferire parola,
perché non vuole che la sua bocca si schiuda e la luce del talismano si
sparga per il buio mondo dei morti. Alla seconda porta gli
chiedono l’ornamento che egli ebbe dal serpente e che porta intorno al collo.
Se lo toglie dal collo Doche e lo passa al cupo
signore della porta. Alla terza porta gli
ingiungono di sfilarsi il bracciale, quello che gli affidò Cernunnos, e Doche se lo sfila
e lo consegna al demone custode. Alla quarta porta deve
lasciare il bracciale che gli diede il serpente. Ora nude sono le sue braccia
e nudo il collo, non ha difese il suo corpo, se non i due talismani segreti
che gli cingono i testicoli fecondi. Alla quinta porta egli deve
lasciare il perizoma che copre la sua virilità: - Questo è l'uso, nessuno
qui entra senza lasciare il pedaggio. Nudo è ora Doche, ma in bocca serba, tesoro nascosto, il talismano
della vita. Giunge ora alla sesta porta
e grida l’oscuro demone che ne è custode: - Tu vieni qui senza nulla?
Mai varcherai questa soglia! Ma Doche
si sfila il monile che gli diede Cernunnos e che
cinge i suoi testicoli e muto lo porge al demone. Giunge infine alla settima
porta Doche e qui lascia l’ultimo suo ornamento,
l’anello che con il suo sangue si formò, dono del serpente. Completamente
inerme va verso la morte il dio, compagno di Cernunnos.
Entra Doche
nella grande sala del mondo sotterraneo, dove si affollano i morti a cui fu
negato un altro aldilà. Sul suo trono si erge il
terribile dio, Arawn, signore infernale. Tremenda è
la sua voce: - Temerario! Come hai osato
varcare il limite di questo regno? Ora sei nostro prigioniero. I demoni ti
dilanieranno. I morti insepolti ti scorticheranno. Il tuo corpo sarà nostra
preda e atroce sarà la tua fine. Ma non trema Doche, ben sapendo che l’orrenda morte che ora gli viene
promessa è il suo destino, perché solo con la propria vita riscatterà quella
di Cernunnos. - No, voi non mi avrete,
perché io porto con me il talismano della vita e nessuno di voi ha potere su
di me. E pronunciando queste
parole egli apre la bocca e ne prende il talismano della vita. Una luce
accecante illumina il mondo delle tenebre, urlano i demoni infernali e il
terrore scende su di loro, la pallida paura li avvolge, perché il loro regno
è stato profanato. Mai nessuno aveva osato tanto. Un cupo silenzio avvolge la
grande sala, dove la luce abbagliante illumina ogni angolo recondito e invano
i demoni cercano di fuggirla. Allora a Doche così parla Arawn, il re infernale: - Dimmi cosa vuoi da me,
perché sei venuto a profanare la mia dimora. - Io qui sono venuto per
riscattare Cernunnos, il valoroso, di cui una mano
empia spense la vita. Ai demoni che volteggiano
per la grande sala si rivolge il signore divino, Arawn: - Portategli il corpo di Cernunnos. Obbediscono gli spiriti
infernali e prendono il corpo del dio, deponendolo davanti a Doche. L’amato dal dio vede allora
le ferite profonde, vede la mutilazione tremenda. Urla di dolore Doche e le lacrime scendono copiose dai suoi occhi. Ma
egli sa che può liberare Cernunnos dalla morte e
restituirlo alla vita, perché nella mano stringe il talismano che gli diede Teutates il possente. Al dio rivolge parole che esso non
può udire: - Io ti restituirò la vita,
Cernunnos, e tornerai a regnare sull’isola che ti è
sacra, tu che hai salvato gli dei tutti dall’uccello infernale. Ride Arawn,
il signore del mondo nascosto. - Bada, Doche.
Non uscirete entrambi. Non lascerete insieme le dimore degli dei sotterranei:
solo chi di voi stringe il talismano potrà uscire dalle sette porte e potrà
percorrere la strada che porta alla luce, perché contro di lui gli Inferi non
hanno potere. Se renderai la vita a Cernunnos,
perderai la tua. Non trema al sentire la tremenda
parola del dio, Doche. Ben sapeva che questo
sarebbe stato il prezzo da pagare, glielo disse Donn,
il dio-serpente. Ma non esita, neppure un istante. - Cernunnos
tornerà alla vita. Io rimarrò nelle tue mani. E così dicendo il fedele Doche, colui che non dimentica, pone nella mano di Cernunnos il talismano della vita e il dio si desta dal
sonno della morte e si erge, in tutta la sua potenza. Sanato è il suo corpo e
immenso il suo vigore. Guarda stupito il dio la
grande sala infernale e Doche al suo fianco e il
terribile Arawn. Tutto comprende il dio. Vorrebbe
restituire all’amico il talismano che ora stringe, ma non vuole rendere vano
il sacrificio del compagno. Troverà un modo per riscattarlo, perché insieme
possano ancora camminare sulla terra e i loro corpi incontrarsi. E se questo
non sarà possibile, allora tornerà, lungo la strada che ha percorso Doche, per scambiare nuovamente la vita con la morte. Arawn si rivolge al dio: - Abbandona il mio regno, Cernunnos, solo. Porta con te il talismano che ti protegge
e rendi la pace a questi abissi. In nessun modo puoi salvare il tuo compagno.
Egli ha dato la vita per te e sorte terribile lo attende. Cernunnos abbraccia Doche.
Lo bacia sulla bocca e gli sussurra: - Tornerò a liberarti. Poi, senza voltarsi, il cuore
dilaniato dalla sofferenza, abbandona la sala e la città infernale. A ogni
porta il guardiano gli rende il tributo che Doche
ha versato. Rimane preda dei demoni Doche. Non appena la luce del talismano si dissolve, su
di lui si avventano gli spiriti per vendicare la loro umiliazione, la sua
carne fanno a brani, il suo corpo mutilano e morte orrenda gli danno. Ma
senza un lamento si abbandona loro Doche. Non sa se
Cernunnos potrà mantenere la sua promessa, ma
immensa è la gioia di aver reso l’amato alla vita. In preda a un cupo dolore, Cernunnos lascia il regno delle tenebre e a ogni porta i
guardiani gli rendono gli amuleti che furono suoi e quelli di Doche. Ma il cuore del dio rimane con il suo compagno
divino. II
- La discesa di Cernunnos Lunga
è la strada che dal mondo dei morti sale alla superficie della Terra e alla
luce del Sole. Nessuno mai la percorre, nell’altra direzione scendono le
anime dei morti verso le città infernali, verso il regno di Annwn, dove comanda lo spietato Arawn.
Ma Cernunnos, che il compagno ha liberato dalla
morte offrendo la propria vita, sale verso la luce. Attorno a lui i fumi si
diradano e l’aria torna respirabile, mentre il buio del mondo sotterraneo
lascia il posto alla luce del giorno. Medita nel suo cuore vendetta, Cernunnos, contro l’infame Man’en-nen,
tessitore di inganni. Ma più di tutto medita come ridare vita a colui che la
vita ha lasciato per salvarlo, Doche, suo compagno,
con cui condivide i giorni e le notti, del cui amplesso A
fatica ha accettato il sacrificio dell’amico, solo perché conta di poterlo
riscattare, come Doche ha riscattato lui dal mondo
infernale. Nel palazzo degli dei si
svolge un grande banchetto, ma un oscuro presentimento grava sul cuore di
Man’en-nen. Egli è presago di sventure a venire e
scruta la terra con occhi inquieti. E d’improvviso, con orrore, vede Cernunnos il forte, il terribile, in tutta la sua
potenza, uscire da uno degli antri che conducono agli inferi. Come lepre che vede sbucare
da un cespuglio il famelico cane del cacciatore, le fauci grondanti di
sangue, e, colta da improvviso terrore, fugge, ben sapendo che solo le sue
zampe veloci potranno tenere lontana la morte che sta per ghermirla, così
Man’en-nen si dilegua, lasciando la residenza
divina e chiedendosi, in preda alla disperazione, quale caverna possa essere
abbastanza buia, quale voragine abbastanza cupa, quale mare abbastanza
profondo, da nasconderlo alla vista del suo nemico. Intanto alla dimora celeste
giunge Cernunnos, accolto con gioia immensa dalla
madre Rigani e da tutti gli dei. Qui egli racconta
la sua battaglia contro Azu e la sua vittoria,
l’infame tradimento di Man’en-nen e il sacrificio
di Doche. Cernunnos rende
a Teutates il talismano della vita, ma gli dice che
ancora gli servirà, perché egli vuole tornare nell’oscuro mondo infernale per
liberare il compagno. Trema in cuore la madre Rigani,
tremano gli dei tutti: orrore e timore incute il regno di Annwn,
dove regna lo spietato Arawn. Nessuno, né dio, né
uomo, scenderebbe in quella landa desolata, se a guidarlo non fosse la morte,
a cui non si sottraggono gli uomini e neppure, quando il loro tempo è venuto
e il mondo deve rinnovarsi, gli dei stessi. Cernunnos chiede notizie dell’infame traditore, ma
di Man’en-nen, il tessitore di inganni, nessuno sa
dire nulla. Egli sedeva tra gli dei poco fa, ma ora sembra svanito come la
nebbia che nasconde le cose all’alba e scompare ai caldi raggi del sole,
senza che ne rimanga traccia. Cernunnos è signore dei boschi e della natura e a
tutte le creature divine che vivono negli alberi e nelle fonti, nei ruscelli
e nelle paludi, il dio chiede notizie del traditore. Ma nessuno ha visto Man’en-nen, scomparso nel nulla è il tessitore di inganni. E
allora Cernunnos si mette in viaggio per recarsi da
Donn, il signore di Flag Fenn, colui che tutto sa: egli solo può dirgli dove
trovare Man’en-nen e come riportare alla luce Doche. Dai sacri monili che Cernunnos
ha ricevuto alle porte della città infernale, egli sa che Doche
ha incontrato Donn e ha stretto con lui un patto di
alleanza. E ora, in nome di questo patto e di quello, antichissimo, che essi
suggellarono, Cernunnos chiederà al dio-serpente di
aiutarlo. Lungo è il viaggio, ma Cernunnos conosce bene la strada, che già percorse.
Nuovamente incontra i musici divini e la loro musica suscita nella sua mente
immagini che egli non sa interpretare. Vede due giovani uomini, forti, uno
sembra assomigliargli, l’altro appare simile a Doche.
Che significa questo? E ancora il viso di Doche,
dell’amato, ritorna, straziando il cuore del dio. E poi un coltello che gli
apre il ventre e lance scagliate con forza suprema, che lacerano la carne.
Strane immagini di vita e di morte. E dopo aver consumato il
cibo con i tre musici, Cernunnos raggiunge la
grande fortezza di Flag Fenn,
che incute timore ai mortali e agli stessi dei. Ma saldo è in cuore Cernunnos, perché un patto d’amicizia lo lega a Donn, il dio feroce che regna su Flag
Fenn. Esce
dalla fortezza il serpente e si avvolge attorno al corpo di Cernunnos, salutando il dio possente che un giorno
lontano lo sconfisse. - Benvenuto, Cernunnos. Sapevo che saresti giunto. - So che conosci il
passato, il presente e il futuro, Donn, e ciò che
un giorno mi annunciasti, da tempo si è compiuto. Nuovamente mi rivolgo a te,
perché il compagno dei miei giorni ha dato la sua vita per la mia e io voglio
riscattarlo dalla città infernale, dovessi pure in tale impresa perdere la
vita. Questo è ciò che preme al mio cuore. E anche un’altra domanda ora ti
pongo: tu sai che l’infame Man’en-nen, tessitore di
inganni, mi ha colpito a tradimento, togliendomi la vita, per gloriarsi
dell’impresa che io avevo compiuto. Voglio vendicare il tradimento e
ripagarlo di uguale sorte. - Potrai liberare Doche e ottenere la tua vendetta, ma a tre condizioni. Gode in cuore Cernunnos sentendo che potrà riscattare il compagno, a
lui caro, e impaziente chiede a Donn di svelargli
come potrà farlo: - Dimmi che cosa devo fare
e seguirò le tue istruzioni, senza mai staccarmi dal cammino che tu avrai
tracciato per me. -
Come fece Doche, devi farti dare da Teutates il talismano della vita: esso solo vi permetterà
di uscire vivi dal mondo dei morti. Davvero non presenta
difficoltà ciò che gli dice Donn, che tutto
conosce. - Il grande Teutates non negherà il sacro amuleto a me, che ho ucciso
il feroce uccello Azu, salvando gli dei e il mondo. - No, egli te lo darà
volentieri, ma altro dono ti serve, per rendere la vita a Doche,
senza perdere la tua, se entrambi volete lasciare le nere città infernali. - Dimmi, Donn, che cosa devo procurarmi e come potrò farlo. - Devi ottenere l’acqua
della vita: la spargerai su Doche e le sue ferite
si saneranno, il suo cuore tornerà a battere e l’aria ancora entrerà nel suo
corpo. E poi gliela farai bere. Si stupisce Cernunnos delle parole di Donn,
perché, per quanto dio, egli non conosce l’acqua della vita. - Mai udii parlare
dell’acqua della vita. Dove si cela simile prodigio che neppure tra gli dei è
noto? -
Il mondo si rinnova e nel ciclo eterno di morti e rinascite, segreti gelosamente
custoditi si smarriscono, perché chi li conosceva perde la vita prima di
trasmetterli ad altri. Tuo padre, Esus, era il solo
tra gli dei celesti a conoscere ciò che io ti dirò, ma la tua lancia lo
spense prima che egli potesse servirsi del suo sapere o trasmetterlo ad
altri. - Se mio padre conosceva
tale grande segreto, perché non bevve alla magica fonte? Così la mia lancia
non avrebbe potuto recidere il filo dei suoi giorni e ancora egli godrebbe
della vita. - Dopo che un dio ha bevuto
alla fonte, mille anni devono passare perché l’acqua riacquisti il suo
potere. Il talismano della vita che Teutates
custodisce gelosamente deve il suo potere all’acqua in cui fu immerso per
mille anni. Lungo sarebbe narrarti come esso giunse nelle mani di Teutates. Questo ti basti sapere: a quella fonte
inviolata, io solo ho bevuto. Quando tu spegnesti la vita del padre tuo,
cento anni ancora mancavano al termine fissato. Ora duemila anni sono passati
e nuovamente la fonte dispensa immortalità, due vite potrebbero diventare
eterne, ma nessuno conosce il mirabile segreto, se non io. - Davvero tu conosci tutto,
Donn, come dicono di te. - Sì,
Cernunnos, so anche che i tuoi figli ti daranno la
morte. Si stupisce il dio
terribile, Cernunnos, a udire ciò che Donn gli rivela. -
Strane e tremende sono le tue parole, potente Donn.
Tu ben sai che io non giaccio con dea o donna mortale. Come potrei generare
figli? Ma non dubito del tuo sapere. Ciò che dici si avvererà e nulla posso
fare per impedirlo. - E allora ascoltami, Cernunnos. Essa mi ha reso immortale, come neppure gli
dei sono: ogni volta che muoio, assumo una nuova forma. E questo farete anche
tu e Doche, dopo aver bevuto l’acqua della vita. Ma
la morte vi coglierà non in forma umana e voi potrete, se lo vorrete,
riprendere i corpi di uomini che sono stati i vostri. Solo la forma in cui
morirete vi sarà preclusa, in essa non potrete tornare. -
Grande è questo dono, più ancora dei tanti che mi hai fatto. Come troverò
l’acqua di cui mi parli? - Nel cuore dell’immenso
deserto della Libia, dove non vivono uomini, dove i raggi del sole non danno
la vita, ma la vita spengono, perché troppa è la loro potenza, là sgorga
l’acqua della vita. Grande
è lo stupore di Cernunnos, il dio terribile, ma sa
che le parole di Donn sono parole di verità. - Di certo nessuno
cercherebbe una sorgente nel cuore del deserto, ma tu sai dove si trova.
Dimmi, mio saggio amico, come la troverò? -
Dalla grande città di Cirene percorrerai la
distanza di dieci giorni di cammino, verso il meridione, fino a che, dopo
aver attraversato l’ultima oasi, giungerai agli inospitali monti che si
innalzano nell’oceano di sabbia. Lì vivono i guardiani del luogo, tre
fratelli nati dal sangue e dal seme di colui che io uccisi per bere alla
sorgente. Quando tu sarai giunto colà, il primo guardiano ti attaccherà. Avrà
la forma di un animale feroce e cercherà di darti morte orrenda. Tu lo
ucciderai con la tua forza immensa. Allora l’animale si trasformerà in un
maschio vigoroso, che ti offrirà i suoi fianchi. Tu lo possiederai, ma prima
che il tuo seme si sparga in lui, gli punterai il coltello alla gola e
minaccerai di dargli ancora la morte, se non ti rivelerà dove si trova
l’acqua. Quando te l’avrà detto, senza pietà gli reciderai il capo. Bada a
non spargere il tuo seme dentro di lui, perché se egli lo ricevesse, la vita
ritornerebbe nel suo corpo ed egli acquisterebbe tanta forza che potrebbe
impedirti il cammino. Infilerai la sua testa su un palo e la lascerai là dove
hai abbattuto il nemico. Incontrerai poi un secondo animale mostruoso e
infine un terzo: essi sono i fratelli di colui che per primo avrai ucciso e
con loro ti comporterai allo stesso modo. Il terzo ti dirà come giungere
all’acqua. Quando avrai raggiunta la sacra fonte, berrai e ne raccoglierai sette
gocce. - Soltanto sette gocce? E
come potrò aspergere il corpo di Doche e dargli da
bere? -
Grande è il potere dell’acqua. Sei gocce spargerai sul suo corpo, una sul
capo, una sul petto, una sull’ombelico e tre sulla ferita là dove si ergeva
la sua virilità: tanto basta per sanarlo e ridargli la vita. L’ultima goccia
la verserai nella sua bocca. Doche sarà immortale
come se avesse bevuto a lungo alla fonte.
Gioisce nel suo cuore Cernunnos, sapendo che potrà ridare all’amico la vita e
renderlo esente da morte. - Ho
compreso le tue parole, Donn. Di tre condizioni hai
parlato, grande Donn. Qual è la terza? - Vivo deve giungere Man’en-nen nella città infernale. Ma egli non deve poter
rivelare che tu porti con te l’amuleto e l’acqua della vita. Perciò nascondi
questi doni quando gli legherai le mani e i piedi con i lacci divini che ti
darà Lugh, maestro di tutte le arti. Annuisce
Cernunnos il terribile, mentre il suo cuore si
gonfia d’ira al pensiero del traditore infame. - Dove troverò lo
scellerato? -
Man’en-nen si è rifugiato nel grande bosco di Drunemeton, dove spera di sfuggire al nero destino di
morte che lo attende. Molte saranno le forme che assumerà, il tessitore di
inganni, ma altrettante forme potrai assumere tu, fino a che ne farai il tuo
prigioniero. Un ultimo avvertimento voglio darti, Cernunnos:
non spargere mai il tuo seme, in questa impresa a cui ti accingi, anche se il
desiderio premerà violento, fino a che non avrai liberato colui che ti è
compagno. E ora vai, Cernunnos, perché so che il
tuo cuore è impaziente di salvare l’amico fedele e punire l’infame traditore.
Il serpente scioglie
l’abbraccio e scompare. Rapido si muove Cernunnos
verso la grande Cirene e il deserto infinito. Dieci
giorni cammina Cernunnos, tre pali acuminati
portando con sé, e la sera del decimo davanti a lui appare un leone immane.
Una lunga criniera scura gli copre il collo, il capo, il petto e il ventre.
Grandi sono le sue fauci, acuminati i suoi artigli. Con un orrendo ruggito il
leone balza contro Cernunnos, ma il dio terribile
lo trafigge con la lancia. Si abbatte ruggendo il leone, non ancora domo, ma
il grande dio gli salta addosso, gli afferra il collo e lo stringe. Invano
cerca il leone di liberarsi e di affondare gli artigli nel corpo del suo
nemico. Il braccio del dio gli spezza il collo e gli toglie la vita. Cernunnos si solleva e osserva l’immenso corpo
steso al suolo. L’immagine che contemplano i suoi occhi si offusca, una
nebbia pare avvolgere la vittima. La criniera diviene una chioma lunga e
fitta, dello stesso colore scuro. Le zampe divengono braccia e gambe e il
muso del leone è la faccia di un maschio vigoroso, dal corpo villoso, con i
capelli rossicci come la criniera del leone. -
Tutti coloro che mi hanno sfidato sono morti, ma tu mi hai vinto, gran dio.
Prendi il mio corpo, come premio della vittoria. Cernunnos guarda i fianchi che gli si offrono,
mentre il desiderio arde dentro di lui: da troppo tempo non conosce un uomo,
da quando affrontò il demone infernale. Spinge a fondo il membro possente
nella carne che cede. Geme il maschio che sente penetrate le sue viscere, di
dolore e di piacere geme. Ma quando ormai il desiderio lo travolge e lo
spinge verso il piacere, sente la lama del coltello alla gola e la voce del
dio gli ingiunge di rivelargli come raggiungere l’acqua della vita. -
Oltre la grande roccia con tre guglie, troverai un antro profondo. Scendi
nell’antro, perché solo passando attraverso le tenebre, potrai trovare ciò
che cerchi. Ben sa il divino leone che un
nemico mortale è appostato nell’antro e ride in cuor suo, certo che il suo
più forte fratello darà la morte a colui che lo ha sconfitto. E la
parola si scioglie in un gemito più forte, perché il piacere travolge il
leone che ora è uomo. E mentre il suo seme si sparge al suolo, il coltello
del dio affonda nella carne. Urla il divino guardiano e il suo grido orrendo
spaventa perfino il sole, che scivola veloce oltre i monti, a nascondersi. Con la forte destra il dio terribile
recide la testa del suo nemico, poi prende uno dei tre pali, lo pianta nel
terreno e sulla punta infila il capo del guardiano. Ma il sangue e il seme
versati penetrano nella sabbia e dopo nove mesi, nasceranno tre fratelli,
nemici ancor più temibili per coloro che giungeranno a queste terre. Quando
aurora dalle dita di rosa accende il cielo a oriente, Cernunnos
segue la strada indicatagli dal custode. Giunto alla voragine che oscura
scende nelle profondità della terra, il dio non esita: sicuro avanza. Nulla
si vede nelle tenebre profonde, più nere di una notte senza luna e senza
stelle, ma al dio pare di avvertire un ansimare e l'intenso odore di morti
che si putrefanno. Cernunnos, dio tremendo, a cui
nessuno è pari per forza, sente una presenza ostile. Avanza il dio, il
braccio proteso in avanti, la lancia divina a difenderlo da ogni attacco. E
il nemico che si nasconde nel buio arretra, temendo l'arma. Infine giunge Cernunnos in una grande sala, dove da un'apertura sulla
volta filtra un po' di luce. Davanti a lui vi è una pantera, nera, e
tutt'intorno i corpi di coloro che qui si spinsero. Il fetore della carne che
si decompone riempie il luogo. Veloce come un fulmine, che
il possente signore dei cieli scaglia al suolo, la pantera si avventa sul dio.
Ma più veloce ancora la lancia di Cernunnos
colpisce l'animale, che si abbatte ruggendo. Su di esso si getta il dio,
estrae la lancia e nuovamente colpisce, fino a che la belva si abbatte priva
di vita e pare che l'intera caverna vibri per l'urlo tremendo che si spegne. E
nuovamente un maschio vigoroso appare, con i capelli neri come la pece.
Anch'egli offre i suoi fianchi al dio che lo ha vinto e Cernunnos
lo penetra, ma puntando il coltello minaccia di dare la morte. - Scendi ancora lungo
questa caverna, dio possente che hai vinto le mie braccia e posseduto il mio
corpo. Quando giungerai a una seconda sala in cui vi è un lago profondo:
tuffati in quelle acque, perché solo così troverai ciò che cerchi. Non
parla del mostro che si cela nelle acque traditrici, credendo di ingannare il
dio. Esulta il cuore del custode, al pensiero che colui che lo ha vinto
troverà la morte; esulta il suo corpo e il piacere si spande, ma in quel
momento il dio gli recide la gola. Il sangue che gorgoglia in bocca spegne
l'ultimo grido e scende a mescolarsi con il seme sparso e a fecondarlo: tre
figli nasceranno, temibili guardiani. Prosegue il suo viaggio il
dio possente, dopo aver reciso il capo del suo avversario e averlo infilato
sul palo. Giunge infine alla pozza profonda e senza paura si getta in acqua.
Ma dalla profondità emerge un mostro marino, nero e bianco, con denti aguzzi.
Sul dio esso si avventa, furente, ma più veloce è la lancia del dio, che lo
trafigge. Si dibatte la creatura terribile, arrossando l'acqua del suo
sangue, ma il dio immerge a fondo il coltello nel suo corpo, fino a spaccarne
il cuore. E il mostro diviene uomo, un uomo possente, dai capelli bianchi e
la barba nera, e al dio si offre. E quando il coltello preme contro la sua
gola, l'uomo rivela al dio la verità: - So
che mi ucciderai, dio possente, e so che hai tolto la vita ai miei fratelli,
ma questo è il destino, a cui non posso sottrarmi. Tuffati in fondo a questa
pozza: troverai un passaggio che ti porterà là dove vuoi giungere. A stento trattiene il seme
che preme dentro di lui il dio, mentre l'uomo, a cui con gesto sicuro recide
il capo, sparge il proprio: altri tre guardiani nasceranno, a difendere la
sacra fonte dell'acqua della vita da coloro che la desiderano. Si
immerge senza timore, Cernunnos, fino in fondo
all'acqua oscura e qui, attraverso un passaggio sotterraneo, ritorna in
superficie in una grotta che la luce del sole illumina. Davanti a lui una
fonte zampilla e il dio sa che quella è l'acqua della vita. Si inginocchia di fronte
alla fonte, il dio terribile. Accosta le labbra all'acqua e beve. Poi prende
il flacone che porta alla cintura e raccoglie sette gocce. Lo richiude e lo
bacia, perché il pensiero va a colui che sarà riscattato dalle tenebre: per
lui mille volte Cernunnos darebbe la vita. E dopo aver ottenuto ciò
che desiderava, un'altra ricerca intraprende il dio: quella dell'infame Man’en-nen, che si nasconde nel bosco di Drunemeton,
dove Vola, sotto forma d'aquila,
il dio terribile, Cernunnos, fino dall'artefice
divino, Lugh, e a lui chiede una rete che impedisca
al traditore di sfuggire. Lieto il dio che doma i metalli acconsente alla
richiesta del grande Cernunnos. E quando la rete
avvolge Man’en-nen, questi ritrova sembianze umane
e invano cerca di districarsi dai lacci divini, che nessuno può sciogliere. Cernunnos allora si reca da Teutates,
colui che possiede il talismano della vita. Non gli nega il sacro monile, il
signore divino, ma un avvertimento egli dà a Cernunnos,
il dio terribile dalle molte forme. - Cernunnos,
tu certo porterai a termine ciò che hai in mente e riscatterai Doche dal tenebroso mondo dei morti. Ma bada, non cedere
al desiderio, perché se i vostri corpi si congiungeranno quando ancora tu
porti il talismano della vita, una nuova generazione di dei prenderà il posto
di quella che ora regna sulla terra e sul mare. Stupito ascolta Cernunnos le parole di Teutates
e dubbioso è il suo cuore. Ripensa ad altre parole, quelle che gli disse il
grande Donn, che tutto sa: l'annuncio di morte a
opera dei figli. Ma ciò che è scritto nel libro dei destini, si compirà. Cernunnos nasconde in bocca il flacone con le
sette gocce e il talismano della vita, poi si carica sulle spalle il fardello
di Man’en-nen. Lunga e terribile è L'orrenda città dei morti
si offre alla sua vista; le grida assordanti delle teste dei morti, su aguzzi
pali infilzate, riempiono l'aria e a esse fa eco l'urlo di terrore di Man’en-nen. Sette sono le porte e a
ogni porta Cernunnos lascia un tributo, perché
questo è l'uso del mondo dei morti: i tre monili che egli ebbe da Donn, i tre che il compagno ricevette dal dio e per
ultimo il tessuto che copre i suoi fianchi, tutto egli lascia ai custodi
delle porte infernali. E infine egli entra nella sala del trono del mondo
sotterraneo, dove lo accoglie il possente Arawn. - Quale follia ti acceca la
mente? Tu sei un dio possente, ma ti dimostri stolto. Eppure conosci questi
luoghi e le leggi che vi regnano: tu qui giungesti, corpo straziato, e, unico
tra tutti coloro che attraversarono queste porte, tornasti a vedere la luce
del giorno. Ora scendi nuovamente, a sfidare la mia ira. Morte atroce ti
attende, anche se sei un dio. Non uscirai da questa sala, che sarà il tuo
sepolcro. Ride Cernunnos
e apre Solo il possente Arawn non indietreggia. - Pazzo, che vuoi? Sai bene
che il talismano della vita, che per la seconda volta profana il mio regno,
ti permetterà di tornare a rivedere la luce, ma non potrai trarre in salvo
altri. - Uno scambio ti propongo,
possente Arawn, tra un dio in cui ancora brilla Ride Arawn,
il dio infernale. - Ti darò un cadavere
straziato per un corpo di cui spegnerò il respiro. Vantaggioso mi pare questo
scambio. Ma non potrai rendere la vita a Doche,
senza perdere la tua, perché se gli darai il talismano, tu morrai, dilaniato
dai miei demoni. - Hai accettato lo scambio,
possente Arawn. Quanto farò, lo vedrai. Arawn, il dio sovrano, ordina di portare il
corpo di Doche. Cede il suo fardello, Cernunnos, e consegna il perfido Man’en-nen,
tessitore di inganni, al signore dei morti. I demoni depongono Doche ai piedi del dio dalle molte forme. Orrendo a
vedersi è lo strazio dell'amato e grida di dolore Cernunnos.
Ma dalla bocca estrae il flacone nascosto. Sei gocce sparge Cernunnos sul corpo dell'amato: una sul capo, una sul
petto, una sull’ombelico e tre sulla ferita là dove si ergeva la sua
virilità. Vede il corpo sanato e gli occhi aprirsi: gli pare che il sorriso
dell'amato illumini le tenebre. L’ultima goccia la versa nella bocca e dopo
aver donato all'amato l'immortalità, gli prende il viso tra le mani e lo
bacia appassionatamente. Gridano furenti i demoni, è
corrucciato il sovrano dei morti, Arawn il feroce,
ma nulla può fermare Cernunnos e Doche, non può essere rotto il patto che fu stretto.
Lasciano la sala del trono, il dio terribile, Cernunnos
dalle molte forme, e il suo compagno, Doche dal
cuore generoso, mentre le creature infernali si avventano su Man’en-nen, facendo orrendo strazio delle sue carni. III
- I figli Cernunnos precede Doche
percorrendo Stretto è il sentiero, che
corre sull'orlo di dirupi infernali, e terribili risuonano le grida di coloro
che persero Non possono camminare
affiancati e più volte Cernunnos si volta per
accertarsi che Doche lo segua. Ma quando giungono più in
alto e la strada appare chiara, i fumi infernali si dileguano e l'aria
diviene più respirabile. Ora Cernunnos procede con
passo sicuro e Doche lo segue, entrambi desiderando
lasciarsi alle spalle il mondo oscuro. Forte è ora la luce del
giorno, anche se ancora non sono usciti dalla caverna; ampio il passaggio;
limpida l'aria. Ora procedono affiancati, stringendosi la mano, entrambi
accesi da un uguale desiderio, entrambi felici. Ma quando giungono alla
soglia, nuovamente diviene stretto il sentiero ed essi devono ancora una
volta procedere uno dietro l'altro. Allora, nella luce sfolgorante del giorno
che nasce, vede Doche il corpo possente di Cernunnos davanti a sé, guarda i fianchi vigorosi, che
nessuno È il desiderio a guidare Cernunnos e Doche, a regnare
sovrano su entrambi e a esso solo, signore di tutte le creature, si inchinano
i due dei. Cernunnos dimentica le parole del dio
che gli diede il talismano della vita. Senza dare tregua affonda
la sua arma Doche, come un cacciatore che insegue
la preda e non lascia spazio per una fuga. Grida il nome dell'amato, Cernunnos, e grida il nome del compagno, Doche, l'uno e l'altro sono travolti da un identico
piacere che invade i loro corpi, fino a che il seme di Doche
riempie le viscere del dio terribile, dalle molte forme, che ora spande il
suo sulla terra, fecondandola. Ma non è ancora sazio il
desiderio di entrambi. Si abbracciano, si baciano, felici infine di potersi
stringere, di ritrovare Giacciono a lungo avvinti,
confusi, ignari del mondo, i due numi possenti. Non sanno che hanno impresso
alla ruota del mondo il movimento che porterà al rinnovamento degli dei. Non
sanno nulla del futuro, del passato, solo conta il lungo abbraccio di cui Intorno a loro è nata una
fitta selva, dove ogni forma di vita abbonda: è il seme di Cernunnos che l'ha generata ed essa cresce rigogliosa.
Altro frutto, ben più prodigioso, ha dato il seme di Doche,
ma di questo sono ancora entrambi ignari. Infine essi si alzano e
raggiungono gli altri dei, che li accolgono con grande gioia. Cernunnos rende a Teutates il
divino talismano e i due divini compagni siedono a un grande banchetto che si
tiene in loro onore. Gli dei festeggiano la liberazione dagli inferi di Doche e la punizione del traditore, il perfido Man’en-nen dai molti inganni. Narra la sua impresa, Cernunnos, e tutti ascoltano il prodigioso racconto. A
tutti i numi viene rivelato il mistero dell'acqua della vita, ma nessuno di
loro la berrà: il tempo del rinnovamento è vicino, anche se essi non possono
saperlo. Quando infine si conclude
il banchetto festoso, i due dei si dirigono all'isola feconda che è la loro
dimora e nuovamente si abbandonano al piacere, perché inesauribile è il loro
desiderio e troppo lunga è stata la loro separazione. Giungono i giorni delle cacce
d'autunno, care a entrambi, in cui essi sono cacciatori e prede, sotto forma
dei divini animali. Ma quando, dopo la quiete invernale, la primavera ricopre
di foglie gli alberi e di fiori i prati, quando nei campi spuntano i germogli
del futuro raccolto, allora il dio terribile sente violento un dolore
crescergli nel ventre, che si dilata. Guarda stupito Doche
il prodigio, ma Cernunnos comprende. Intima a Doche di prendere un coltello e aprirgli la carne. Obbedisce, Doche. Prende il coltello affilato, dalla lunga lama. Non
trema la sua mano, anche se trema il suo cuore. La punta affonda nella carne
del compagno, sopra il membro possente, e muovendo verso l’alto la lama,
tutto gli apre il ventre, fino allo sterno. Il sangue scorre e dal
corpo squarciato escono due gemelli, maschi vigorosi. Subito la ferita di Cernunnos si chiude e la carne ritorna intatta. Nulla
rimane a ricordare il prodigio, se non una cicatrice là dove Doche immerse il coltello, prima di squarciare. Solo in
quel punto un segno profondo testimonia la nascita miracolosa dei due
gemelli. Guarda il segno Cernunnos e guarda i figli. Ne prende uno tra le braccia
e l'altro lo prende Doche. E insieme decidono che
si chiameranno l'uno Finn e l'altro Trwyth. Piangono i due divini
gemelli, invocando il cibo, e al loro richiamo un’orsa e una femmina di
cinghiale si avvicinano. Hanno le mammelle gonfie e a esse i due gemelli si
attaccano per succhiare il latte che è il loro nutrimento. Muti li osservano
i due dei, che sono loro genitori, lieti e stupiti di sì grande prodigio. Crescono rapidamente, i due
piccoli dei, come rapidamente crebbe colui che li portò nel ventre. Simile a Cernunnos è Finn; di Doche ha invece i capelli e gli occhi Trwyth.
Ed entrambi sono cari ai due dei che li generarono. Accompagnano i loro
genitori nelle grandi cacce e da loro apprendono l'uso delle armi: degni dei
loro maestri sono i due giovani dei e infallibile è la loro mira. Amano
entrambi correre per i boschi, instancabili, veloci come il vento, e nessuna
preda può sfuggire loro. Ai giochi amorosi che
seguono la caccia essi si uniscono volentieri e imparano a conoscere altri
maschi, da uguale desiderio spinti. E l'uno conosce il corpo dell'altro e
dona e riceve identico piacere. Vigorosi e instancabili
sono i due giovani dei, belli di corpo e pronti di mente: figli di cui ogni
genitore sarebbe orgoglioso, ma solo gli dei possono avere simile
discendenza. E gli anni portano loro saggezza e conoscenza. Un giorno essi
partiranno per recarsi da Donn, il dio serpente,
che tutto sa e che trasmetterà loro nuovo sapere. Ma quel giorno è ancora
lontano, prima altri prodigiosi eventi devono compiersi. Un mattino, mentre caccia
nella grande foresta che gli è sacra, Cernunnos
scorge una preda magnifica, quale Come se il dio li avesse
chiamati, si avvicinano Finn e Trwyth.
Non si stupisce il dio terribile e a loro dona le due lance, perché questo è
scritto nel futuro. Si rallegrano nel loro cuore i giovani figli dei forti
dei, loro gradito è lo splendido dono. Non sanno che è dono di morte, questo.
Corrono all'amata caccia e
provano le armi meravigliose. Mai non sbagliano un colpo, in questo simili a
coloro che li generarono. Si dicono che nessun'altra arma essi useranno mai,
sempre si serviranno di quelle che a loro donò Cernunnos. Si stupisce Doche di vedere che Cernunnos
non ha più E una sera, nei giorni in
cui Liberi corrono sulla neve,
lasciando le loro orme profonde, ma un desiderio violento li prende e, senza
mutare forma, Cernunnos sale su Doche
e con lui si accoppia. Ma mentre sparge il proprio seme dentro il suo
compagno, che di uguale piacere gode, Finn e Trwyth vedono i due magnifici verri, dalle zanne
terribili. Tali prede non vogliono veder fuggire e rapidi scagliano le lance
che a loro diede Cernunnos. Volano le due armi,
vibrate con grande forza, e non mancano il bersaglio. Nei corpi dei due
cinghiali si conficcano, fino in fondo, lacerando la carne. Più e più volte
hanno conosciuto la morte i due dei, nel rito selvaggio che ogni anno si
compie nell’isola sacra a Cernunnos. Ma ben
maggiore è questa volta lo strazio, perché per l'ultima volta hanno assunto
la forma dell'animale dalle lunghe setole, che fa strage con le sue zanne. E mentre i due figli,
ignari della natura delle loro prede, recidono loro la gola e la virilità, il
cielo si copre di nuvole nere e l’isola sacra al dio trema dalle fondamenta:
mai simile prodigio era avvenuto, perché la forza del guardiano divino sempre
l’aveva protetta. E in tutte le case le immagini in cui i due dei sono
raffigurati con le zanne del cinghiale cadono al suolo e si spezzano. Orrendo
è il prodigio e tremano gli uomini di fronte a esso. Smarriti, a terra si
gettano e invocano la protezione del grande dio e del suo compagno. Ma Cernunnos
e Doche hanno lasciato i corpi dei due animali,
forma che ora è loro preclusa per sempre, e assumono la forma dell’orso,
perché il destino deve compiersi. Ora sono due orsi maschi, di grande forza,
dalle fauci terribili, che incutono
timore nei cacciatori più esperti. E mentre famelici si muovono nei boschi,
nuovamente il desiderio li prende e questa volta è Doche
a penetrare il dio terribile e a versare il suo seme in lui, mentre Cernunnos versa il proprio sulla terra. Ma nuovamente li vedono i
figli e, desiderosi di colpire sì belle prede, scagliano le lance, ancora
intrise del sangue dei cinghiali. Nuovo strazio delle carni
fanno le armi tremende, il sangue si mescola al seme divino e il cielo
diviene ancora più oscuro, per la seconda volta l’isola sacra al dio trema e
in tutte le case le immagini in cui gli dei appaiono come orsi cadono al
suolo e si spezzano. Il gelido terrore invade gli abitanti dell'isola, che
smarriti si chiedono quale orrore si prepari e invocano gli dei protettori.
Ma nessuno li ascolta, perché un nuovo tempo si prepara e altri dei vanno
invocati. E ora Cernunnos
e Doche divengono cervi, superbi maschi dalle ampie
corna, che corrono liberi nei prati e congiungono i loro corpi, Doche penetra il compagno, che a terra sparge il suo
seme. E nuovamente le lance dei figli spengono le loro vite e il sangue si
mescola al seme, perché il fato si compia. Trema dalle fondamenta
l'isola sacra agli dei, si spezzano le immagini votive e il cielo è nero come
la notte: a stento gli uomini vedono ciò che li circonda. Angoscia infinita
riempie il loro cuore. E infine Doche e Cernunnos divengono due
lupi famelici, che corrono nel fitto del bosco, veloci come frecce scagliate
da un arco che un possente guerriero tende. E ancora il desiderio li assale.
E il lupo più grande salta su quello che a lui è di poco inferiore per stazza
e potenza. Con i denti aguzzi blocca il collo del lupo e con forza spinge il
membro possente tra i fianchi del compagno. E quando il piacere lo avvolge, i
due divini fratelli che cacciano scorgono nella radura i lupi che si
accoppiano. Rapidi scagliano le lance divine contro i due animali, senza
sapere che per la quarta e ultima volta spezzano le vite di coloro che li
hanno generati. Nuovamente le carni sono
trafitte dal ferro e si ripete lo strazio. Il tempio che gli uomini
hanno innalzato a Cernunnos nella grande isola
trema e crolla, come se le sue mura possenti non fossero di pietra, ma di
canne, che il soffio del vento piega facilmente. La statua in cui Cernunnos e Doche sono
raffigurati fianco e fianco viene sepolta sotto le macerie e non ne rimane
traccia. Distrutte sono tutte le immagini sacre che raffiguravano i due dei.
Il cielo è nero e orrenda tempesta pare prepararsi. Ma ora i sacerdoti, esperti
della volontà divina, annunciano che gli antichi numi tutelari sono morti e
che altri hanno preso il loro posto. E quando gli uomini, tremanti, offrono
sacrifici a Trwyth e Finn,
le nubi si squarciano e il sole torna a splendere. La terra offrirà ancora
frutti abbondanti e gli animali correranno numerosi per i boschi. Si è compiuto un nuovo
ciclo. Altri dei regneranno sul mondo. Doche e Cernunnos
non scendono nel mondo dei morti: essi hanno bevuto l'acqua della vita e
immortali sono i loro corpi, anche se mai più potranno assumere le quattro
forme che erano loro care. Come uomini vigorosi essi
si dirigono verso l’isola di Tir Na Nog, che Cernunnos creò per
ospitare i guerrieri uccisi. Lì essi vivranno in eterno, talvolta tornando
sulla terra. Ma nella grande isola che il sogno di Cernunnos
creò, essi non metteranno più piede. 2011 |