Sulla sabbia Sullo sfondo
del tramonto, i tuoi passi nudi sulla sabbia, i calzoni arrotolati al
ginocchio, il torso scurito dal sole incandescente. Sembri uno dei tanti
marinai giù al porto. Guardi l’orizzonte come per leggervi qualcosa, qualcosa
che però è scritto solo dentro di te. Io ti sto
aspettando, seduto sulla panca, sotto il pergolato. Ti ho spiato per tutto il
tempo. La mia pazienza è infinita. Starei a guardarti
per ore. Ascoltarti, per ore. Ma so che tu vorresti tornare indietro,
fingendo di non avermi mai incontrato. Vorresti tornare alla tua vita, a
combattere con i tuoi, quelli che adesso ti credono morto. Me ne attribuisci
la colpa, lo so. Ho avuto la malaugurata idea di portarti via dalla
battaglia, ferito, incosciente. Quando ti sei svegliato, era troppo tardi,
era tutto finito, tutto lontano. Una battaglia che non ci riguardava più, che
forse non avrebbe mai dovuto riguardarci. E anch’io mi
chiedo cosa m’abbia spinto. In mezzo al clangore infernale delle lame che
risuonavano, tra tanti che si accasciavano al suolo, in mezzo a nuvole di
polvere, tra le urla della battaglia e le grida di sofferenza, perché proprio
tu. Perché il tuo mantello che si richiudeva su di te come la corolla di un
fiore nero, mi abbia fatto decidere improvvisamente di portarti via dalla
carneficina. Non sapevo neppure s’eri vivo o morto.
Avrei potuto trasportare un cadavere. Ma non era così. Quando ho potuto
fermare il galoppo e ho potuto guardarti in viso, ho capito subito ch’eri vivo. Incosciente, ma
vivo. Hai dovuto essermi grato e so che questo ti è pesato. Perché ero tuo nemico. Con la prima
barca che prendeva il largo, ti ho portato qui sull’isola, abbastanza lontano
da non dare nell’occhio, abbastanza vicino da permetterti di tornare indietro
facilmente. Qui, più di ogni altra cosa, regna una tranquillità sonnolenta,
come se il tempo tentasse di fermarsi e quasi ci riuscisse. Oggi puoi
prendere una decisione. Sei guarito. Sei libero.
Aspetto il responso delle tue riflessioni. Dal tuo passo sicuro indovino che
ci sei riuscito. Ora sai quello che farai. E stai per dirmelo. Sei davanti a
me e nel tuo sguardo leggo quale sarà la tua risposta. Il dolore che mi
assale è una spada che mi trafigge, mi toglie il fiato e spegne ogni voglia
di vivere. Le tue parole sono solo una conferma di ciò che ho letto nei tuoi
occhi: - Io vado.
Grazie per avermi salvato la vita. Non dico nulla.
Ho sperato, contro ogni ragione, contro ogni evidenza. Ho sperato e la
speranza si sfarina in cenere. Non riesco a risponderti, non ce la faccio. Tu vorresti
dirmi qualche cosa, ma non trovi le parole. Non sai che cosa dire. Sei
turbato, forse irritato dal mio silenzio. - Mi spiace,
Miguel. Ma io devo andare. La mia terra ha bisogno di me. La tua terra! I
nostri re stringono e rompono alleanze con la stessa indifferenza con cui
indossano un mantello o un altro, in base al capriccio di un momento. Vorrei
urlarti la mia rabbia, dirti che non ha senso, ma è quello che provo a non
avere senso, perché se i tuoi sentimenti non corrispondono ai miei, allora
davvero il mio amore è un delirio, in cui mi sono perso. Devo uscirne. La mia voce è
aspra, mentre ti rispondo. Avrei voluto renderla indifferente, ma ho
l’inferno dentro e non sono riuscito a controllarla. - Buon viaggio. Esiti ancora.
Vorresti che io accettassi la tua decisione, che dicessi parole di
comprensione. Non le avrai da me, non capisco, se ti dicessi che approvo
quello che fai, mentirei. - Addio,
Miguel. Forse ci incontreremo ancora. Il mio sorriso
è un ghigno amaro. - Certo, come
no. Mi alzo di
scatto e mi metto a camminare, in direzione opposta a quella che prenderai
tu: mi dirigo verso l’estremità della penisola, lontano dal porto in cui ti
imbarcherai per ritornare alla tua terra. Non riesco a controllare le lacrime
e non voglio che tu mi veda piangere. So che mi stai fissando, stupito,
irritato dal mio comportamento infantile, ma non mi volto. Raggiungo
l’ultimo degli scogli, proteso sul mare, e mi arrampico. Mi siedo e fisso il
mare. Sono ancora
seduto su quella roccia quando vedo il battello che veleggia verso la
terraferma. Probabilmente sei lì sopra. I miei sogni corrono via, lontano da
me, spinti da un vento gagliardo. Io rimango qui, spoglio. Mi tolgo i
pantaloni e rimango nudo al sole. Chiudo gli occhi. Penso di nuovo all’unico
bacio che ci siamo scambiati. Altro non mi rimane, un esile ricordo che il
tempo cancellerà. La disperazione mi assale. Avrei voluto che tu mi
uccidessi, prima di andartene. Perché lasciarmi in vita? La tempesta
spazza il mare, il battello sembra volersi inabissare ad
ogni ondata. Ci sono dei momenti in cui lo desidero. Forse ho scelto di
partire in questo giorno di burrasca sperando di trovare la morte in mare.
Non ci sono altri passeggeri sul battello: alcuni dei marinai non avrebbero
nemmeno voluto lasciare il porto con un tempo così ostile. Ma dovevano farlo
ed io divido con loro questo viaggio disperato. La prua si
solleva e poi si abbassa. Il capitano è abile, il timoniere sa come manovrare
il timone: basterebbe un piccolo errore per esporre il fianco della nave alle
onde e rovesciarla. Potrei estrarre la spada e colpire il timoniere: la nave,
senza più nessuno a guidarla, sarebbe inghiottita dagli abissi. Ma per quanto
io sia folle, non voglio trascinare altri nella morte. Non mancheranno le
occasioni per liberarmi di questo corpo che è solo più un peso
insopportabile. La guerra è ripresa, dopo alcuni mesi di una tregua incerta.
E mentre molti si allontanano, per sfuggire al pericolo che minaccia le loro
vite e i loro beni, io mi dirigo verso la capitale, dove non ho più messo
piede. Mi presenterò al re e mi unirò alle truppe che vanno alla battaglia. Questi mesi
trascorsi sull’isola sono stati un lento delirio. Avevo pensato che il tempo
avrebbe rimarginato la ferita: altre volte avevo sofferto per amore, ma con
il passare dei giorni, il dolore si era attenuato, fino a che riuscivo a
guardarlo in faccia. Questa volta non è stato così: ogni giorno sono
sprofondato nella melma della disperazione. Nell’ultimo mese ho perso ogni
dignità, ogni rispetto per me stesso. Gli uomini del posto mi chiamavano il
Pazzo. Lo ero davvero. Lo sono ancora, ma le notizie dalla capitale mi hanno
ridato forza ed un obiettivo preciso, perché sul
campo di battaglia ti ritroverò dall’altra parte. Ti ritroverò. E
questo solo pensiero mi ubriaca di gioia. I marinai
guardano stupiti questo pazzo che sul ponte affronta le ondate senza timore,
fradicio d’acqua. Se la tempesta avrà la meglio
sulla nave, vorrà dire che il destino non vuole che ci incontriamo ancora,
un’ultima volta. Se invece la nave riuscirà a raggiungere la meta, ci
ritroveremo. Ho affidato alla sorte la mia vita. O forse dovrei dire che le
ho affidato la mia morte. La tempesta non
dà tregua, ma la nave sta avvicinandosi all’ampio golfo in cui potrà trovare
rifugio. Le onde diventano meno alte, la costa rocciosa offre un buon riparo.
Giungeremo alla meta. La battaglia mi attende. Combatto, come
tutti, ma ora che la battaglia è diventata un furibondo corpo
a corpo, io cerco il mio avversario. So che sei qui e voglio
affrontarti. Lotto rabbioso, colpisco chiunque cerchi di sbarrarmi la strada:
le loro spade non possono toccarmi, non saranno loro a uccidermi. Io cerco te
e so che ti troverò. La mia angoscia si spegnerà oggi, con la mia vita. Ma
non voglio che il mio assassino abbia uno dei tanti volti anonimi che mi si
parano di fronte. La spada che mi trapasserà il cuore dev’essere
la tua. Oggi completerai la tua opera e so che non ti peserà troppo. Di certo
per te sono soltanto un ricordo fastidioso, che è bene cancellare. Ti vedo,
infine, il tuo splendido mantello nero gettato al suolo, per muovere più
liberamente la spada. Mi lancio verso di te, animato da una gioia feroce.
Pochi osano cercare di sbarrarmi la strada e cadono subito sotto i miei
colpi. La furia che mi muove incontro alla morte è incontenibile. Mi vedi
avvicinarti e sul tuo viso c’è una contrazione. Preferiresti che non fossi
qui, lo so, ma non ti preoccupare: tra poco non ci sarò più, mi avrai davvero
cancellato per sempre. Ora ti
affronto, slanciandomi in avanti. Non bado a non scoprire il mio corpo:
aspetto solo il colpo, la tua spada che affonda nel mio petto, regalandomi la
morte e la pace. Tu pari i miei colpi, ma non attacchi. Io continuo ad incalzarti, badando bene a non colpirti, anche se ti
minaccio senza darti un attimo di tregua: voglio provocare la tua reazione.
So che cosa ti frena: la coscienza di dovermi la vita. Vorrei gridarti che mi
hai già dato la morte e che la tua lama compirà un atto di pietà, cancellando
questa esistenza. Continuo a
colpire, ma tu rifiuti di attaccare. Studio i tuoi movimenti, per capire come
gettarmi sulla tua spada e ricevere la morte che desidero. E di colpo
guardi dietro di me e gridi: - No! Troppo tardi:
il dolore violento alla schiena mi dice che ho infine raggiunto la pace.
Vacillo e cado. Non è stata la tua spada a togliermi la vita, ma sono le tue
braccia ad accogliermi. È bello morire così, mentre tu mi stringi e sussurri
il mio nome. Riesco ancora a
dirti: - Addio, amore
mio. E poi il mondo
si cancella. * Ti guardo
camminare lungo la spiaggia. L’isola è la stessa dove tu hai portato me,
alcuni mesi fa, ma la casa che ho scelto è isolata e nessuno passa in questo
tratto di costa. Sei finalmente
guarito e cammini, nudo, sulla sabbia. Come sempre,
guardandoti il desiderio si accende. Non lo nascondo più. Non ha senso. Non
mi coprirò con i pantaloni, non mi allontanerò, non entrerò in acqua, come le
altre volte. Non riesco a dirti con le parole quello che provo. Lascio che
parli il mio corpo, anche se non può dirti tutto. Tu ritorni
verso la capanna. Vedi la violenza del mio desiderio, ma non dici nulla. Ti avvicini, muto. Tra di noi c’è un muro di silenzio. È un
mese che siamo qui, ma anche ora, che hai ripreso a stare bene, a muoverti
liberamente, non ci parliamo quasi mai. Poche parole, quelle che sono
indispensabili. Mi sembra che
tu sia lontanissimo, pur dormendo su un giaciglio a una spanna dal mio. Non
capisco, ma mi rendo conto che anch’io non cerco di parlarti, non trovo le
parole. Non le ho mai trovate, con te. Non le ho trovate per ringraziarti,
quando mi hai salvato, né per dirti addio, quando ti ho lasciato, oppresso da
un’angoscia senza fine, perché tutto il mio essere voleva rimanere su
quest’isola, al tuo fianco. Non le trovo neppure ora, per dirti che ho
pensato a te ogni giorno da quando me ne sono andato, che ho desiderato
morire in battaglia, perché non avevo altro modo per spegnere la mia
sofferenza. Tu avresti
voluto che io ti uccidessi: follia! Non avrei mai potuto farlo. Mille volte
morire io, piuttosto. E ora? Mi hai
perdonato per essermene andato? Desideri ancora che io rimanga al tuo fianco?
Che cosa ti sei detto, in questi giorni in cui hai trascorso ore sulla
spiaggia, a guardare il mare. Che cosa hai deciso? Mi guardi e
taci, ma c’è un’ombra di sorriso sul tuo volto. - Miguel… Le parole
incespicano sulle mie labbra, già non so come continuare. Tu non mi aiuti. Mi
sembra solo che il tuo sorriso divenga meno vago. - Miguel… - Dimmi, Felipe. Com’è difficile
parlare! Forse sarebbe più facile stringerti tra le mie braccia, ma ho paura
di un tuo rifiuto. Mi alzo. Sono consapevole di essere ridicolo, nella furia
del mio desiderio. Il mio corpo sa esprimere quello che vuole, le mie labbra
no, non trovano le parole. - Hai deciso? - Deciso? - Che cosa vuoi
fare, Miguel? Hai deciso che cosa vuoi fare? Ridi. Una
risata leggera, appena un’increspatura sul tuo viso. - Io avevo
deciso molto tempo fa. Non ho cambiato idea. Da tempo una
mano mi stringeva il cuore in una morsa di ghiaccio. Ora mi sembra che di
colpo abbia allentato la stretta. Ma ancora non oso crederci. - Vuoi dire che… Miguel, io e te… - Non desidero
altro, Felipe. Non trovo le
parole, ma ora è la felicità a stordirmi. Ti stringo tra le braccia, come
desidero da quando ti ho incontrato, da quando mi hai salvato. E mentre le
mie mani, fameliche, percorrono tutto il tuo corpo ed
il tuo desiderio risponde al mio, riesco infine a sussurrarti ciò che ho
cercato invano di soffocare per tutti questi mesi. |