Un sogno condiviso

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Quella notte, e le altre che seguirono, Andrea non le voleva ricordare, ma gli rimasero ugualmente impresse nella memoria come incise a colpi di scalpello.

Andrea, che non si chiamava più Andrea, ma Osman Deli, aveva rinnegato il suo nome ed il suo Dio, pur di restare libero di muoversi. Aveva un unico fine ed un solo desiderio, aiutare Marcantonio Bragadin a sopravvivere, anche se quello che poteva fare era davvero poco, portargli di nascosto acqua e cibo, mentre era rinchiuso in quella gabbia di ferro, di dimensioni talmente ridotte che lo costringeva a rimanere rannicchiato, con la testa incassata nelle spalle. Prima di rinchiudervelo, gli avevano reciso orecchie e naso, cauterizzando in seguito le ferite con pece bollente. Era stato il 4 agosto 1571, il giorno del vile massacro. Solo Bragadin era stato risparmiato, ed un paio di paggi che Andrea aveva rivisto.

La gabbia era posta all’aperto, per permettere a quella moltitudine di giannizzeri di osservarlo con comodo, sbeffeggiandolo e talvolta rendendolo bersaglio di vili lanci d’oggetti d’ogni sorta. Durante il giorno la gabbia si arroventava all’implacabile sole d’agosto, tanto che arrivava ad ustionare la pelle nuda di Marcantonio, che tentava in ogni modo di scostarsi dalle sbarre, in quell’angusto spazio. Giunta la notte, Andrea riusciva a portargli quel poco conforto che poteva, mentre Marcantonio lo pregava di andare via. Se lo avessero scoperto, Andrea avrebbe rischiato di fare la stessa fine degli altri, decapitato e smembrato sotto gli sguardi soddisfatti dei loro nemici. Ormai Famagosta era in mano loro. Lala Kara Mustafa Pascià non solo aveva vinto, ma aveva tradito le condizioni della resa e le convenzioni di guerra che garantivano la salvezza della città assediata, che decideva di arrendersi. Forse il suo intento era di vendicare i suoi cinquantaduemila morti, tra cui quella di suo figlio. Forse non aveva digerito che tutti quei caduti fossero stati opera di appena seimila uomini asserragliati dentro la fortezza. Forse, semplicemente, Lala Kara Mustafa era un mostro perverso che godeva delle sofferenze imposte ai propri nemici, e non solo a loro.

Andrea sperava, come può sperare un ragazzo ingenuo ed affezionato al suo padrone, che avendolo lasciato in vita, al contrario degli altri, il Pascià si sarebbe limitato a mantenerlo in schiavitù, in vista di un lauto riscatto. Le teste mozzate e messe in mostra di Astorre Baglioni, Nestore Martinengo e Gianantonio Querini, non riuscivano a convincerlo del contrario, e nemmeno l’oscillare al vento del corpo di Lorenzo Tiepolo, che il Pascià aveva fatto impiccare appena entrato trionfante a Famagosta.

Ma Andrea sperava, non poteva arrendersi. Considerava Marcantonio il padre che non aveva mai conosciuto. Sin da bambino, paggio presso di lui, era stato trattato con affetto. Divenuto più grande, era diventato il suo servo personale. Marcantonio lo conduceva sempre con sé. Anche là, a Famagosta, gli era al fianco, salvo che in quelle ore cruciali in cui si era consumata l’ignobile carneficina.

Marcantonio gli aveva chiesto di rimanere nella fortezza e Andrea era stato geloso di Gianantonio, che invece aveva potuto accompagnarlo. Ora che di Gianantonio era rimasta solo la bella testa infilzata su un pennone, Andrea, ancora ben vivo, ringraziava il cielo di quel benedetto buonsenso.

Andrea continuò a sperare fino al 17 agosto. Quel giorno, poté solamente tormentarsi, seguendo il martirio di Bragadin da lontano, confuso in mezzo alla folla sbeffeggiante ed urlante di giannizzeri in divisa verde e rossa, sopraffatto e stordito dal suono di corni, pifferi, trombe, cembali, campane e tamburi, intontito dal sole rovente che martellava senza pietà.

Quel mattino, avevano liberato Marcantonio dalla gabbia: era pieno di ustioni e  non si reggeva più in piedi, dopo essere rimasto per tredici giorni in quella posizione assurda. Nudo com’era, lo avevano trascinato fino alla sua nave e là lo avevano appeso all’albero, per ore intere, massacrandolo con oltre cento frustate. Ogni colpo era per Andrea una stilettata al cuore. Anche quando aveva distolto gli occhi da quella terribile vista, non riusciva a smettere di tremare.

Quando infine lo avevano liberato, era stato soltanto per costringerlo a camminare lungo la fortezza, ancora nudo, con una gran cesta piena di pietre e spazzatura sulle spalle già ustionate e tremendamente martoriate, obbligandolo con la forza a baciare la terra quando passava davanti al Pascià. Marcantonio cedette più volte e ogni volta lo fecero riprendere, con perversa brutalità. Le urla erano assordanti. Lungo il cammino chiunque poteva picchiarlo e sbeffeggiarlo. Ad Andrea tremavano le gambe, ma non voleva lasciarlo da solo lungo il percorso di quell’orribile via crucis.

Improvvisamente, ad un gesto del Pascià, Marcantonio fu trascinato nella piazza principale e legato alla colonna della gogna. Là fu raggiunto dal suo boia, un turco alto e grosso, con indosso solo un paio di pantaloni a sbuffo di leggera tela bianca e in capo un gran turbante. Due aiutanti gli stavano al fianco.

Andrea avrebbe voluto chiudere gli occhi. Non aveva più la forza di guardare, ma non trovava il coraggio di smettere, era come paralizzato. Quando comprese ciò che gli facevano, si pentì di aver guardato. Se ne pentì per il resto dei suoi giorni.

Il prigioniero gridò una volta sola, quando il boia iniziò a scuoiarlo a partire dalla testa. Più tardi, mentre dava lo strappo decisivo fino all’ombelico, finalmente Marcantonio Bragadin esalò l’ultimo respiro, e Andrea, che non si chiamava più Andrea, ma Osman Deli, ricacciò indietro le lacrime e la disperazione, e ingoiò il nodo che aveva in gola, ringraziando Dio, il suo Dio, non l’altro. Finalmente quell’agonia era cessata. Finalmente Marcantonio era morto.

Invece non era finita. Intorno a lui gli schiamazzi continuavano, accompagnati dal suono assordante dei tamburi e delle trombe, mentre il boia completava la sua opera. Il suo corpo era stato staccato dalla colonna e steso a terra, per finire di spogliarlo più facilmente di tutta la sua pelle. Ma neppure allora era finita, perché il boia aveva continuato con cura il suo lavoro, immergendo nel sale e nell’aceto quel povero involucro che era stato la pelle del suo padrone. Con la massima cura lo aveva poi imbottito di paglia e di bambagia, ricucendolo interamente fino a farne un fantoccio. Gli aveva posto sul capo un cappello di pelliccia, lo aveva rivestito della sua toga porpora di senatore e lo aveva issato in groppa ad una vacca. Così aveva sfilato per le strade della città, mentre quel che rimaneva del suo corpo, quella massa sanguinolenta e spaventosa, era stato macellato, come quello di un animale. I suoi quarti erano stati infilzati ai quattro torrioni estremi della fortezza, al Diamante, all’Arsenale, al Cavalier di Limissò e al Baluardo Andruzzi, e la testa e le interiora erano state appese alle corde dello stendardo. Per fortuna, gli occhi del fantoccio non avevano potuto vedere quello scempio. Andrea invece non era stato tanto fortunato.

Osman Deli, che tale era diventato per servire il suo padrone fino in fondo, sentì il macigno che aveva sul cuore come un peso impossibile da trascinare e finalmente crollò a terra, stordito dal sole, dalle urla, dai tamburi, dalle trombe e dal terribile dolore che lo squarciava dentro. Marcantonio era morto e non avrebbe avuto una tomba su cui piangerlo, né a Famagosta, né altrove.

    

Anche per le strade di Costantinopoli, Lala Kara Mustafa esibì orgogliosamente il suo trofeo-fantoccio, insieme alle teste mozzate dei suoi compagni, ed anche là Osman Deli lo seguì. Non voleva perderlo di vista. Solo quello rimaneva dell’uomo che aveva amato come un padre. Quando infine il Pascià si stancò del suo macabro giocattolo, lo fece appendere all’arsenale, in modo che tutti quelli che vi passavano potessero vederlo. Un monito ai veneziani e a quanti potessero ancora pensare di opporsi all’impero ottomano. Le teste mozze, invece, impartì che fossero sepolte nel cimitero degli schiavi, vietando di porvi alcun segno di riconoscimento.

 

 Osman avrebbe voluto che lo tirassero giù. Vedere il fantoccio-Bragadin esposto in quel modo crudele, lo faceva star male. Non sapendo a chi rivolgersi, decise di chiedere aiuto al bailo, sempre che riuscisse a farsi ricevere. Alle prime luci del mattino si recò a Pera, al suo Palazzo, dove scoprì che il bailo vi era tenuto prigioniero. Nel suo giardino, un gruppo di giannizzeri faceva la guardia, per evitare che potesse fuggire. Osman osservò la situazione da lontano, per qualche tempo, notando che qualcuno riusciva a passare, dopo una sommaria perquisizione. Il primo ad entrare fu un prete e, poco dopo, un ebreo dal turbante giallo, probabilmente un mercante.

Decise che avrebbe tentato anche lui, spacciandosi per il fattorino di qualche commerciante. Non sapeva più se avrebbe potuto servire a qualcosa, ma voleva parlare con qualcuno e se il bailo non era la persona giusta, avrebbe in ogni caso potuto suggerirgli qualche utile soluzione.

Fu il suo nuovo travestimento da turco, unito forse all’aspetto innocuo della sua giovanissima età, a fornirgli il salvacondotto per accedere alla presenza del bailo.

Marcantonio Barbaro lo accolse con cordialità, pur non sapendo chi fosse. Era alto, elegante, dal portamento aristocratico e il suo sguardo lo studiò in ogni minimo dettaglio, prima di invitarlo a parlare.

Dopo avergli raccontato la sua storia, Osman gli espose la situazione in cui si trovavano le spoglie di Bragadin, all’arsenale, e la necessità di trovare un modo per convincere le autorità a desistere da quell’ulteriore infamia.

- Non ho potuto vederlo. Purtroppo sono recluso nel mio stesso palazzo, ma me ne hanno già parlato. Anche poco fa, padre Gontrano, si torturava all’idea che i poveri resti di Bragadin fossero abbandonati agli uccelli e alle intemperie. –

- Ecco, sono qui proprio per questo. Come si può fare per convincere i turchi a finirla? –

- Non è facile, Andrea. Il mio ascendente sul Gran Visir, in questo momento, come puoi vedere da te, non è molto alto. Certo, se sono qui, a casa mia, e non a marcire in una prigione, lo devo a lui. Ma non posso tirare troppo la corda. Non si sa mai cosa ne possa venire. Mohammed Soqollu non è un pazzo, ma deve trovare il suo interesse, per muoversi. Ed è difficile capire quali siano i suoi scopi, in questo momento. –

- Quali sono i suoi rapporti con Lala Kara Mustafa? –

- Non troppo buoni. Lo ha sempre osteggiato davanti al Sultano. –

- Allora si potrebbe fare leva su questo. –

- E chi? Io non sono in condizioni di farlo. Non ora. –

- Allora dobbiamo lasciarlo appeso lì finché a qualcuno non venga in mente di tirarlo giù? – chiese Osman, con disperazione.

- Farò quello che posso. C’è un medico ebreo che ha forti appoggi. Vedrò di fargli giungere un messaggio, tramite un mercante mio amico. –

- Grazie. Per tutto quello che riuscirete a fare. – disse Osman, anche se temeva che sarebbe stato troppo poco.

- E tu che farai adesso? Dove ti sei sistemato? –

- Per ora dormo al caravanserraglio, dall’altra parte del Corno d’oro. Faccio piccoli lavori all’arsenale, per non allontanarmi da Bragadin. Finché i giannizzeri sopporteranno la mia presenza, andrò là. –

- Forse dovresti pensare a tornare a casa. Qui non puoi fare più niente per aiutarlo. Bragadin è morto. Dovrai rassegnarti a quest’idea. –

Osman non trovò nulla da dire. Anche se Bragadin non c’era più, il suo fantoccio era ancora là e lui doveva fare qualcosa.

-  Buona fortuna, Andrea. –

Osman si congedò, sapendo che sarebbe tornato. Non poteva arrendersi così.

 

 E infatti ci tornò. Era appena sbarcato a Galata, quando vide padre Gontrano trascinato via e malmenato da quattro giannizzeri. Si precipitò a Palazzo per chiedere se sapessero cosa fosse accaduto, ma fu solo dopo molte insistenze che lo fecero passare.

     Il bailo era sconvolto.

- Gli avevo affidato un messaggio da far giungere a Venezia. Fino ad oggi non lo avevano mai spogliato, prima di lasciarlo andar via. –

- Quel messaggio conteneva notizie pericolose? –

- No, non è grave tanto quello che c’era scritto, quanto il fatto in se stesso. Penseranno che l’abbia sempre utilizzato come spia, tradendo la loro fiducia. Se non sono spacciato io, lo è lui di sicuro. –

- Ma se non era niente di compromettente, non saranno tanto crudeli da ucciderlo. –

- Tu non li conosci ancora, Andrea. –

- Sì, forse un po’ li conosco. – disse Osman, ripensando a Famagosta.

- Stai attento. Venire qua ti mette in grave pericolo. –

- Fuori di qui non parlo e non m’incontro con nessuno. Quale pericolo potrei costituire per loro? –

- Non lo so. Stai attento. –

“Il negoziato con i turchi è simile ad un gioco con la palla di vetro. Quando il compagno la lancia con forza, non bisogna ribatterla violentemente, né  lasciarla cadere a terra.”

Anche questo c’era scritto nel messaggio. Il bailo sperò che non fossero troppo duri con padre Gontrano, ma una parte di lui sapeva già trattarsi di un’inutile speranza.

 

- L’hanno impalato. – mormorò Osman, senza riuscire a distogliere la mente dall’immagine di quel turpe supplizio.

- È morto? – gli chiese il bailo, tristemente.

- No, non ancora. Dicono che ci vorranno almeno un paio di giorni. –

Il boia era un esperto. Sapeva esattamente come agire, per evitare di ledere organi vitali, ottenendo di prolungare il supplizio per giorni. Quando Osman aveva abbandonato la piazza, padre Gontrano, infilzato in un palo, che lo attraversava dall’ano ad una spalla, non era ancora morto, ma era come se lo fosse. I suoi occhi erano aperti, ma sembrava non vedere nulla. Neppure il dolore traspariva dal suo volto. La sua espressione assomigliava a quelle di certi dipinti che aveva visto appesi nelle chiese. Sembrava trasfigurato dall’estasi mistica.

- Adesso tocca a me. – mormorò Marcantonio, rabbrividendo.

- Perché non tornate a Venezia, prima che sia troppo tardi? –

- Non credo che Soqollu me lo permetterà. Deve in ogni caso risponderne al Sultano. -

- Ma con Soqollu si può sempre trattare, no? Non avete sostanze da offrirgli? –

- Vedo che hai già capito cosa muove questo mondo. – si stupì il bailo, guardandolo con un sorriso che era quasi d’ammirazione.

- Dovete tentare. Quella è una morte troppo orrenda. – disse Osman, che pure, di morti, ne aveva viste tante. Quella di Bragadin gli tornava in mente di continuo. E quella di padre Gontrano lo avrebbe perseguitato a lungo.

- Tenterò. – rispose il bailo.

 

 Marcantonio Barbaro partì la settimana successiva, lasciando padre Gontrano ancora esposto nella piazza, benché fosse morto ormai da cinque giorni, il fantoccio di Bragadin ancora appeso all’arsenale, e Osman Deli sempre più deciso a farlo rimettere giù.

Eppure sarebbe accaduto senza il suo intervento. Pochi giorni dopo, il 7 ottobre, la flotta ottomana fu distrutta a Lepanto da quella della Lega Santa, formata da 104 galee e 6 galeazze veneziane, 58 galee spagnole, 12 di Cosimo dei Medici, 12 dello Stato Pontificio e 3 dei Cavalieri di Malta.

Peccato che non si fossero mossi in tempo per raggiungere Famagosta, prima che la fortezza cadesse,  pensò Osman, con profondo rancore.

Nonostante il Gran Visir Mohammed Soqollu avesse commentato che i veneziani avevano fatto a Selim solo la barba - che sarebbe cresciuta più folta - mentre loro, prendendo Cipro, avevano tagliato a Venezia un braccio - che non sarebbe ricresciuto - subito dopo, Bragadin scomparve dall’arsenale. Non era più il simbolo di una vittoria, ma quello di una disfatta che si voleva cancellare in fretta. Che fosse stato per ordine del Sultano Selim, a cui il supplizio di Bragadin non era piaciuto affatto, di Soqollu, che era stato amico del bailo, o dello stesso Lala Mustafa, che tentava di rientrare nelle grazie del Sultano, questo Osman non lo seppe mai. Però, da quel momento, il suo unico scopo fu quello di scoprire dove lo avessero nascosto.

 

 Girolamo Polidoro giunse a Costantinopoli esattamente il giorno in cui si festeggiava la nomina a Gran Visir di Lala Kara Mustafa, il 28 aprile 1580, dopo due settimane di un viaggio perfetto, con i venti giusti a gonfiare le vele, il mare appena increspato e poche bianche nubi a rincorrersi nel cielo. Un viaggio veloce, senza ombre né accadimenti, che si cancellò presto dalla memoria di tutti quei navigatori, proprio per il fatto che non ci fosse alcun evento da ricordare.  

Ma il destino fissa appuntamenti nei luoghi e nei momenti più strani e fu proprio quel giorno che Girolamo incontrò Osman Deli, un turbante bianco sulla testa bruna, occhi azzurri in un volto barbuto e un sorriso indeciso, quasi un modo di chiedere scusa. Un rinnegato, lo bollò Girolamo, senza rifletterci un attimo. Sì, in fondo era quello che era, un rinnegato. Ma per amore.

Dopo aver espletato le prime formalità con il bailo Paolo Contarini, Girolamo fu libero di andarsene a zonzo per la città. Era la prima volta che si recava così lontano da Venezia. Il grano ottomano avrebbe dovuto far fronte, ancora una volta, alla carestia che minacciava la Serenissima. Due alluvioni, una di seguito all’altra, avevano reso impossibile un raccolto dignitoso. Bisognava rivolgersi altrove. A tal proposito, il bailo aveva già preso accordi soddisfacenti con la Sublime Porta. Si trattava soltanto di caricare le navi e tornarsene a casa. Ma a Girolamo piaceva più d’ogni altra cosa viaggiare, per visitare nuove città, conoscere paesi diversi, scoprire usi e costumi d’altri popoli. Quindi voleva approfittare d’ogni momento libero, per tuffarsi in quel mondo esotico e sconosciuto.

Girolamo, ancora fermo sul molo, si guardava intorno, incerto sulla direzione da seguire, quando Osman gli si avvicinò.

- Ti serve una guida? È la prima volta che vieni a Costantinopoli, vero? – gli chiese.

- Sì, è la prima volta, come hai fatto a capirlo? –

- Dopo anni di questo mestiere, so riconoscere uno straniero che non sa dove andare. –

- E quanto mi costerebbe il tuo servizio? –

- Non preoccuparti, ci metteremo d’accordo. Dimmi solo dove vuoi andare, se già lo sai. Altrimenti posso consigliarti io. –

- Mi serve un posto dove dormire, immagino. –

- C’è la locanda San Marco, dove di solito si fermano i veneziani. Non è lontana. –

- Come ti chiami? – gli chiese Girolamo.

- Qui mi chiamano Osman, ma una volta ero Andrea. –

Girolamo valutò che dovesse avere più o meno la sua età, ma una storia ben diversa, che lo aveva portato a vivere tanto lontano da casa e a cambiare nome e religione. Guardandolo negli occhi, vi lesse un’infinita tristezza e una grande bontà.

- Io mi chiamo Girolamo. Girolamo Polidoro da Venezia. –

- Venezia, naturalmente. L’avevo capito. –

- Ma anche tu mi sembri veneziano. –

- Un tempo. Molto tempo fa, prima che Venezia tradisse Famagosta. –

Girolamo tentò di ricordare quella storia, le voci che erano circolate a quei tempi, però non gli sovvenne d’alcun tradimento. Ma forse era stato troppo giovane per afferrare il senso delle storie che aveva udito.

- Ci possiamo togliere dal sole? – chiese Girolamo, che iniziava a sudare.

- Preferisci restare a Galata o andare alla città? –

- Alla città. –

- Allora vieni, c’è un caicco che sta per partire. –

Girolamo non aveva fatto in tempo a sbarcare, che si ritrovò nuovamente in mare. Osservò la costa che si allontanava e si disse che il posto non gli sembrava un granché. Domandò ad Osman notizie di Galata. Lui gliela descrisse accuratamente.

Quattromila casette di legno e due chiese, Santa Maria e i Santi Marco e Pietro. La colonia era formata da più settori. Galata era quello dei genovesi. In quello che chiamavano Pera, c’era il Palazzo del bailo di Venezia, che vi aveva la sua corte, di una quindicina di persone, tra cui un prete che fungeva da notaio. Tre volte a settimana amministrava la giustizia tra i veneziani, ma il suo compito principale era quello di controllare le navi che andavano e venivano da Venezia. Senza il suo salvacondotto, nessuno si muoveva. A Galata avevano bottega anche gli ebrei, che però poi dormivano nel loro settore. E più discosto c’era il quartiere degli schiavi. Gli raccontò che ogni domenica il bailo, con i rappresentanti degli altri latini presenti in città, doveva rendere omaggio al Sultano. Al banchetto imperiale che ne seguiva, però il bailo non partecipava. Era abitudine consolidata che si mantenesse ad una certa distanza. Secoli di guerre avevano abituato veneziani e turchi a diffidare gli uni degli altri, eppure i loro scambi commerciali erano tanto importanti e radicati che non potevano fare a meno di mantenere i contatti.  Osservando la costa dal mare, quella che svettava sul profilo di basse casette di legno, era la torre di Galata, edificata dai genovesi, alta e rotonda, costruita di mattoni dorati e col tetto grigio a forma di cono.

Il mare era tranquillo e la traversata non fu molto lunga. Girolamo si voltò ad osservare la città che si avvicinava piano. Minareti e cupole svettavano dalle mura, mentre un cielo limpidissimo permetteva al sole di riflettersi su quelle superfici bianche e azzurrine. Era uno spettacolo da mozzare il fiato. Se Venezia era uno splendore, Costantinopoli sembrava un sogno. 

Una volta messo piede a terra, Girolamo si rese conto di avere ancora con sé la sua sacca. Non era molto pesante, ma portarsela dietro tutto il giorno l’avrebbe fatta diventare ben presto un macigno.

- Vieni. Ti porto a bere un caffè. – gli disse Osman.

- Me ne hanno parlato, ma non molto bene, se devo essere sincero. –

- È solo una questione d’abitudine. Scommetto che quando tornerai a casa ti mancherà. –

- Intanto non ci sarebbe un posto dove lasciare il bagaglio? –

- Potresti lasciarlo da me. Abito qui vicino. –

Osman lo guidò verso un piccolo gruppo di casette di legno affacciate sulla costa. Si avvicinò ad una di esse, che una volta doveva essere dipinta di un tenue color rosato, di cui era rimasta traccia su qualche scaglia qua e là.  Ne aprì la porta, poi gli sfilò la sacca dalla spalla, entrò un momento e tornò subito all’aperto richiudendo la porta.

- Qui sarà al sicuro e sarà comodo riprenderla quando dovrai tornare a Galata. –

- Ti ringrazio. –

- Bene, e adesso ci vuole proprio un caffè. -  

 

 In breve tempo, si addentrarono nella città, lasciandosi il mare alle spalle. La strada era fiancheggiata da case variamente colorate, nella cui ombra camminarono in silenzio. Poi deviarono per una stradina più stretta e là, poco oltre l’angolo, Osman si fermò.

- Il kahvehane è qui. – disse, entrando nella mescita di caffè. Ai fianchi della porta, sulla strada, c’erano due panchine, in quel momento vuote. 

Il locale era grande. Lungo le pareti erano disposte lunghe panche coperte di cuscini, davanti alle quali erano distribuiti piccoli tavolini bassi. Le pareti erano piastrellate di maioliche colorate, fino all’altezza del petto di un uomo, e per il resto dipinte di un bel giallo zafferano. All’interno aleggiava uno strano profumo, che Girolamo non avrebbe saputo descrivere. Su una delle panche erano seduti due uomini. Dopo aver scambiato uno sguardo con Girolamo, Osman disse qualcosa al gestore e poi lo invitò a sedersi.

- Di solito qui è pieno di gente. C’è sempre qualcuno che suona, si gioca a scacchi, si legge, si fuma il narghilè. Ci puoi incontrare viaggiatori che raccontano strane storie, o narratori di professione che declamano il Muallaqat o lo Shahnameh. –

In quel momento, i due uomini seduti di fronte a loro iniziarono a discutere animatamente, tra i commenti allegri e chiassosi del gestore, che ben presto fece loro cenno di andarsene, ridendo. Quindi entrambi si alzarono, lo salutarono e si allontanarono in fretta.

- Che succede? – chiese Girolamo.

- Stanno andando alla festa. Si preoccupavano di essere in ritardo. È per questo che qui oggi non c’è nessuno. –

- Quale festa? –

- Oggi si festeggia la nomina a Gran Visir di quel demonio di Lala Kara Mustafa. –

     Girolamo non lo aveva mai sentito nominare.

- Era il comandante della flotta che ha assediato Famagosta, nove anni fa. – gli spiegò Osman.

- Sai, devo proprio dirtelo. Di quella storia non mi ricordo niente. –

- Non sai quanto sei fortunato. –

Il suo commento gli fece intuire che Osman invece doveva esserci stato coinvolto, anche se allora doveva essere giovanissimo. La sua curiosità lo spinse a chiedergliene conferma.

- Tu c’eri, vero? –

Osman sospirò, ma non rispose, limitandosi ad un assenso con la testa. Il suo volto si era trasformato in una maschera triste.

Il gestore si avvicinò, appoggiando un vassoio sul tavolino davanti a loro e si allontanò, dopo averli studiati per un attimo con curiosità.

Girolamo guardò i due piccoli bricchi di rame e le due tazzine di vetro. Osman bloccò la mano che Girolamo aveva allungato.

- Non ancora. Dobbiamo aspettare che il caffè si depositi sul fondo. –

- Mi fido di te. – disse Girolamo, ritraendo la mano.

Mentre studiava con un certo disagio quel liquido nerastro, si decise a chiedergli:

- E dopo, come mai non sei tornato a casa? –

Osman si voltò di scatto verso di lui e i suoi occhi non gli sembrarono più tanto buoni.

- La mia casa era Marcantonio Bragadin. – rispose, con freddezza.

Quello, almeno, Girolamo lo sapeva. Bragadin era stato il difensore di Famagosta.

- Eri suo figlio? –

- No, prima un paggio e poi il suo servitore. –

- Ma a Venezia non hai più nessuno? –

- Non sono più veneziano, non l’hai capito? Forse ho sbagliato ad offrirmi come guida proprio a te. –

- Scusami, non volevo farti inquietare. Non ne parliamo più. –

  Osman cambiò argomento.

- È pronto. Te lo verso io. Non bisogna far salire i fondi. Ecco, adesso puoi berlo. – lo invitò, dopo aver riempito la tazzina.

Girolamo guardò con stupore quel liquido scuro, che emanava un profumo strano ma accattivante e, preso coraggio, lo assaggiò.  E poi lo bevve, a piccoli sorsi, come faceva Osman.

- Che ne dici? –

 Girolamo scoppiò a ridere.

- È buono! –

- Certo che è buono. –

- Grazie. È stata una vera scoperta. –

- Ne farai altre, te lo assicuro. –

 

     Dopo la penombra confortante del locale, il calore della strada colpì di nuovo Girolamo. 

- Fa sempre così caldo in questa stagione? –

- Sì, di solito, quando non piove. Ma si sta bene, finché il vento spazza l’aria. D’estate invece fa un caldo infernale. –

- Dove stiamo andando? –

- Dove vuoi tu. Ti posso condurre al gran bazar, all’ippodromo, oppure alla Porta D’oro, se vuoi vedere la festa. –

- Non credo che tu ci andresti volentieri, alla festa. – commentò Girolamo.

- No, è vero. –

- Allora non mi interessa. –

Osman si voltò a guardarlo, diviso tra lo stupore e la gratitudine.

- Al gran bazar, allora? –

- Va bene. –

  Dopo un lungo cammino, giunsero ad una piazza.

- Quella è la colonna di Arcadio. – disse Osman.

- Cos’è quell’assembramento? –

- È l’Avrat Pazari, il bazar delle donne. –

Avvicinandosi al mercato, Girolamo poté vedere i banchi e le botteghe di fiori, candele, profumi ed unguenti che donne velate offrivano ad altre donne, anch’esse velate.

- Questa è l’unica area dove le donne possano commerciare. – affermò Osman.

- Non ho visto molte donne per le strade. –

- I turchi preferiscono tenerle rinchiuse in casa. E quelle che escono sono sempre ben scortate, come hai potuto notare. -

Per il resto, il gran bazar si manifestò esattamente come Girolamo se lo immaginava dalle descrizioni che ne aveva ricevuto. Un’infinita serie di stradine coperte che s’incrociavano, trasformandosi in un labirinto su cui si affacciavano una moltitudine di botteghe, tutte costruite in legno. In alcune si aprivano grandi porte intarsiate e traforate, altre erano dipinte di colori squillanti. Ogni strada era adibita alla vendita della medesima merce. C’era quella delle stoffe e quella dei tappeti, quella delle spezie e quella dei gioielli, quella dei profumi e quella degli abiti. In alcune di esse, la merce era esposta anche all’esterno e i mercanti contrattavano con i compratori con la foga disperata di chi sta lottando per la vita. Non somigliavano affatto a quelli di Rialto. Le voci si confondevano trasformandosi in un chiasso incomprensibile. I colori lo colpivano agli occhi senza lasciargli il tempo di distinguere i singoli oggetti, gli odori forti e penetranti lo stordivano. Mercanti più audaci gli si paravano davanti mettendogli sotto il naso la merce in vendita. Ad un certo punto si erano fermati a mangiare qualcosa, ma presto si erano di nuovo tuffati nella colorata corrente del bazar. Dopo aver camminato a lungo, fendendo a tratti una vera folla, Girolamo si ritrovò a desiderare una cosa soltanto, allontanarsi in fretta da tutto quel caos.

- Come si esce da qui? – chiese ad Osman.

- È facile. Qua dietro c’è una delle porte. Vieni. –

Osman lo afferrò per un braccio e lo guidò fuori, schivando la folla.

Una volta all’esterno, Girolamo sospirò.

- Grazie. È molto animato e divertente, ma non ne potevo più. –

- Non ami molto la confusione, vero? –

- No. In effetti preferisco più spesso la pace ed il silenzio. –

- Anch’io. –

- Dove potremmo trovarli, in questa città? –

- Un posto ci sarebbe. -

- Allora andiamoci. –

I suoi occhi azzurri lo osservarono per un istante.

-  Ne hai davvero un gran bisogno, in effetti. – commentò Osman, sorridendo ironicamente.

Girolamo pensò che avrebbe fatto meglio a chiedergli quale fosse quel posto, ma all’improvviso sentì che doveva lasciarsi andare. Se voleva davvero conoscere la città, doveva affidarsi completamente ad Osman.

 

Girolamo non si aspettava nulla del genere, quando misero piede nell’hamam. In mezzo al grande salone, c’era una bellissima fontana di marmo bianco, i cui zampilli si riversavano in vasche concentriche, con un mormorio lieve e rilassante. Intorno alla sala correvano gallerie di legno come ne aveva viste a teatro, a Venezia. Solo che lì la gente stava sdraiata sui cuscini, con indosso solo teli di stoffa bianca. Il tetto era a cupola con tonde finestrelle che facevano piovere in basso fasci di luci colorate. Furono accolti da due robusti tellak, a torso nudo, che li condussero in un’altra sala con una serie di cabine di legno dove si spogliarono e indossarono un telo bianco intorno ai fianchi e degli zoccoli. Subito dopo li condussero in una sala piena di nebbia. Era vapore caldissimo, che immediatamente costrinse i loro corpi a sudare copiosamente. Attraverso la nebbia, Girolamo vide confusamente che l’intero ambiente era fatto di marmo, circondato di colonne e con il soffitto a cupola. Al centro vi era un grande letto circolare di pietra calda, su cui si distesero. Intorno vi erano piccole fontane di marmo da cui qualcuno attingeva acqua per rinfrescarsi. Girolamo guardava Osman, di fianco a lui. Le perline di sudore affioravano sulla sua fronte, sul braccio, sul torace, scivolando e andando a perdersi in un triangolo di fitti peli scuri. Osman si accorse che lo stava osservando, ma non disse nulla. Fu invece Girolamo a parlare, colto da imbarazzo.

- Soffro molto il caldo. –

- Più tardi ti rinfrescherai. – gli rispose Osman, sorridendogli in modo strano.

Poi furono accompagnati in un altro ambiente con tavoli di marmo su cui li fecero sdraiare.

- Cosa ci fanno? – chiese Girolamo, lievemente inquieto.

- Nulla di male, non ti agitare. Alì è molto bravo. Lascialo fare, ed uscirai da qui come nuovo. –

Girolamo non si agitò. Alì, il tellak che si occupava di lui, iniziò ad insaponarlo con sapone d’Aleppo e poi a strigliarlo con un guanto di pelo di cammello, inondandolo d’acqua tra una strigliata e l’altra. Poi lo massaggiò e lo pizzicò, alternando dolcezza a brutalità, fino a suscitargli brividi in tutto il corpo. Nessuno lo aveva mai toccato così. Girolamo non si pentì di aver seguito Osman. Quando il tellak ebbe finito, lo asciugò e gli pose un telo bianco intorno ai fianchi.

Quindi furono condotti nella sala principale, sotto la galleria, dove li aspettavano cuscini ricamati, caffè e bibite, oltre ad un narghilè di cui entrambi rifiutarono di servirsi.

- Dopo questo trattamento, mi sembra che potrei dormire. – disse Girolamo.

- È l’effetto del bagno. Chiudi gli occhi e riposati. –

Ma Girolamo non dormì. Col trascorrere dei minuti si sentiva sempre più leggero, riposato, con la testa vuota e persino felice.

Osman aveva conosciuto molta gente, facendo la guida, ma era la prima volta che provava tanta simpatia per qualcuno. Girolamo Polidoro gli sembrava una persona semplice, quasi ingenua, curiosa e spontanea. Certo, lo conosceva da poche ore appena, ma lo aveva colpito. Con lui sembrava facile fare amicizia.

 

     Dopo aver cenato, quella sera, Girolamo provò un bizzarro impulso. Quello di restare con Osman. Non voleva separarsi da lui. Si rendeva ben conto che era assurdo, ma aveva la sensazione che quel desiderio fosse inevitabile. Così, quando raggiunsero la casetta, per permettergli di riprendersi il suo bagaglio, gli sfuggì un’impudente proposta.

- Non potresti ospitarmi tu, allo stesso prezzo della locanda? –

Osman tentò di guardare bene in faccia Polidoro, ma la luce della luna che in quel momento filtrava a malapena dalle nuvole, gli permise soltanto di distinguerne lo scintillio degli occhi e dei denti.

- Se ti accontenti di dormire in questa baracca, su un tappeto… -

- Grazie, – gli disse Girolamo, interrompendolo – sarà sicuramente meglio di come ho dormito sulla galea, per due settimane. -

- Chissà se domani ti sentirai ancora di ringraziarmi. – aggiunse Osman.

La casetta di legno non era affatto una baracca come appariva dall’esterno e come Osman si compiaceva di far credere. Quando vi accese una lanterna, Girolamo notò il pavimento coperto di tappeti, lungo le pareti alcuni materassi bassi, coperti di cuscini, e due cassoni ai lati opposti della stanza. In un angolo vi era una giara e accanto ad essa un fornellino di rame. Su una mensola bacili e brocche. Su un tavolino, qualche bicchiere e tre o quattro tazzine, con un bricco proprio uguale a quello della mescita di caffè.  

- Non è esattamente come me l’aspettavo. – commentò Girolamo.

- Ti sei già pentito? –

- No, al contrario. È bello qui. –

- C’è tutto quello che mi serve. Del resto io sto sempre fuori, e di solito non ospito nessuno. –

- Quello è per il caffè? – chiese Girolamo, indicando in direzione del tavolino.

- Sì. Non è difficile da fare. –

- E adesso potresti farlo? –

     Osman lo guardò divertito.

- Allora ti è piaciuto davvero. –

- Non sono più tanto sicuro. Vorrei rinfrescarmi la memoria. –

     Osman, ridendo, pose l’acqua a scaldare. 

- Da quanto vivi qui a Costantinopoli? –

- Da nove anni. – rispose Osman.

- E come ci sei finito? –

Osman lo guardò a lungo, meditando se fosse il caso di raccontargli tutta la storia. Girolamo sembrava davvero curioso di conoscerla. Era tutto il giorno che gli poneva domande su di lui. In fondo, perché no? Ricordare non gli faceva più male come una volta.

Era ormai molto tardi, quando Osman smise di parlare. Per tutto il tempo Girolamo aveva avuto l’impressione di vivere accanto a lui quella guerra infernale, soffrendo il freddo ed il caldo, la fame e la sete, la paura, la speranza, la delusione, il dolore. Con lui aveva curato le ferite, respirato l’odore della polvere da sparo, pulito le armi. Con i suoi occhi aveva visto quell’immenso esercito verde e rosso che li pressava senza lasciare scampo e aveva sentito il puzzo di putrefazione di migliaia di cadaveri lasciati a cuocere al sole sotto le mura. Accanto a lui si era fatto turco, per conservare la possibilità di muoversi liberamente. Con lui si era nascosto nella notte per portare acqua e cibo al suo padrone, costretto in una gabbia. Accanto a lui ne aveva seguito le torture, con il cuore in gola, e con un assurdo senso di sollievo, ne aveva infine osservato la morte. Ci sono momenti in cui capita di riflettersi completamente nell’anima di un altro essere umano e quello, per Girolamo, era il momento.

- Due mesi dopo c’è stata Lepanto e ricordo che tutti, a Venezia, hanno parlato solo di quella vittoria. – commentò Girolamo.

- Così Marcantonio Bragadin è stato tradito due volte. –

- Quando tornerò a casa, ricorderò a tutti questa storia. Vedrai che il suo nome non sarà dimenticato. –

- Adesso è meglio che dormiamo. –

Un velo di tristezza aveva avvolto Girolamo come una veste. Osman faceva parte integrante di quella sensazione.

Dopo aver parlato tanto a lungo, Osman si sentiva svuotato, come se tutto il suo dolore residuo, attraverso la sua voce, si fosse trasferito altrove. A Polidoro forse. Gli vedeva un’espressione mesta e un po’ assente, che non era certo la stessa di quella mattina, quando lo aveva visto al molo per la prima volta.   

- Mi dispiace di averti rattristato. – si scusò.

- No, non preoccuparti. Sono contento che tu mi abbia raccontato la tua storia. –

- Nel giorno del trionfo di Lala Kara Mustafa, era giusto che qualcuno conoscesse la verità su quel demonio. –

- Bisognerebbe fargli provare le stesse pene che ha inflitto ai suoi nemici. –

- La vendetta e l’odio non servono a molto. Ti prosciugano le forze senza darti nulla in cambio. –

- Credo che tu abbia ragione, ma è così difficile perdonare. –

- Io non l’ho fatto. Ma cerco di vivere la mia vita senza altre complicazioni. –

- Ne hai già avute abbastanza, in effetti. –  gli disse Girolamo, con una pacca di consolazione sulla spalla.

 

      Nonostante l’ora tarda e la stanchezza, Girolamo faticò ad addormentarsi. Continuava a sentire nella mente la voce ipnotica di Andrea che gli raccontava l’incredibile martirio del suo padrone. La guerra è guerra e in battaglia si muore, ma non così. Quello era qualcos’altro. Qualcosa di simile all’inferno. Aveva visto anche lui qualche impiccato e persino un combattimento con morti e feriti. Quella era una morte pulita. Dolorosa, certo, ma dignitosa. Quello che Bragadin aveva subito non aveva nome e sarebbe stato difficile trovargliene uno.

Ammirava il coraggio di Andrea. Ce n’era voluto tanto per fare quello che aveva fatto. Pur di restare libero di muoversi, per aiutare Bragadin di nascosto, aveva voltato le spalle alla sua gente. Durante il suo racconto, aveva parlato più volte di tradimento. Venezia aveva tradito Bragadin, di questo si era convinto anche lui. Ma quello di Andrea non era stato un tradimento, semmai la dimostrazione di un amore incondizionato. E Girolamo lo ammirò anche per questo. E poi pensò che sarebbe stato incredibile meritare un amore simile. Un amore assoluto, totale, indissolubile. Per un amore come quello valeva la pena di vivere e morire.

Prima di cedere al sonno, Girolamo ripensò alle goccioline di sudore che si affacciavano sulla pelle di Osman, all’hamam, e al desiderio improvviso e strano che lo aveva colto, quello di accarezzarlo. Gli sarebbe piaciuto sentire il contatto della sua pelle.

 

    La luna era alta nel cielo e Girolamo la poteva osservare restando tranquillamente sdraiato sul tappeto, perché il tetto non c’era più. Quando si girò su un fianco, nella luce lattea che illuminava la stanzetta, vide qualcuno muoversi. Qualcuno che si avvicinò a lui chiedendogli a bassa voce di ascoltarlo. Girolamo restò immobile e muto cercando di distinguerne i tratti, senza riuscirci. Così non gli rimase che ascoltare.

- So che stai cercando di vedermi, ma anche se ci riuscissi, non mi riconosceresti. Una volta ero diverso. Adesso sono soltanto il simulacro di me stesso. Sono qui per affidarti il mio ultimo desiderio. Voglio tornare a Venezia. Tu puoi farlo. Puoi portarmi con te. Ti prego, non farmi restare qui. È troppo doloroso per me. –

- Ma chi sei? – chiese Girolamo.

La figura si allontanò, fino a scomparire attraverso la porta. Soltanto allora gli giunse la risposta.

- La pelle di Marcantonio Bragadin. –

 

     Osman si svegliò di soprassalto. Aveva sognato Marcantonio. Lo aveva visto in piedi, in mezzo alla stanza, nella sua forma di fantoccio rivestito di porpora. Non era certo la prima volta che accadeva, ma era la prima volta che gli chiedeva di farlo tornare a Venezia.

-   Ti prego, fammi tornare a casa, – gli aveva detto – ora che ne ho l’occasione. -

Osman si accorse che anche Girolamo era sveglio. Aveva l’espressione turbata di chi era appena uscito da un incubo.

- Brutti sogni? – gli chiese.

- Ho sognato Bragadin. -

- Anche tu! – esclamò Osman, stupito.

- Ma allora, non era davvero un sogno. Ti ha parlato? Ti ha detto qualcosa? –

- Sì, mi ha detto che vuole tornare a casa. E a te? –

- Ha detto lo stesso anche a me. Mi ha chiesto di riportarlo a Venezia. –

     Si fissarono per qualche istante, sbigottiti.

Girolamo era sveglio da tempo e aveva avuto tutto l’agio di rifletterci.

- Lo farò, se tu mi aiuterai. – affermò, deciso.

Osman si alzò a sedere, incrociando le gambe, e lo osservò attentamente.

- Davvero lo faresti? –

- Devo farlo. –

- Perché? È stato solo un sogno. –

- L’hai sognato anche tu. Un sogno condiviso non è più un sogno.–

- E che cos’è? –

- Una richiesta dall’aldilà o l’indizio di un destino che vuole compiersi. –

     Osman sorrise appena, ma il suo sguardo sembrava vuoto.

- E se io mi rifiutassi di aiutarti? –

- E perché dovresti farlo? Tu lo amavi. Non vuoi esaudire il suo ultimo desiderio? –

- Il suo ultimo desiderio è stato quello di permettergli di morire con dignità. Ma non è stato esaudito. –

- Mi dispiace, Osman. Comprendo la tua angoscia e il tuo dolore, ma lui vuole tornare a Venezia. Aiutami. –

- E dove lo nasconderai? Come farai a portarcelo? –

- Non lo so, non lo so. Devo rifletterci. Ma un modo ci sarà. Devo solo trovarlo. –

- E se riuscissi a riportarlo a Venezia, poi che ne sarà di lui? –

- Lo porterò alla mia parrocchia. I frati sapranno cosa fare. –

- Avrà finalmente un nome su una tomba? –

- Certo che lo avrà, e anche un monumento, di sicuro. E tutti dovranno parlare di lui per un pezzo. Non permetterò che il suo nome cada nell’oblio. –

- Tu non puoi promettere nulla del genere. Chi ti ascolterà? –

Girolamo, seduto di fronte a lui, guardò verso il tetto, che era di nuovo al suo posto.

- A Venezia ci si può far ascoltare in molti modi ed io li userò tutti. –

Osman lo guardò per un momento, tentando di capire se Girolamo avrebbe avuto davvero la determinazione per arrivare fino in fondo.

- D’accordo, mi hai convinto. Ma non sarà facile. –

- Prima di tutto, bisogna scoprire dov’è. –

- All’arsenale. In una botte per vivande. – affermò Osman.

- In una botte? – si stupì Girolamo.

- Si vede che in quel momento non avevano altro per le mani. –

- Un’altra umiliazione! –

- L’ultima. – commentò Osman, tristemente.

- Ci sarà un modo per portarla via da lì? –

- Ho un amico, all’arsenale. È uno schiavo, ma forse potrà darci una mano. –

- Stamattina devo presentarmi al bailo. Forse anche lui potrebbe aiutarci. -

- Questo mi sembra più difficile. Non ha tanto potere, anche se le cose, adesso, vanno molto meglio rispetto a nove anni fa. E comunque Contarini ha appena assunto la carica. Di sicuro non ha ancora avuto il tempo di tessere le sue complicità. –

- Andiamo a vedere. Non si mai. –

- Ti accompagno. Ma non sperarci troppo. Non è da lui che potremo ricevere aiuto.-

- Posso dormire ancora qui, stasera? –

- Non ho nulla in contrario. –

- Grazie, Osman. –

 

     Di buon passo raggiunsero il molo, dove caicchi e barche a quattro remi facevano la spola dalla riva a quella opposta, su cui sorgevano Pera e Galata. Osman e Girolamo s’imbarcarono sul primo caicco che partiva. Quando giunsero sulla riva opposta, dovettero camminare a lungo, prima di raggiungere il Palazzo del bailo. Le basse case di legno erano tutte addossate le une alle altre, lasciando alle strade uno stretto passaggio. C’era un via vai di gente d’ogni colore. Tra i turbanti bianchi dei musulmani, spiccavano i turbanti gialli degli ebrei, e qualche raro turbante azzurro d’un cristiano greco. Tra salite e discese, botteghe e bettole, buoni odori e olezzi sgradevoli, finalmente giunsero al Palazzo del bailo, circondato da un bel giardino rigoglioso e con una ricca ed elegante facciata.

Paolo Contarini li ricevette quasi subito. Girolamo ne aveva notato l’espressione leggermente stralunata, con cui lo aveva accolto il giorno precedente. La stessa che sfoggiava anche in quel momento, seppur forse attenuata dalla protezione della grande scrivania dietro la quale sedeva. 

- Polidoro, sarai contento si sapere che tra una settimana esatta potrai tornartene a casa. – esordì.

Girolamo ed Osman si voltarono contemporaneamente l’uno verso l’altro, guardandosi negli occhi il tempo sufficiente per capire che pensavano la stessa cosa. In quel breve lasso di tempo avrebbero dovuto trovare il modo per sottrarre  segretamente le spoglie di Bragadin.

- Il carico della Maria Vergine inizia domani mattina all’alba. Dal momento in cui sarà completato, potrai passare il tuo tempo come vuoi, in attesa che anche le altre navi siano caricate. Avrai già avuto modo di notare che ci s’ingegna molto, da queste parti, per non annoiarsi. E vedo che ti sei già trovato una guida. In ogni caso, se hai bisogno di qualcosa, puoi chiedere. –

  Girolamo decise di approfittarne.

- Una cosa ci sarebbe. –

- Dimmi pure. –

- C’è un modo sicuro per far passare di nascosto qualcosa alla dogana? – chiese Girolamo.

     Contarini, dapprima sorpreso, lo osservò con attenzione.

- Qualcosa? Che cosa, esattamente? –

- Qualcosa che i turchi preferirebbero non abbandonasse questo paese. –

- Non metterti nei guai, Polidoro. Qui sono molto severi con quelli che fanno i furbi.–

- Vorrei riportare a casa la pelle di Marcantonio Bragadin. –

     Il bailo schizzò in piedi con movimento fulmineo.

- Che cosa? Sei impazzito? – urlò.

- Non trovate giusto che ritorni a Venezia? – chiese Girolamo, pacatamente.

- Anche se fosse, non saprei nemmeno dove cercarla. –

- Io so dov’è. –

- E dove? –

- All’arsenale. –

- E come pensi di portartela via sotto il naso dei giannizzeri? – urlò ancora il bailo.

- Questo ancora non lo so. Ma vorrei il vostro appoggio. – disse Girolamo, niente affatto intimorito dalla sua violenta reazione.

- Non so proprio in che modo potrei aiutarti a compiere questa follia. Se i turchi ti scoprissero, ne verrebbe fuori uno di quegli incidenti diplomatici che ce ne ricorderemmo per un pezzo. Lascia perdere. Oltretutto, sei troppo giovane per rischiare la vita per una causa di nessuna utilità. -

- Voi ditemi soltanto come farla passare alla dogana, al resto ci penserò io. –

- Quello sarebbe l’ultimo dei problemi. –

- Bragadin è stato dimenticato. E questa è una grave ingiustizia. Bisogna porvi rimedio. Che abbia almeno una sepoltura dignitosa nella sua terra, quella per cui si è battuto ed è stato ucciso in maniera tanto orribile e vile. –

Contarini tornò a sedersi, incrociando le dita sulla scrivania davanti a sé, poi guardò Girolamo con curiosità per qualche istante, prima di parlare.

- Chi ti ha mandato? –

- Lo sapete chi mi ha mandato. –

- No, voglio sapere chi ti ha affidato questo incarico. Chi vuole che a Venezia si torni a parlare di Bragadin? –

- È stato lui a venirmi in sogno, chiedendomi di riportarlo a casa. -

     Il bailo lo guardò a lungo, valutandolo, poi sospirò.

- Non so davvero perché, ma ti credo. –

- Allora mi aiuterete? –

- Ti ho già detto che è una follia. Ma farò tutto quello che posso, anche se in questo momento non mi viene in mente una sola cosa che possa aiutarti. –

- Mi basta la vostra disponibilità. Se avrò bisogno di qualcosa, ve la chiederò. –

- Il tuo amico, qui, è anche lui implicato nell’impresa, vero? –

- Sì. Anche lui ha fatto lo stesso sogno. –

Il bailo li fissò entrambi, prima l’uno e poi l’altro, infine scosse la testa e sospirò di nuovo, come rassegnato.

- Per farla passare alla dogana, basterà un vecchio pastrano. – disse.

- In che modo? – chiese Girolamo.

- Nascondendola all’interno della fodera. –

Girolamo volse lo sguardo verso le finestre da cui si scorgevano il mare e la città in lontananza, con l’arsenale. Poi, tornò a guardare in faccia Contarini.

- Vi ringrazio. –

- Non fare sciocchezze, Polidoro. Sii molto prudente. Non avrei alcuna autorità per tirarti fuori dai guai. 

 

     Osman rimase in silenzio a lungo, poi si voltò verso Girolamo, che osservava le botteghe e le bettole lungo le quali passavano, e finalmente gli pose la domanda che si stava rigirando nella mente.

- Davvero speravi che il bailo avrebbe potuto fare qualcosa? –

- Non so, ci ho provato. –

- Te l’ho detto che non ha alcun potere a Costantinopoli. –

- Se sarà necessario, avremo almeno il suo aiuto. -

- L’idea del pastrano è buona, comunque. – commentò Osman.

- Devono averla già usata altre volte. –

- Credo che tu abbia ragione. Adesso torniamo in città. Voglio andare all’arsenale. –

Ad un tratto Girolamo si fermò davanti ad una bottega. Disse ad Osman di aspettarlo un momento e vi entrò. Poco dopo ne uscì con un pacchetto minuscolo, che infilò nella borsa.

- Ago e filo? – chiese Osman.

- Sì, è per buon auspicio. –

- Mi piace il tuo ottimismo. –

 

Una volta riattraversato lo stretto braccio di mare, si avviarono lungo la costa, passando davanti alla casa di Osman e proseguendo per un pezzo nella stessa direzione, fino a che non apparve una chiesa senza croce.

- Questa una volta era la chiesa di Sant’Irene. I turchi l’hanno trasformata in una parte dell’arsenale. All’interno ci sono i magazzini. Ho un amico che lavora qui. Spesso vengo a trovarlo. –

- Ti fanno entrare senza problemi? –

- A me sono abituati, ma tu è meglio che rimanga qui. Ci vado da solo. –

- Come vuoi. – disse Girolamo, rassegnandosi ad aspettare.

 

Osman trovò Luca nel magazzino.

- Dovrei parlarti. – gli disse.

- Parla pure, tanto quelli non sentono e comunque lo sai che non capiscono la nostra lingua. –

- Bragadin è sempre al suo posto? –

- Certo. Dove vuoi che vada? –

- Luca, voglio portarlo via da qui. –

- Sei impazzito? –

- No. C’è qualcuno disposto a riportarlo a Venezia ed il bailo ci darà appoggio. –

- Ma come si fa? Lo sai che anche di notte ci sono i guardiani a controllare l’arsenale.–

- Non avevi qualche amico, tra loro? Ricordo male? –

- Amico è una parola grossa. – sbuffò Luca.

- Senti, è passato tanto di quel tempo che di quelle spoglie non importa più niente a nessuno. Anche se sparissero, chi se ne accorgerebbe? Pensi che i guardiani si possano corrompere?–

- Perché, tu hai del denaro? –

- Io no, ma se è quello che serve, forse il bailo potrà darci una mano. –

- È pericoloso. –

- Lo so. Valuta tu. Se pensi che sia inutile, dovremo muoverci in un altro modo. –

- Quel modo è anche peggio. Bisognerebbe essere almeno il doppio di loro. Ce l’hai cinque amici disposti a rischiare la pelle? Tu sei impazzito, Andrea. Cosa diavolo ti è successo? –

- Ho sognato Bragadin. Mi ha detto che vuole tornare a Venezia. –

- È stato un sogno, Andrea. Uno stupido sogno! Ma mettere mano al pugnale contro tre giannizzeri addestrati all’uso della scimitarra, può diventare un incubo. E probabilmente sarebbe l’ultimo. –

- Non vorrei arrivare a tanto. So che a volte davanti all’oro possono dimenticare il loro compito, almeno per il tempo di intascarlo. -

- E va bene. Proverò a sondare il terreno. –

- Abbiamo poco tempo. –

- Mi metti anche fretta, adesso? –

- Fai quello che puoi, Luca. –

- Contaci. Domani ti faccio sapere. Torna qui alla stessa ora. –

 

      Girolamo si era preparato ad aspettare a lungo, forse per questo il ritorno repentino di Osman gli fece temere che non avesse trovato il suo amico.

- Tutto a posto. – disse, arrivandogli vicino.

- Gli hai parlato? –

- Sì. È disposto ad aiutarci. Proverà a sondare il terreno con i guardiani. Se chiuderanno un occhio in cambio di un po’ d’oro, ce la faremo. –

- Altrimenti? –

- Altrimenti bisognerà usare le armi. –

- Spero di no. –

- Anch’io lo spero. –

 

     Osman era silenzioso. Si chiedeva se fare tutto ciò sulla spinta di un sogno, non fosse una follia. Inoltre rifletteva sul dopo. Era rimasto a Costantinopoli per restare vicino alle spoglie di Bragadin. Ogni tanto andava all’arsenale, come si va al cimitero. Lo andava a trovare, gli parlava, toccava la botte dov’era rinchiuso, come avrebbe accarezzato una lapide. Luca lo capiva. Era anche lui un superstite di Famagosta. E non lo disprezzava per aver rinnegato la sua fede, poiché ne conosceva i motivi.

 

Quando Bragadin fosse stato lontano, Osman non avrebbe più avuto alcuna ragione per restare. Forse sarebbe finalmente giunto il momento di partire, andarsene altrove, trovare un luogo qualunque in cui mettere radici, lontano dal suo passato, voltando per sempre le spalle a quella parte tormentata della sua vita.

- A che pensi? – gli chiese Girolamo.

- A quello che farò dopo, quando questa storia sarà finita. –

- Perché non torni con me a Venezia? –

- Non te l’ho già spiegato? Non potrei mai tornarci. –

- È che mi dispiace lasciarti qui. – gli sfuggì, senza neppure capire perché l’avesse detto.

Osman lo guardò, con quello sguardo che gli scavava dentro, come volesse capire più di quanto le parole non dicessero.

- Me la caverò, non preoccuparti. – lo rassicurò.

- Domani tornerò dal bailo per chiedergli il denaro che ci serve. Spero che me lo conceda, visto che non può fare altro. –

- Speriamo che questo sia sufficiente. Altrimenti dovremo allenarci col pugnale. –

- Io ci so fare, non ho bisogno di allenarmi. – affermò Girolamo, tranquillamente.

Osman lo guardò per qualche istante, poi, con lo stesso effetto che fa il sole quando sbuca dalle nubi in una giornata di pioggia, sorrise. Girolamo ne restò turbato.

 

     Quella notte, nel buio, Osman ripensò alla richiesta di Girolamo. Tornare a Venezia. No, non poteva farlo. Non si sentiva più veneziano. Ma nemmeno turco. Non si sentiva di appartenere a nessun paese, a nessuna religione, a nessuna famiglia (aveva a malapena conosciuto la madre). Non aveva nessuno, non provava niente. In mezzo a questo vuoto assoluto, Girolamo era piombato nella sua vita come un vento di poyraz che soffia impetuoso dal nord, senza lasciare scampo. Si sarebbe portato via quel che restava di Bragadin, e con esso la sua unica ragione di vita. Eppure non provava alcun risentimento nei suoi confronti, anzi gli era grato. Forse, dopo tutto, lo stava liberando. Girolamo gli piaceva. Aveva un volto aperto ed un’espressione franca, che attiravano simpatia, lo sguardo curioso e sincero, diretto, che non sfuggiva mai all’indagine dell’altro. Non aveva timore di essere compreso, forse perché non nascondeva segreti. E dopo la sosta nell’hamam, nemmeno il suo corpo gli nascondeva più segreti. Era muscoloso e ben fatto e aveva notato che Alì si era molto divertito con lui. Si era quasi aspettato che gli applicasse quel suo trattamento speciale, che spesso i clienti gli richiedevano e che lui elargiva anche gratis a quelli che gli piacevano davvero. Come avrebbe reagito Girolamo?

 

     All’alba il molo del fondaco del grano era già in pieno fermento. Girolamo osservava tutto, intorno a sé, con l’impressione che ogni cosa fosse più nitida e brillante. Il mare era liscio come un telo di seta, il cielo era immenso ed azzurro, lontanissimo e puro. L’aria era profumata di salsedine. Ma fu una lunga giornata.

Soltanto al tramonto il carico della Maria Vergine fu completato. Prima ancora che la nave salpasse dal molo, per far posto alla Libeccio, che sarebbe stata caricata il giorno successivo, Girolamo era già partito in direzione del Palazzo del bailo.

Contarini lo accolse subito, sebbene, dalla montagna di carte che ricopriva la sua scrivania, Girolamo avesse subito compreso che doveva essere molto impegnato.

- Ci sono novità? – chiese il bailo.

- Probabilmente i guardiani dell’arsenale chiuderebbero gli occhi davanti ad una botte che rotola via, se potessero avere la borsa abbastanza piena. –

- Una botte? –

- La pelle di Bragadin è conservata in una botte. –

- Signore, che affronto! – mormorò Contarini.

- Spero proprio che stia per finire. -

- Sei sicuro di quello che fai? Non rischiate di infilarvi in una trappola? -

- Una trappola? Pare che a nessuno importi più niente di quelle spoglie. Credo che basterà corrompere i guardiani. Non ne ho ancora la conferma, ma Osman è andato là oggi, e stasera lo saprò. Altrimenti troveremo un'altra soluzione. –

Contarini non chiese quale fosse la soluzione alternativa. Non ce n’era bisogno.

- Se ti serve il denaro, lo troverò. – disse il bailo.

- Grazie, era quello che volevo sapere. Voi tenete pronto il denaro e noi verremo a prenderlo quando sarà il momento. –

- D’accordo, ma stai attento, Polidoro. –

- Starò attentissimo. –

 

      Girolamo andò a cercarsi un passaggio per la riva opposta. Già sentiva come un peso l’assenza di Osman al suo fianco. Non si capacitava di quello strano fenomeno che glielo rendeva così necessario. Ne attribuì la colpa al fatto di essere lontano da casa e dai suoi amici, ma poi si rese conto che si trattava di una falsa giustificazione. Non era la prima volta che affrontava un viaggio da solo.  In altri casi era stato assente da Venezia per periodi di tempo ben più lunghi, senza che questo lo avesse obbligato ad accompagnarsi a qualcuno, pur di scacciare la noia o la solitudine. Era qualcosa di diverso. Qualcosa che non gli era mai accaduto prima e a cui non sapeva dare né un nome, né una vera motivazione. 

 

     Osman era seduto davanti alla porta della sua casetta, come tante volte gli piaceva fare al tramonto. Guardava il mare solcato da una moltitudine di imbarcazioni d’ogni sorta, che si incrociavano in quello stretto braccio di mare chiamato Corno d’oro. Su una di quelle sarebbe arrivato Girolamo.

Poi lo vide. Passo da marinaio, che l’immobilità della terraferma sembrava quasi stupire, gli occhi a terra per seguire il sentiero e poi lontano a cercare una meta. E infine su di lui, con l’espressione di averla trovata. Uno splendido tramonto tingeva di sogno il paesaggio. Ne avrebbe visti altri, ma di quello avrebbe avuto nostalgia.

- Hai fame? –

- Non ho mangiato quasi niente tutto il giorno. – rispose Girolamo.

- Allora andiamo. Ho fame anch’io. –

- Hai incontrato il tuo amico? –

- Sì, a quanto pare uno dei guardiani ha perso tutto alle scommesse dell’ippodromo e adesso non vede l’ora di riempirsi di nuovo la borsa. Domani notte diventerà momentaneamente cieco. –

- Domani? –

- Sì, ci aspetterà ai cancelli. Se riusciremo ad arrivare fin qui, senza che nessuno ci veda, saremo a posto. –

- Bisognerà procurarci un pastrano. –

- Ci ho già pensato io. Invece bisognerà procurarsi il denaro. –

- A quello ci sta già pensando il bailo. –

- Glielo hai chiesto? –

- Sì, ed è d’accordo. –

- Forse, dopo tutto, il tuo ottimismo funziona. – affermò Osman, assestandogli una pacca sulla spalla.

 

       Il bailo di Venezia era certo di compiere la più grossa scempiaggine della sua carriera, ma Girolamo Polidoro, con quella specie di candore che solo i giovani innocenti possiedono, lo aveva convinto. Si era anche informato sulla sua guida, e una volta scoperto che si trattava di quell’Andrea, servitore di Marcantonio Bragadin, che lo aveva seguito fino all’ultimo, a Famagosta, non potè che arrendersi. Sì, forse stava facendo una sciocchezza, ma quei due avevano la determinazione e la stoffa per riuscire là dove le sottigliezze diplomatiche non sarebbero mai arrivate. Quel mattino consegnò loro una borsa moderatamente pesante. Sapeva che sarebbe bastata. Il bailo non era esperto soltanto delle valutazioni di grano e velluti. Una delle prime cose che si imparavano assumendo la sua carica, era il prezzo del silenzio, una merce che si negoziava assai più di quanto non si fosse propensi a credere.

 

- Non avrei mai immaginato che riuscissi a convincere il bailo a sborsare una somma per corrompere i turchi. Sei incredibile. – disse Osman.

- C’eri anche tu quando gli ho parlato. Si è convinto da solo che è la cosa giusta da fare. –

- Non è vero. A convincerlo sono stati la tua onestà e il tuo sguardo sincero. –

A quelle parole di apprezzamento, Girolamo provò un intenso calore. Temette di arrossire ed ammutolì.

Osman comprese di averlo turbato ed anche lui si chiuse nel silenzio.

Ripeterono la loro traversata con il mare leggermente mosso. Durante la mattina s’era alzato un lieve vento da nord, che aveva decisamente raffreddato l’aria.

  Una volta entrati nella casetta di Osman, Girolamo gli chiese:

- Secondo te, come saranno le condizioni della pelle di Bragadin, dopo tutto questo tempo? –

- Non lo so, non abbiamo mai potuto riaprire la botte per controllare. La pelle è ancora imbottita di paglia. –

- La svuoteremo qui? –

- Sì, credo sia la cosa migliore. L’importante è che non ci veda nessuno con quella botte. –

- La fortuna ci aiuterà. –

- Oppure una barca. Seguire il sentiero mi sembra troppo pericoloso. – disse Osman.

- Ti sei procurato una barca? –

- Sì, me la presta un pescatore che abita qui di fianco. –

- È magnifico. –

- Non ne sono troppo convinto. Andare per mare con questo vento, al buio… -

- Ma c’è la luna! –

  Osman rise.

- Non ti arrendi mai, vero? –

- Solo quando non c’è più speranza. –

  Osman si rattristò all’improvviso.

- Anch’io, una volta, ero come te. –

- Neanche tu ti sei arreso. – affermò Girolamo, comprendendo a cosa stesse pensando.

  Osman sospirò.

   Afferrandolo per entrambe le braccia, Girolamo mormorò:

- Non guardare più indietro, Andrea. Ogni volta che lo farai, ritroverai intatti quell’angoscia e quel dolore. –

Sentirsi chiamare Andrea gli procurò una strana emozione. Era come tornare ad un altro se stesso che aveva smarrito da tempo. Anche il calore delle mani che gli stringevano le braccia gli trasmetteva un tenero turbamento. Avrebbe voluto che Girolamo lo abbracciasse.

- Girolamo… -

Lo sguardo di Osman era meno triste ora, ma faceva venire a Girolamo voglia di abbracciarlo, proprio come si fa con un bambino da consolare. Lo guardò ancora per un istante negli occhi e poi, con l’impressione di tuffarsi in mare aperto, lo abbracciò.

 

      Il vento aveva trascinato via le nuvole e poi era calato. La luna splendeva davvero. Vedendola, Osman sorrise. Andarono a prendere la barca e remarono con foga fino all’arsenale, nel più totale silenzio. Accostando alla bassa scogliera dovettero fare molta attenzione alla risacca che rischiava di sbatterli a riva.

  Quando arrivarono al cancello non c’era nessuno.

Osman fischiò. Una volta sola. Poco dopo videro apparire uno dei guardiani, che portava una torcia.

- Cosa cercate a quest’ora? –

- Sono un amico di Luca. – disse Osman.

- Ah, sì, quello che voleva comprare una vecchia botte. –

- Hai indovinato. –

- Però costa cara. –

- Questo può bastare? – disse Osman, lasciandogli vedere la borsa tintinnante.

- Dipende da cosa c’è dentro. –

Osman sciolse i lacci e mostrò il contenuto al chiarore della torcia.

- Aspettate qui. – disse il guardiano.

- Non vuole dividere con gli altri, a quanto pare. – mormorò Girolamo, quando si fu allontanato.

- Meglio così, questo significa che non dovremo neppure entrare. –

   Poco dopo tornò il guardiano, rotolando una botte davanti a sé. Aveva abbandonato la torcia, ma era evidente che conosceva bene la strada. Aprì il cancello e la spinse fuori, quindi allungò la mano con gesto veloce verso la borsa che Osman gli tendeva, facendola scomparire come per magia.

- Io non vi ho mai visto. – dichiarò, allontanandosi in fretta.

Osman e Girolamo si mossero anche loro, rotolando la botte verso il luogo dove la barca li attendeva.

Il sentiero era deserto. Caricarono la botte sulla barca e ricominciarono a remare in direzione opposta. Il mare non era tranquillo. Benché il vento fosse calato, vicino alla costa risentiva della vecchia risacca. All’improvviso nuove nubi nascosero la luna, sprofondandoli nel buio più completo. Smisero di remare.

- Bisogna accendere la lanterna. – disse Girolamo.

Come in risposta, videro una luce e sentirono alcune voci. Trattenendo il respiro, scorsero tre uomini a cavallo, diretti all’arsenale. Percorrevano il sentiero che seguiva la costa, illuminandosi il cammino con una lanterna.

Entrambi ebbero lo stesso pensiero. Se fossero andati a piedi, li avrebbero incrociati. Probabilmente si trattava del cambio dei guardiani. Una delle possibilità di cui stupidamente non si erano informati, né tantomeno preoccupati. Gli uomini li superarono senza accorgersi di loro. Poi la debole luce sparì dietro la curva.

- C’è mancato poco. – mormorò Girolamo.

In quel momento la luna sbucò nuovamente dalle nuvole, rendendoli ben visibili.

- C’è mancato davvero poco. – ribadì Osman, detergendosi il sudore dalla fronte.

 

      Quella notte, molto più tardi, mentre la luna continuava a giocare con le nuvole, una botte piena di vecchia paglia si ritrovò a galleggiare sul Corno d’oro, in direzione di Galata.

  Non era stato facile. Per nessuno dei due.

   Osman si era sentito male ed era corso fuori a vomitare.

Girolamo non sapeva cosa fare, ma avrebbe voluto risparmiargli quel nuovo dolore, perciò decise di raggiungere Osman all’esterno, per convincerlo a lasciarlo fare.

- Resta qui, Andrea. – gli sussurrò – Ci penso io. –

- No, - rispose Osman, che si era ripreso – non sarebbe giusto.–

- Giusto o sbagliato, tu resterai qui.  Prendi un po’ d’aria. Ti farà bene. –

Osman lo abbracciò con trasporto. Ed era spinto da qualcosa di più che semplice gratitudine.

- Non c’è bisogno. Mi sento meglio, adesso. –

- Sei cocciuto come un mulo. – bisbigliò Girolamo.

- Lo so. –

All’interno della casetta, il fantoccio aspettava, disteso su un telo, come se dormisse.

- Finisco io di scucirlo. – disse Girolamo, brandendo un coltellino che aveva estratto dal fondo della sua sacca.

  Osman lo osservava, pallido in volto.

La pelle era simile a pergamena, con i capelli e i peli biondicci ancora attaccati al loro posto. Erano stati quelli ad impressionare tanto Osman, oltre a tutti i tremendi ricordi che lo avevano di colpo sopraffatto. Girolamo, dopo un primo momento di sbigottimento, si era detto che era tutto normale. Se l’era detto come un pazzo si dice di non essere pazzo. Gli serviva solo per convincere se stesso.

Quando la scucitura fu abbastanza larga, Girolamo iniziò a tirarne fuori la paglia e la bambagia che la riempivano. Man mano li gettava nella botte, mentre Osman, incapace di compiere anche un singolo gesto, si limitava ad osservarlo, da debita distanza, seduto sul tappeto.

  Girolamo lo guardò, accorgendosi che era sfinito.

- Vai a dormire, Andrea. Sei distrutto dalla stanchezza. –

- Non posso. Bisogna finirla. –

- Finisco io. Tu dormi. –

- Non potrei chiudere occhio. Sarebbe inutile. –

- Allora vai a prendere un po’ d’aria. –

- Dopo. Dopo andrò a gettare in mare la botte. –

Girolamo sospirò e continuò il suo lavoro. Svuotare braccia e gambe fu la parte più difficile. Per raggiungere l’imbottitura alle estremità, dovette infilarci il braccio, come in una manica, fino in fondo. Osman rabbrividì e finalmente si decise a tornare fuori.

Una volta finito, Girolamo afferrò la botte e la portò all’esterno.

- Adesso tocca a te. – disse ad Osman.

- Vediamo dove tira la corrente. – rispose lui, allontanandosi verso il bordo della scogliera e scagliando lontano il coperchio.

Al buio sembrò che il mare lo avesse inghiottito, invece, poco dopo, affiorò in superficie, come una piccola macchia chiara che si allontanava verso il largo.

- Insieme? – disse Girolamo.

- Insieme. –

Fecero dondolare un paio di volte la botte e poi, preso lo slancio, la scagliarono in mare.  All’impatto con l’acqua fece un rumore secco, come un piccolo scoppio. Entrambi si immobilizzarono, trattenendo il fiato. Ma il silenzio rimase totale. Nessuno aveva sentito. Girolamo avvolse con un braccio le spalle di Osman e lo trascinò in casa. Aveva riposto la pelle in un cassone, avvolta tra due teli, per evitare che Osman la vedesse di nuovo.

- E adesso dormiamo. – gli disse, col tono di un ordine.

- Sì, adesso sì. –

Osman spense la lanterna e si distese accanto a Girolamo, molto più vicino della notte precedente.

- Scusami. Non ti sono stato di molto aiuto. –

- Non c’è niente di cui tu debba scusarti. Al posto tuo, io sarei rimasto là fuori per tutto il tempo. –

- È stato più forte di me. Dovevo vedere. –

- Adesso dormi. – gli sussurrò, stringendogli una mano.

 

       La mattina successiva si recarono dal bailo per rassicurarlo che era andato tutto bene. Paolo Contarini pensò che certe follie riescono solo ai pazzi o ai bambini, ma quei due non appartenevano a nessuna di quelle categorie. C’era qualcosa nel modo in cui avevano affrontato e compiuto quell’assurda impresa, che li accomunava a semplici emissari di un destino prestabilito, che un’entità superiore aveva disposto dovesse trovare esecuzione. Inconsapevolmente eroici, nella loro incosciente giovinezza, per un attimo il bailo li invidiò.

- A chi la consegnerai, una volta a Venezia? –

- Ai frati della mia parrocchia. – rispose Girolamo.

- Il posto giusto, per un martire. – commentò il bailo.

- Grazie per averci aiutato. –

- Credo sia stata la cosa più giusta che abbia mai fatto. – affermò Contarini.

 

       Quella sera iniziarono il loro lavoro di sarti. Osman osservava i movimenti sciolti e precisi con cui Girolamo scuciva i fitti punti di sutura del vecchio mantello, con il suo piccolo pugnale affilato. Agli stranieri era vietato aggirarsi in città armati. Ma quello era uno strumento talmente inoffensivo che sarebbe comunque passato inosservato. Osman non ne possedeva uno di dimensioni tanto ridotte, quindi si limitò a guardarlo.

- Quando sarà il momento di ricucirlo, ti potrò dare una mano.– gli disse, sentendosi inutile.

- Non preoccuparti, finirò in fretta. Piuttosto, questa stoffa è troppo grezza. Temo che la pelle si possa rovinare. – affermò Girolamo.

- La cuciremo dentro i teli che la custodiscono ora. –

Girolamo sollevò lo sguardo per un istante, approvando con un semplice sorriso. Era sufficiente per comunicargli che era d’accordo. Osman si rese conto che non era la prima volta. Spesso si capivano al volo, senza parlare. Erano molto vicini, più di quanto non si fosse sentito con chiunque altro avesse conosciuto. Era rassicurante. Girolamo aveva fatto cadere le sue barriere e non si era neppure accorto del momento in cui era accaduto.

Osservando i suoi movimenti, ne rimase come affascinato. Le sue mani si muovevano in modo preciso, con un ritmo calmo ma implacabile, il capo chino sulla stoffa nera, mentre la luce della lanterna si rifletteva sul suo volto, lasciandone in ombra una parte.

Una goccia di sudore si affacciò all’attaccatura della sua fronte. Osman, senza rifletterci, gliel’asciugò con le dita.

Girolamo si immobilizzò per un attimo. Lo fissò negli occhi, senza sorridere. Il calore di quello sguardo costrinse Osman a trattenere il respiro. Sembrò che Girolamo volesse dire qualcosa, ma poi abbassò lo sguardo, ricominciando a scucire la fodera. E Osman tornò a respirare.

 

      Girolamo non riusciva ad addormentarsi. Neppure Osman, accanto a lui, dormiva. Ascoltando il suo respiro, intuiva che non era quello profondo e regolare del sonno. Si voltò a guardarlo. Nell’incerto chiarore che giungeva dalle finestrelle alte, notò che aveva gli occhi aperti. Il suo profilo puro, come quello di una statua classica, gli entrava nella memoria e nel cuore allo stesso tempo. Vedeva il lieve movimento del suo torace espandersi nel respiro. Avrebbe voluto toccarlo, accarezzarlo. L’idea di doversene separare gli procurava una fitta di dolore. Perché? Come poteva significare tanto per lui, dopo appena cinque giorni? Ma davvero erano già trascorsi cinque giorni?

     Anche Osman si voltò verso di lui.

- Neppure tu riesci a dormire? –

- No. – rispose piano Girolamo.

- Domattina non riusciremo a svegliarci. –

- Vorrà dire che dormiremo fino a tardi. Chi ce lo può impedire? 

- Sono contento di averti conosciuto, Girolamo. –

- Anch’io, ma l’idea di dovermene andare presto… -

     Osman si avvicinò a lui. Le sue mani gli strinsero il viso.

- Anche a me dispiace che tu te ne vada. –

- Vieni con me. – lo pregò.

- Non posso. –

Girolamo si avvicinò ancora di più. Ora, tra le loro labbra c’era solo lo spazio di un sospiro.

- Non so cosa mi stia accadendo. – mormorò Girolamo.

- Quello che doveva accadere. – rispose Osman, appoggiando le labbra alle sue.

Fu davvero una notte molto lunga, durante la quale Girolamo diede finalmente un nome a ciò che provava: attrazione e desiderio. Gli stessi che già si erano trasmessi ad Osman, come per contagio. Fu lui a riaccendere il lume.

- Voglio vederti. – gli disse.

Qualunque cosa la vita gli avesse offerto, tragica o splendida, Osman aveva sempre voluto guardarla bene in faccia. E poiché il destino si era accanito a mostrargli tutti gli orrori possibili, ora voleva goderne anche gli splendori. Girolamo era bello. Osman voleva ricordarselo, tra le ombre ed i sospiri, con i muscoli guizzanti, la schiena marmorea, i glutei perfetti e la nuca modellata, offerti ai suoi baci e ai suoi morsi. Con il riflesso di quella luce tenue e giallognola, voleva ricordare come, lentamente, lo avesse penetrato, con il cuore che gli martellava impetuoso nel petto, mentre l’emozione lo investiva inesorabilmente. Voleva ricordarne i gemiti ed il momento in cui aveva dovuto chiudergli la bocca con la mano, mentre urlava il suo nome, Andrea, per evitare che lo udissero nelle case vicine. Fu davvero una notte molto lunga.

 

      Al risveglio Girolamo aveva il cuore gonfio. Una gioia sottile lo pervadeva. Ma un’ombra nera si profilava all’orizzonte, una nube che si stava velocemente caricando di pioggia. Il tempo gli sfuggiva. Il pensiero di dover presto partire, gli impediva di essere davvero felice. Lo turbava profondamente.

Approfittando della luce del mattino, Osman era già al lavoro. Consapevole che Girolamo aveva compiuto, fino ad allora, la maggior parte del lavoro, aveva approfittato del suo sonno prolungato per ricucire le spoglie all’interno dei teli bianchi. Nello stesso tempo aveva dato l’ultimo addio a Marcantonio Bragadin. Qualunque cosa ne fosse stato, lui non ne avrebbe più avuto né responsabilità, né merito.

Girolamo si svegliò quando Osman aveva ormai completato la sua fatica. Lo vide, comprese e gliene fu grato. Viaggiare portando in spalla la sua sacca, ben cosciente di cosa contenesse, era già abbastanza difficile, anche senza dover ricordare il momento in cui era stata prelevata dal cassone e cucita nel suo sudario. Quello era un ricordo che sarebbe rimasto ad Andrea.

I giorni erano volati. Osman lo aveva condotto in giro per la città, mostrandogliene tutti gli angoli più affascinanti, dalle porte alle moschee, dai serragli alle fontane.

Erano entrati nei caffè affollati, ascoltando la musica e le chiacchiere, che Osman gli aveva tradotto in un orecchio. Avevano osservato i funamboli che si esibivano nei mercati di quartiere; all’ippodromo avevano scommesso sulle corse dei levrieri e sui combattimenti degli arieti. Si erano fatti strapazzare negli hamam, a cui Girolamo aveva preso gusto. Avevano persino passeggiato nei giardini. E tutto questo ormai era finito. Avevano giusto il tempo di terminare quel loro strampalato lavoro di sartoria. Il giorno successivo sarebbe partito.

Appoggiarono con cura il sudario all’interno del mantello, fermandolo con pochi punti, quindi ricucirono la fodera al suo posto, insieme, l’uno di fronte all’altro, sollevando ogni tanto lo sguardo da quel nero che li accecava. Quand’ebbero finito, arrotolarono con cura il pastrano, in modo che non si formassero pieghe e lo inserirono nella sacca, che ne risultò piena a metà. Girolamo avrebbe lasciato da Osman quegli indumenti che non potevano più trovarvi posto. Alla fine dell’opera si guardarono negli occhi.

- È fatta. –

- È fatta. –

- Anche se alla dogana mi frugassero nei bagagli, non troverebbero niente. –

- Ce la farai a comportarti con naturalezza? –

- Sì, ormai mi sono abituato all’idea. Non mi sconvolge più. –

- Durante il viaggio stai attento a non farla bagnare. –

- Non ti preoccupare. Arriverà a Venezia così com’è adesso. -

- Qual è la tua parrocchia? Non me l’hai mai detto. –

- San Gregorio. –

- Ah, sì, la conoscevo bene. Quando sapranno che i resti di Bragadin sono a San Gregorio, i suoi parenti vorranno rientrarne in possesso. Lascia che ci pensino loro. Una volta consegnate le spoglie, il tuo compito sarà finito e potrai tornare alla tua solita vita. –

Quale vita? All’improvviso Girolamo si voltò indietro a guardarla e gli sembrò un capitolo chiuso. Avrebbe dovuto iniziarne un altro, ma non riusciva a vederlo.

Viaggiare era sempre stato il suo sogno. Andare per mare e per terra, Adriatico, Mediterraneo, dove? Magari nelle Americhe. Ovunque fosse andato avrebbe sentito mancargli qualcosa. Lo sapeva, ma non poteva porvi rimedio. Andrea non voleva seguirlo.

 

      Quel giorno uscirono soltanto per fare provvista di cibo. Per il resto, si nutrirono l’uno dell’altro in una frenesia che li lasciò stanchi e spossati, eppure insaziati. 

Girolamo preparò la sua sacca sotto lo sguardo rattristato del compagno.

- Andrea, non fare quella faccia. Potresti venire con me. –

- Non posso. Mi dispiace. –  

- Dispiace più a me. – mormorò Girolamo, contrariato.

- Non dire sciocchezze. –

     Girolamò alzò la voce, irritato.

- Si può sapere cosa ti lega a questa terra? Perché non vuoi lasciarla? –

- La lascerò, invece. Ma non tornerò mai a Venezia. Ai primi freddi me ne andrò verso Ragusa. So che si sta bene da quelle parti. –

- Sei cocciuto come un mulo. – ribadì Girolamo, per l’ennesima volta.

- Hai ragione. Me lo diceva anche Bragadin. –

     Girolamo sospirò.

- Ti penserò. –

- Dimenticami, invece. Sarebbe più saggio. –

- La saggezza e l’amore non sono mai andati d’accordo. –

- Amore? – mormorò Osman, stupito.

- E cosa pensi che provi per te? –

- Ci siamo appena conosciuti. – replicò Osman, incerto.

- Beh, a me è bastato. – affermò Girolamo, con convinzione.

     Osman gli afferrò le mani.

- Per me la nostra amicizia è già fin troppo. Il tuo arrivo ha sconvolto la mia vita. Ora che porti via quel che resta di Bragadin non avrò più alcun legame con questa città, ma non ho neppure altri affetti che mi spingano altrove. Ho intorno il vuoto, non ho più nulla a cui aggrapparmi. Quando tu sarai partito, dovrò ricostruire tutto da capo. –

- Ma non capisci, Andrea? Sono io il tuo legame. Vieni con me. –

- Non posso. -

- Vorrei che accadesse un miracolo, prima dell’alba. –

- Ma qui siamo in terra ottomana. Da queste parti non accadono miracoli.–

Girolamo lo abbracciò. Aveva poco tempo. Tutto quello che provava con Andrea era meraviglioso e straziante. Sarebbe stato meraviglioso se avesse davvero fatto parte del suo futuro, invece era tragico perché quella sarebbe stata la fine. La disperazione che sentiva crescere dentro di sé, aumentava mano a mano che il momento della partenza si avvicinava. Ed ora aveva bisogno di provare nel corpo lo stesso straziante dolore che sentiva nell’anima e nel cuore. Pregò Andrea di entrare in lui con forza, con violenza, come fosse una punizione, il castigo che si era meritato per essersi innamorato di lui. Andrea non comprese, ma agì come gli chiedeva. Girolamo non ne voleva provare piacere, ma solo essere usato, abbandonandosi unicamente al dolore. Invece il piacere che provò fu quasi insopportabile e lo lasciò del tutto inebetito. Nello stesso tempo, esplodendo dentro di lui, parve ad Osman che il mondo sprofondasse per sempre. Quegli incredibili momenti non si sarebbero più cancellati dalla loro mente.

Quella notte Girolamo non chiuse occhio, mentre Osman rimase abbracciato a lui anche nel sonno, imprigionandolo in una stretta da cui non avrebbe potuto sciogliersi neanche volendo. Ma tanto, Girolamo non lo voleva.

     All’alba se ne andò, rifiutandosi di farsi accompagnare.

- Resta qui, conosco bene la strada. – gli disse, con una freddezza che era ben lungi dal provare e che gli serviva da scudo per la commozione che invece lo stava travolgendo.

- Girolamo, mi mancherai. –

- So che esiste una cura. –

- Non posso. –

Girolamo lo guardò per l’ultima volta e non fu in grado di regalargli nemmeno un sorriso.

     

     La prima cosa di cui provò nostalgia fu il caffè. Girolamo ne aveva bevuta ancora qualche tazzina a bordo della galea, che aveva ospitato due mercanti turchi, per una parte del viaggio. Quando ne aveva sentito il profumo, si era avvicinato a loro, che possedevano un fornello su cui potevano scaldarsi il cibo. Nella lingua franca, con una spudoratezza che non si conosceva, aveva chiesto loro di poterne bere anche lui. I due avevano apprezzato il suo interesse e glielo avevano offerto con l’orgoglio di chi ha inventato un rimedio che cura tutti i mali.

No, non tutti. La lontananza da Andrea era sempre una spina velenosa conficcata nel cuore. In alcuni momenti il dolore gli impediva persino di respirare.

Il viaggio fu un lungo tormento, che visse a malapena consapevole di trovarsi in mezzo al mare.

Appena sbarcato, si diresse a San Gregorio, senza pensarci un attimo.

Fra’ Lorenzo lo conosceva sin da bambino, ma trovandoselo davanti all’improvviso, con la barba lunga, i capelli spettinati, i vestiti stazzonati, l’aria sporca e disperata, in un primo momento lo scambiò per un mendicante.

- Fratello, c’è la casa del pellegrino, se vuoi ripulirti un po’ e ricevere un pasto caldo. Ti indico dov’è. –

- Fra’ Lorenzo, sono Girolamo Polidoro. Non mi riconoscete? –

     Il frate lo osservò più attentamente, stupito.

- Girolamo, ma da dove vieni? Dall’inferno? –

- Non proprio. Sono sbarcato adesso. Era necessario che prima di tutto venissi qui. Devo consegnarvi una cosa che ho portato da Costantinopoli.–

Così dicendo, aprì la sua sacca e ne prelevò con la massima attenzione il pastrano. Poi lo distese su un fratino e con il suo coltello iniziò a scucirne le due fodere, mentre il frate lo osservava. Fece molto in fretta, perché i punti con cui le avevano ricucite erano piuttosto radi e lenti.

- Vi ricordate di Marcantonio Bragadin? – chiese Girolamo.

- Certamente. –

- Sapete che cosa ne è stato del suo corpo? –

- Sì, mi ricordo anche di questo, purtroppo. –

- Ebbene, qualcosa di lui è rimasto ed io l’ho riportato a casa. Vi consegno la pelle di Marcantonio Bragadin, perché ne facciate quel che è giusto. Il suo nome deve essere ricordato. È morto per Venezia. –

Quindi Girolamo sollevò la fodera e poi anche il telo di stoffa che custodiva la pelle. Nonostante l’attenzione prestata, vi si erano prodotte numerose crepe, ma per il resto era come se la ricordava.

Fra’ Lorenzo rimase senza parole per qualche momento, poi, dopo una benedizione e una breve preghiera, la ricoprì di nuovo con il telo.

- Va bene, Girolamo. Contatterò i suoi familiari. Sono certo che lo apprezzeranno molto e te ne saranno grati. Ma come hai fatto a   ritrovarla? –

- Non sono stato io. Andrea, il suo servitore, sapeva dove trovarla. –

- Dunque quel povero ragazzo si è salvato. Ne sono contento. –

- Voi lo conoscevate? –

- Sì, certo. Era anche lui di questa parrocchia, non te lo ricordi? –

No, Girolamo non se lo ricordava e Andrea non glielo aveva detto.

- Ma certo, era difficile che vi poteste incontrare. Lui era un orfano che abbiamo fatto entrare come paggio da Marcantonio. Poi, crescendo, è diventato il suo servitore. Ma non era trattato come tale. Marcantonio gli era molto affezionato, era il suo pupillo. Non se ne separava mai. Per questo si ritrovò con lui anche a Famagosta, durante quel terribile assedio. –

- Ma perché Bragadin è stato abbandonato? Per undici mesi hanno   aspettato aiuti da Venezia. Se fossero arrivati, forse le cose sarebbero andate diversamente. –

- Per quel che ne so io, che non è molto, le poche navi che sarebbero riusciti a mettere insieme, non sarebbero state che una goccia nel mare. Era necessario costituire una grande flotta, ma questo è accaduto soltanto dopo che Famagosta era ormai perduta. Eppure quella sconfitta è servita, Girolamo, perché al racconto di quanto era successo là, gli animi si sono infiammati e la battaglia successiva, a Lepanto, ha finalmente visto la vittoria dei cristiani sull’impero ottomano. Senza il sacrificio di Bragadin, e di tutti gli altri che erano con lui, forse questo non sarebbe stato possibile. - 

- E Andrea non ha più nessuno qui a Venezia? –

- Che io sappia, no. –

- Va bene, Fra’ Lorenzo. Adesso credo che andrò a ripulirmi un po’. –

     Girolamo guardò per l’ultima volta il pastrano.

     -    Stai tranquillo. Lo lasci in buone mani. –

     -    Lo so. – disse Girolamo, congedandosi.

La seconda cosa di cui ebbe nostalgia fu un hamam in cui andare a ripulirsi.

 

      Sul Corno d’oro i vascelli andavano e venivano con le vele tese da un vento incostante. Ormai l’estate era giunta ed il calore intenso faceva tremolare le immagini a pelo d’acqua, fondendo luci e colori. Osman li osservava. Quando non era occupato, non faceva nient’altro. Come al solito, accompagnava gli stranieri attraverso la città, conducendoli nei luoghi consueti. Questo non era cambiato. Del tutto nuova era invece la sensazione di essere scortato da una perenne assenza di entusiasmo. Si sentiva svuotato. Neppure la notte gli portava sollievo. Anzi, era forse il momento peggiore. Non riusciva a dormire. Smaniava, in un desiderio che non poteva trovare compimento e che una volta lo aveva istigato a fare una sciocchezza di cui in seguito si era pentito. Aveva tirato fuori dal cassone gli abiti che Girolamo aveva dovuto abbandonare e li aveva imbottiti di cuscini, in una terribile imitazione del fantoccio di Bragadin. Se li era messi al fianco, nel buio quasi totale della notte, immaginando che Girolamo gli fosse accanto. Aveva persino posato il braccio su quel petto che non respirava, che non diffondeva il minimo calore, in un abbraccio che non poteva essere ricambiato. Eppure, da principio, ne aveva tratto conforto. Una consolazione che rasentava la follia, certo, ma non ne aveva trovata un’altra, sul momento, anche se poi aveva dovuto sfogare solitariamente il suo torturante e frustrato desiderio. Se già prima Girolamo gli mancava immensamente, la bravata di quella notte riuscì semplicemente a peggiorare le cose. Si era pentito di non avergli confessato i suoi veri sentimenti. Forse, se li avesse conosciuti, Girolamo avrebbe deciso di ritornare da lui. La saggezza non è mai andata d’accordo con l’amore, gli aveva detto. Era vero. Avrebbe dovuto rispondergli che anche lui lo amava. Era la prima volta. Non aveva mai amato, prima di incontrarlo. Eppure qualcosa glielo aveva impedito. Uno stolto pudore, o forse un insensato sentimento di inutilità. Perché mai Girolamo avrebbe dovuto cambiare la sua vita per lui? Troppo tardi Osman aveva compreso che lui invece avrebbe potuto facilmente cambiare la sua, pur di restargli accanto. Troppo tardi. Né saggezza né amore potevano riportare indietro il tempo, né tantomeno Girolamo. I suoi errori sarebbero rimasti a lastricare la strada del suo vuoto e solitario futuro.

 

      Notte profonda e nera, senza luna. Notte di caldo intenso, da sudare senza alzare un dito. Notte silenziosa e greve.

Osman sognava. Girolamo era nudo di fronte a lui, con l’espressione delusa e mesta che aveva il giorno in cui era partito. Finalmente poteva parlargli, confessandogli i suoi veri sentimenti. Ma Girolamo non lo sentiva. Gli aveva teso le braccia, ma non era riuscito a toccarlo. Osman, deluso, aveva allungato le sue, ma inutilmente.

Girolamo sognava. Andrea era nudo di fronte a lui, con un sorriso di scuse, come la prima volta che lo aveva visto. Gli vedeva muovere le labbra, ma, come fosse sott’acqua, le sue parole non lo raggiungevano. Si slanciava verso di lui in un abbraccio, ma Andrea era un fantasma immateriale che non poteva toccare e che invano gli tendeva le braccia incorporee.

Notte profonda e nera, in cui il destino si diverte.

 

      Piazza San Marco era il gioiello di Venezia. Si diceva che là fosse il centro del mondo, eppure Girolamo era convinto che quel centro si trovasse altrove, a Costantinopoli, per l’esattezza. Una città di sogno, disseminata di moschee e minareti svettanti, dove cinque volte al giorno si innalzavano i canti dei muezzin, mentre tutto si fermava; dove si potevano trovare ad ogni angolo mescite di caffè, hamam o taverne; dove c’era un mercato che occupava un intero quartiere, un immenso Rialto, città nella città; dove splendore e miseria convivevano senza intralciarsi l’un l’altra; dove si trovavano incredibili guide di cui ci si poteva inutilmente innamorare. Il ricordo di Andrea lo perseguitava ovunque, in qualunque momento. Ogni volta che guardava il mare, si ricordava dei suoi occhi. Voleva dimenticarlo e voleva tenerlo dentro di sé.

La grande risonanza che aveva avuto il ritorno delle spoglie di Bragadin, lo aveva fatto festeggiare come un eroe. Si era ritrovato mille volte a ripetere che il merito non era suo, bensì di Andrea e del bailo Contarini, ma questo non importava a nessuno. Poiché, di tutti loro, solo Girolamo era presente, doveva essere lui il festeggiato. Eppure ogni volta sentiva Andrea accanto a sé.

All’improvviso Venezia sapeva di stantio e di muffa. Girolamo avrebbe voluto andarsene. Ma dove? Ogni luogo ormai gli sembrava privo di interesse. Provava un’intensa nostalgia per Costantinopoli o era solo la nostalgia di Andrea? L’estate era ormai finita e lui non sapeva ancora cosa fare. Restare? Partire? Nessuno dei suoi amici lo comprendeva, ma non poteva certo biasimarli, dal momento che non si capiva lui stesso.  

Una notte in cui si era ritrovato ubriaco sul Gran Canal, dopo uno dei soliti festeggiamenti, era salito su una gondola e si era sdraiato a guardare il cielo, dondolando sulla placida risacca. Uno spicchio di luna occhieggiava tra le nuvole, ricordandogli un’altra notte come quella, a Costantinopoli. 

La vedi anche tu, Andrea, questa luna? Vorrei che fossi qui, accanto a me, vorrei poterti abbracciare ancora, in questa luce incerta, vorrei baciarti a lungo e dirti che non mi importa se non mi ami. Il mio amore può bastare per tutti e due.

Fu quella notte, perdutamente ubriaco, smisuratamente infelice ed estenuato da un desiderio inguaribile, che infine Girolamo decise.

 

      Quel mattino Osman stabilì che sarebbe partito. Avrebbe davvero lasciato Costantinopoli per trasferirsi a Ragusa. Cosa avrebbe fatto là, non era importante. Poteva sempre offrirsi come interprete. Di mercanti turchi ce n’erano ad ogni scalo. Guardava il mare grigio che si levava con inaudita violenza, biancheggiato dalle furiose creste di onde che si abbattevano su altre onde. Branchi galoppanti di nuvole nere conquistavano il cielo, mentre improvvisi lampi saettavano lontano, all’orizzonte, e possenti tuoni rimbombavano riecheggiando all’infinito. Quel mare e quel cielo gli assomigliavano.  

Dove sarà Girolamo? Forse un giorno ci incontreremo ancora. Chissà, magari proprio a Ragusa. Lui che ama tanto viaggiare, ci passerà di sicuro, prima o poi.

In quello stesso momento, a Venezia, era una giornata splendida, di quelle che anche l’autunno sa regalare, col cielo terso di uno sfolgorante azzurro, interrotto soltanto dalle traiettorie bianche dei gabbiani. Le calli, spazzate dal leggero vento di tramontana, sapevano di pulito e di nuovo. I colori vibravano. Piazza San Marco scintillava di ori e lapislazzuli, mentre una folla eterogenea di curiosi e marinai gremiva i moli. Finalmente la galea per Costantinopoli era pronta a salpare.

Determinato a non voltarsi più indietro, Girolamo Polidoro si imbarcò senza salutare nessuno e nessuno a Venezia lo rivide mai più.

 

     Di nuovo, Costantinopoli apparve all’improvviso. Lo colpì, spinto dal vento, l’olezzo forte delle concerie e dei macelli. E ancora, la sensazione dell’aria che brillava, anche se il sole filtrava a malapena da ammassi di nubi che sembravano lanugini di cotone sporco. Il viaggio era stato lento e stentato. Girolamo ne aveva risentito più degli altri compagni di sventura. La sua impazienza era stata amplificata tanto dall’opprimente rimorso di non essere partito prima, quanto dall’ossessivo timore di arrivare troppo tardi. Ma adesso non voleva più pensarci, mentre la costa scorreva davanti a lui, mostrando le mura, le cupole azzurrognole dei caravanserragli, le arcate del vecchio acquedotto e la foresta dei minareti svettanti. Tutto era rimasto uguale, durante i pochi mesi della sua assenza. 

Galata, il bailo che lo accoglieva, la fretta di attraversare il Corno d’oro, di bussare alla porta di Andrea. Tutto si svolse come un sogno, o forse come un incubo. Girolamo rimase davanti alla porta chiusa. Studiò le scaglie di colore rosato sul legno secco e crepato, fino ad impararle a memoria. Il vento, che insisteva sul suo viso, lo fece lacrimare. Il vento. Il giorno trascorse, il tramonto veloce trapassò verso la sera, ma Andrea non ritornò. Calò la notte, recapitandogli i suoi brividi di gelo. Girolamo non si spostò. Ma il freddo era troppo intenso per restare seduto in terra davanti a quella porta. Quando si rese conto che rischiava di congelare, finalmente si mosse. Il riparo del caravanserraglio lo accolse nella sua rincuorante indifferenza. Girolamo era stremato, deluso, infuriato con se stesso. Dormì poco o nulla. La disperazione restava in agguato, senza mostrarsi con la sfrontatezza di cui avrebbe potuto dar prova. Un dolore sotterraneo e profondo impediva a Girolamo di provare qualunque altra sensazione.

All’alba fu di nuovo davanti a quella porta. Una porta che rimase inesorabilmente chiusa.

Paolo Contarini lo accolse con gioia. Al suo arrivo, Girolamo aveva scambiato con lui solo qualche laconica frase, trascinato altrove dalla tormentosa fretta che lo incalzava. Ora era di nuovo davanti al bailo, con un’espressione completamente avvilita.

- Che ti succede, Girolamo? –

- Credo che Osman Deli sia partito. –

- Sì. Due settimane fa. È venuto a salutarmi, annunciandomi che andava a Ragusa. Voleva una vita nuova. Tu lo sapevi, ne aveva parlato anche con te. -

- Avrei voluto partire con lui. – ammise Girolamo, disperato.

- Mi dispiace che tu non sia giunto in tempo, ma animo! Mi ha detto che se ti avessi rivisto avrei dovuto invitarti a raggiungerlo a Ragusa. –

- Quando c’è una nave per Ragusa? –

- Non so bene. Il tempo è stato cattivo. Ma vedrai che sarà presto. –

- E per via di terra? –

- Le carovane non ripartono fino a marzo. Del resto, viaggiare da soli in pieno inverno è troppo pericoloso. Non troveresti nessuna guida disposta a venire con te. Dovrai aspettare, temo.–

Aspettare. Un verbo che Girolamo non avrebbe più voluto sentire.

- E cosa faccio, nel frattempo? –

- Potresti lavorare per me. Che ne dici? –

 

     Salonicco mostrava la faccia colorata e multiforme di un gran bazar a cielo aperto. Greci, turchi, ebrei, armeni, slavi, italiani, c’erano tutti, un crogiolo di razze e di lingue mescolate come in una straordinaria torre di Babele.

Osman Deli vi aveva già trovato la sua nicchia, un posto dove fermarsi in attesa che passasse l’inverno, giunto improvviso e feroce. Non era proprio il momento di continuare il suo viaggio lungo la via Egnatia, che lo avrebbe portato fino a Ragusa. Tanto non lo attendeva nessuno. Il resto del suo viaggio poteva aspettare.

Come a Costantinopoli, le case di legno si addossavano l’una all’altra, con strade perlopiù strette e irregolari, che si arrampicavano a forza sulla collina. Di fronte al mare si affacciavano le finestre, come mille occhi che guardavano oltre le mura, mentre le barche dei pescatori erano in secca, lontano dalle onde che battevano incessanti, con alti schizzi di schiuma bianca.

La prima cosa di cui si rese conto, fu che quella città non aveva alcun bisogno di un interprete. Bene o male tutti si capivano, utilizzando quella sorta di lingua franca chiamata sabir, che era un imbastardimento di tutte le altre, un po’ di veneziano, genovese e spagnolo, frammiste ad una manciata di parole in turco, catalano, greco e occitano. La lingua parlata in ogni porto del Mediterraneo, quella di mercanti, marinai, corsari e contrabbandieri. Quella, persino, delle donne che andavano al mercato, qui molto più presenti e visibili di quanto non fossero a Costantinopoli. Ma Osman si disse che avrebbe trovato qualcosa da fare. Qualsiasi cosa.

Se persino facchini e lustrascarpe comprendevano una moltitudine di lingue, lui avrebbe potuto impegnarsi in una moltitudine di lavori.

Il pensiero di Girolamo lo prendeva a tradimento, quando meno se lo aspettava. Col tempo, quel pensiero si era tramutato in preghiera. Osman pregava che Girolamo lo raggiungesse. Ma sarebbe mai avvenuto il loro incontro? E dove? Col pensiero gli lanciava messaggi sempre più pressanti. Vieni da me, vieni da me. Nella piccola casa che Yoel Mimiela gli aveva affittato, poco più di una stanzetta, come quella in cui viveva sul Corno d’oro, trovava riparo dal vento e dalla pioggia. Quella solitudine lo compiaceva. Nella sua mente albergava solo il rimpianto. Ed era così profondo ed immenso che null’altro avrebbe potuto trovarvi rifugio. Girolamo era il centro intorno a cui la sua vita ruotava. Doveva raggiungere Ragusa, perché era là che forse Girolamo sarebbe andato a cercarlo. A quell’unico appuntamento non poteva rinunciare. Alla sua unica speranza di rivederlo.

Quando Osman incontrò Vidin Satik, non era in condizioni di seguire i suoi ragionamenti o i suoi insegnamenti. La tristezza era l’unica prerogativa riconoscibile in lui. Tutto ciò che era stato e che a fatica aveva costruito, durante i nove anni in cui era vissuto a Costantinopoli, si era disperso.

- La benedezione ricada su di te come una pioggia rigenerante. – gli disse il derviscio.

Osman si stupì che gli avesse rivolto la parola.

- La benedizione ricada anche su te. – rispose Osman, prima di proseguire per la sua strada.

- Tu non stai andando da nessuna parte, perché allora non ti fermi qui con me? –

Osman si chiese come facesse a sapere che stava vagando senza meta. Il primo impulso fu di ignorarne l’invito, ma qualcosa nella sua espressione e nel suo tono, riuscì a stimolare la sua curiosità e lo convinse a restare. Il derviscio portava sulla testa un tarbush bianco, da cui sfuggivano lunghe ciocche di capelli nerissimi, ed era vestito di pelli di montone. Aveva occhi nocciola ed un naso dritto e appuntito. Le labbra carnose disegnarono una curva all’insù, in un morbido sorriso rassicurante.

- Vieni a sederti accanto a me. –

Osman si sedette. Soltanto allora si accorse che il derviscio teneva un flauto appoggiato in grembo.

- Tu suoni? – gli chiese.

- Suonerò per te. –

Così dicendo, prese con delicatezza lo strumento e iniziò a soffiarci dentro.

Le suggestioni della musica non lo avevano mai coinvolto tanto. Quelle note tristi e disperate riflettevano come in uno specchio il suo stato d’animo, proprio come fosse lui stesso a suonare per esibirlo al mondo. Tuttavia, mentre l’armonia di fondo restava sempre identica, il motivo cambiava continuamente, quasi a dimostrare che tristezza e disperazione potevano trovare conforto e magari cullare la speranza di trasformarsi anch’esse.

Dopo aver emesso l’ultima lunga nota, il derviscio lo guardò, ma non disse nulla. Gli sorrise appena. E Osman ricambiò quel sorriso.

Aveva smesso di piovere, ma il vento sembrava ancora carico di umidità.

- Il tuo dolore ti avvicina a Dio. – gli disse il derviscio errante.

- Non credo che a Dio importi molto del mio dolore. –

- Quello che tu credi e ciò che è vero sono due cose diverse. –

- Grazie molte. Questo mi è di grande conforto. – rispose Osman, non riuscendo a rinunciare ad un tono di amara ironia.

- Oggi tu non sai ancora quale strada hai imboccato. Ma presto la strada si mostrerà a te, mentre la percorri. – spiegò Vidin, imperturbabile.

- La mia strada è la via Egnatia. Devo raggiungere Ragusa. –

- Questo non lo so. La strada di cui parlo io, segue il tuo cuore. È la strada dell’amore. –

Appunto, pensò Osman. E se Ragusa non basterà, allora arriverò fino a Venezia.

 

     In realtà, Girolamo non aveva, alla corte del bailo, un vero e proprio compito. Contarini si limitava ad utilizzarlo quale messaggero delle sue missive presso i suoi nuovi contatti, diplomatici e nobili europei residenti a Pera, o turchi di varia estrazione, a Costantinopoli. In pieno inverno, quando erano scarsi i collegamenti col resto del mondo, ci si scambiava poche notizie, quasi di nessun conto. Pettegolezzi, si potrebbe dire, che andavano a volte a scalfire la buona reputazione di alcuni, e altre volte si ritorcevano contro gli stessi che li avevano diffusi. Pera, in quella stagione, diventava un mondo piccolo piccolo.

Thomas Henry fu una delle poche sorprese piacevoli della sua permanenza forzata. Trascorrendo più tempo di quanto avrebbe voluto nelle taverne e nei caffè di Galata, annoiandosi tra franchi d’ogni sorta, mercanti bloccati dall’inverno, capitani disoccupati o cavalieri di ventura, l’apparizione di Thomas fu salutata da Girolamo come l’avvento di un’epoca di esile contentezza. Era l’unico, tra tanti stranieri, a provenire dall’Inghilterra del nord, precisamente da Appleby, dove aveva inaugurato una scuola. Appassionato e studioso di storia greca e romana, era giunto a Costantinopoli per trovare, acquistare e portarsi a casa manufatti di quelle epoche che si diceva fossero ancora sparpagliati nell’impero ottomano, negletta eredità di quello bizantino, senza che alcuno se ne curasse, ed anzi, spesso distrutti con infantile quanto sadico piacere. Raccontando di statue classiche prese di mira dai giannizzeri per esercitarsi nelle armi, Thomas rabbrividiva d’orrore.  Bloccato anche lui dalla neve che diventava fanghiglia subito dopo essere caduta, si rifugiava nei caffè al riparo dal freddo, godendo come Girolamo di quel caldo vapore accogliente che vi si insediava dall’alba a sera. Presero presto ad incontrarsi al Caffè “Il Leone”, che ostentava l’insegna magistralmente dipinta del leone di San Marco.  Tra gli avventori che giocavano a tavla in concentrato silenzio, quelli che fumavano narghilè con tabacco aromatizzato al gelsomino o pipe di terracotta con il cannello di legno, quelli che chiacchieravano senza sosta, oscurando con voci profonde la musica tenue di un flauto ed un cogur, i due si raccontarono la loro vita passata e tutti i sogni e le speranze del futuro. Ma Girolamo si trattenne dal riferirgli la storia dei resti di Bragadin, per timore che qualcuno potesse ascoltarla e riportarla. Inoltre evitò di nominare Osman Deli. Teneva accuratamente e gelosamente nascosti i suoi sentimenti per lui, come se renderli noti potesse in qualche modo rischiare di distruggerli o anche soltanto di offuscarli.

 

     Yoel Mimiela produceva copricapo di feltro, soprattutto kippot e tarbush. Era un uomo sereno e gioviale, il cui volto mostrava volentieri i sentimenti che provava. Dopo avergli affittato la stanza in cui viveva, offrì ad Osman anche un lavoro nella sua bottega, che si trovava a metà collina, quasi al confine con il quartiere turco. Di fianco alla bottega c’erano la stanza che gli aveva affittato e la sua casa, con cui viveva insieme alla famiglia. Sua moglie Rahel lo aiutava in bottega e i suoi tre figli andavano alla scuola ebraica.  Osman scoprì così che, all’interno della comunità sefardita, nessuno era analfabeta. Si trattava di una comunità molto vasta, che comprendeva più di metà dell’intera popolazione. E difatti il sabato tutto si fermava. Lo Shabbat ebraico era il giorno di riposo, adottato per esigenze di comodità anche dalle altre comunità, poiché in tutte le attività gli ebrei erano presenti in gran numero.

Il sabato Osman passeggiava per la città, se il tempo lo permetteva. Si incontrava con Vidin Satik, vicino alla moschea Kassimi Giami, che una volta era stata la chiesa di San Demetrio, trasformata dai turchi, con gran dolore dei cristiani che ancora risiedevano a Salonicco. Era seduto sempre sulla stessa panca di pietra, sotto i rami spogli di un albero secolare, che d’estate doveva estendere l’ombra delle sue ampie fronde fin sulla facciata del tempio. A volte Vidin suonava per lui, oppure gli recitava dei versi. Un giorno gli disse:

- Quanto cerchi valicando montagne, frugando per terra, in affannosi lunghi viaggi è qui, non nell'insensato peregrinare... è in te la moschea ed il caravanserraglio, ma tu cammini a casaccio! così recitò Yunus Hemre. –

- Come se mi conoscesse… - commentò Osman.

Altre volte, invece, Vidin Satik taceva. E allora capitava che ad Osman quel silenzio non sembrasse silenzio, ma una magica forma di conversazione, che di volta in volta gli trasmetteva sensazioni insolite o poetiche. Vidin parlava soltanto d’amore. 

- Stasera in questo tempio si terrà una cerimonia. Vorrei che anche tu fossi presente. – gli disse un giorno.

- Se ci tieni, ci sarò. –

- Lo apprezzo, anche se lo fai per amor mio e non per te stesso.-  commentò Vidin, sorridendo con ironia.

La prima cosa di cui Osman si stupì, quella sera, fu di vedere numerosi cristiani tra i musulmani presenti. Appena entrato nella moschea, qualcuno gli offrì una lunga candela, invitandolo a farsi avanti. Quando raggiunse il cerchio dei fedeli, vide che il derviscio officiava la cerimonia affiancato da un religioso cristiano.

Vidin Satik salutò tutti i presenti, invitandoli ad accendere le candele ad un enorme cero bianco ed oro, poi annunciò che con quel rito ci si sarebbe avvicinati all’orecchio di Dio e che nessuna invocazione che non fosse dettata dall’amore avrebbe potuto trovare ascolto. Diede quindi inizio alla funzione, che fu molto diversa da altre a cui Osman aveva assistito.

Nel momento in cui, tra musiche e canti, Vidin invitò i fedeli ad innalzare al cielo le loro richieste, Osman, la testa vuota, pensò a Girolamo, ma non riuscì a formulare una preghiera diversa da quella che sempre accompagnava il suo ricordo.

Alla fine del rito, fu presentato un capretto legato, in una sorta di vascone di legno. Vidin lo offrì a Dio pregando che il sacrificio gli fosse gradito, quindi lo sgozzò con un solo fendente. Il derviscio fece portar via la vittima sacrificale e invitò tutti a pregare ancora, con il massimo fervore. Osman si sentiva imprigionato in una bolla vuota. Le candele illuminavano il cerchio dei presenti, ciascuno immerso nella propria supplica. I suoi pensieri erano fissi su un’unica immagine, quella di Girolamo che lo lasciava davanti alla porta di casa, senza rivolgergli neppure un sorriso. Quell’invocazione non sarebbe bastata a farlo tornare da lui. Vidin impose la sua benedizione finale e li invitò tutti alla mensa. Il capretto doveva essere consumato.

 

     Il poyraz, il gran vento proveniente dal nord, impigliava le nubi sfrangiate sui minareti di Santa Sofia. Un velo freddo e vaporoso si stendeva sul Bosforo. Girolamo e Thomas giunsero al gran campo dei morti di Scutari, abitato da innumerevoli cipressi, dalle cui cime i falchi stridevano i loro richiami.

- Non credo che qui troverai niente. – gli disse Girolamo, mentre percorrevano l’ennesimo sentiero.

- Eppure mi hanno raccontato di un piccolo tempio in marmo. Dev’esserci rimasto qualcosa, se i giannizzeri non l’hanno utilizzato per il tiro al bersaglio. –

- In un cimitero? Avranno un po’ di rispetto almeno di un luogo simile! –

- Non ne sarei troppo sicuro. – rispose Thomas, meditabondo.

- Che pace. Che solitudine. – sospirò Girolamo.

Appena pronunciate queste parole, il volto di Andrea gli si parò davanti agli occhi della mente. Di sicuro gli piaceva quel posto, anche se non aveva avuto il tempo di accompagnarcelo. Erano stati insieme troppo poco. Era quasi certo, come spesso gli accadeva di pensare, che Andrea non si ricordasse neppure più di lui. Sì, erano stati insieme troppo poco e in quel poco tempo non era riuscito a fare breccia nel suo cuore. Glielo aveva ben detto. Persino la sua amicizia era troppo, per lui. Non voleva neanche quella.

Thomas lo richiamò al presente.

- A cosa stai pensando, che ti rende così triste? –

- A niente. –

- Forse a qualcuno che è morto di recente? –

- No, non è morto, ma è come se lo fosse. –

- Dev’essere qualcuno che ami molto. –

Girolamo inghiottì il nodo che aveva in gola, ma fu incapace di rispondere.

- Perdona la mia invadenza. –

- Non preoccuparti. Mi passerà. –

Imboccarono un altro sentiero alberato che incrociava il primo e presero a risalire la collina.

- Sai, non mi hai mai detto come mai sei qui. –

- Anche se può sembrarti strano, è per quello stesso motivo che mi rende triste. –

- Non riesco proprio a cambiare argomento, dunque! –

- Non importa. Questo è solo uno scalo. Non appena mi sarà possibile, partirò per Ragusa. –

- Io invece me ne andrò a Salonicco, dove mi aspettano per formare una carovana, per poi raggiungere Atene. Quindi caricherò su una nave i reperti che sarò riuscito a conquistarmi lungo la strada e me ne tornerò a casa. Non ti andrebbe di accompagnarmi per un tratto? –

Girolamo ci pensò per qualche momento.

- Forse potrei seguirti fino a Salonicco e da là imbarcarmi per Ragusa. –

- Mi farebbe davvero piacere. – gli disse Thomas, sorridendo.

Quindi, rabbrividendo dal freddo, si strinse addosso il pastrano di pelliccia, in cui il vento implacabile si infilava con folate improvvise.

- Qui di tempietti non c’è ombra, Thomas, e non mi sembra la giornata adatta per questa esplorazione. Che ne diresti se tornassimo indietro? –

- Direi che hai mille volte ragione. Inoltre, temo che stia per piovere. –

- Ci mancherebbe solo questa. Non riusciremmo più a liberarci dal fango. –

- Torniamo indietro. – decise Thomas, sorridendo.

 

     Dopo aver diviso la mensa, i fedeli uscirono dal tempio, in piccoli gruppi. Anche Osman stava per ritirarsi, quando Vidin gli fece cenno di restare. Poco dopo si ritrovarono da soli, nel grande locale adiacente al tempio, dov’era stato arrostito il capretto e in cui avevano consumato il pasto rituale.

Vidin si sedette accanto ad Osman.

- Non t’affliggere così vanamente, vivi contento, e nell’ingiusta via della tua sorte, vivi con giustizia. Giacché in conclusione questo mondo è il nulla, pensa di essere il nulla, e libero vivi. –

- Di chi sono questi versi? – gli chiese Osman.

- Sono di Omar Khayyam, e sembra che anche lui ti conoscesse, quando li ha scritti. –

- Già. Pare che tutti mi conoscano, tranne me. Non so più chi sono, non so cosa voglio, non so dove vado, né perché. –

- Ascolta il tuo cuore. Lui sa tutto. E non hai bisogno d’altro. Seguilo, e sarai sulla giusta via. –

- Tu parli per fede. Io non ne ho così tanta. –

- Dio è buono. Dio è grande. –

Osman, per la prima volta dopo molti mesi, ripensò al martirio di Marcantonio Bragadin e si domandò come potesse definirsi buono un Dio che aveva permesso un simile strazio.

Come se Vidin avesse potuto leggergli nel pensiero, gli disse:

- Non confondere ciò di cui sono capaci gli uomini, con ciò di cui è capace Dio. Lui è puro amore. L’uomo, per giungere a quell’amore, deve rendersi capace di annullarsi in Lui. –

- Cos’è l’amore? – gli chiese Osman, guardandolo negli occhi.

Vidin lo fissò a lungo, finchè ad Osman non sembrò che qualcosa si sciogliesse dentro di lui. Era un grumo compatto, e duro, e terribile, che un calore intenso liquefaceva lentamente, e poi, come un piccolo mare segreto in cui le onde ribollivano nel soffio del vento, all’improvviso si placava, tramutandosi in un limpido, immobile specchio.

Osman sospirò e sorrise. Vidin lo abbracciò stretto, cullandolo a lungo.

 

     Girolamo passeggiava per il mercato di Galata domandandosi per quanto tempo avrebbe dovuto sopportare quell’ozio che gli stava mettendo i nervi allo scoperto. Possibile che fosse tanto difficile trovare una nave che avesse il coraggio di affrontare il mare? Si sentiva prigioniero, legato, a volte persino imbavagliato, nei momenti in cui avrebbe voluto parlare di Andrea e invece preferiva tacere. Thomas, accanto a lui, continuava a raccontargli di statue e di templi, di imperatori romani ed eroi greci. Neanche di quelle storie ne poteva più. Né di quei tre cani randagi che li seguivano fin dal momento in cui erano usciti dal caffè. Non sopportava le donne velate che si aggiravano tra i banchi, lanciandogli occhiate interessate, mentre le europee, a volto scoperto, non lo degnavano nemmeno di uno sguardo. Arrivando in fondo al mercato, videro un mercante di usignoli. Girolamo osservò i poveri prigionieri per qualche momento, convincendosi che almeno loro avrebbero dovuto volare via liberi, librandosi nel cielo. Ne domandò il prezzo, sotto lo sguardo incuriosito di Thomas.

- Ne compro dieci. –

- Che diavolo te ne fai di dieci usignoli? –

- Niente. – affermò Girolamo, porgendo il denaro al mercante.

Poi iniziò ad aprire le gabbie.

 

     Yoel Mimiela faceva tingere la lana in fiocco, da tintori caucasici, in un edificio subito fuori dalle mura, oltre la Torre dei Leoni. Il fetore pestilenziale che accompagnava quelle pratiche, aveva relegato lontano dall’abitato quell’attività, come pure la concia delle pelli ed i macelli. Così si spiegava l’orribile olezzo che il vento a volte spingeva fin dentro le mura. La tessitura era una delle attività più sviluppate e redditizie di Salonicco. Persino il Sultano aveva stabilito accordi per rifornire di coperte tutti i giannizzeri di Costantinopoli. Così, da qualche anno, intere carovane che trasportavano la lana tosata in maggio e in agosto, giungevano in città a consegnare la materia prima e ripartivano cariche di coperte colorate. Ma vi si producevano anche splendidi tappeti, abiti di tutte le tinte, copricapo di ogni foggia, caldi stivali e comode babbucce.

Osman fu incaricato di andare a ritirare un carico di lana tinta, con un piccolo carretto trainato da un asino. Già appena giunto nelle vicinanze del magazzino, potè avvertire il terribile tanfo. Entrò nell’ampio cortile, dove quasi immediatamente lo raggiunse un giovane, incredibilmente sporco. Aveva macchie colorate per tutto il corpo, persino sulle braccia e sul viso. L’aria era gelida, ma lui se ne stava là, nel cortile, mezzo nudo, come se nulla fosse.

- Mi manda Yoel Mimiela. – gli annunciò Osman.

- Vieni. – rispose il giovane, correndo verso un grande portone spalancato.

Osman lo seguì a piedi. Il ragazzo si voltò e gli disse:

- Che fai? Vieni dentro col carretto. –

Osman comprese solo allora la necessità di un simile portone.

Una volta all’interno, due ragazzi colorati come il primo, ma forse ancora più giovani, caricarono le balle di lana colorata, blu, gialla, marrone, rossa, verde e nera. Yoel Mimiela lavorava anche lana grezza, nel suo colore naturale, ma Osman trovava che le tinte di quella lana fossero assai più belle. Era curioso di vedere all’opera i tintori e chiese di poter entrare. Uno dei ragazzi lo invitò a seguirlo. Uscirono dal magazzino, attraversando il cortile per accedere di nuovo nel vasto edificio da un portoncino laterale. Qui, appena entrato, Osman ebbe l’impressione che tutto il fiato gli uscisse dai polmoni. L’aria era irrespirabile e densa, nuvole di vapore pestilenziale salivano da immensi vasconi di rame, ai bordi dei quali una decina di giovani, armati di lunghi bastoni, rimestavano un ribollire di lana in fiocco o in matasse. Ogni vascone conteneva un liquido di colore diverso. Se un giorno avesse dovuto rappresentarsi un inferno, quell’immagine sarebbe risultata appropriata. Uscì quasi subito, dopo aver ringraziato il ragazzo della sua gentilezza. Questi abbassò il capo, imbarazzato. Osman intuì che doveva essere uno schiavo, come tutti gli altri.

La schiavitù, una condizione che lui aveva evitato rinnegando la sua fede. Non se n’era mai sentito colpevole, eppure dentro di sé sapeva che c’era qualcosa di sbagliato. Il Dio a cui rivolgeva le sue preghiere non era mai cambiato. Era convinto che tutti, cristiani, ebrei o musulmani, credessero in un unico Dio, che era sempre lo stesso. Che senso avevano secoli di guerre, di persecuzioni, di abomini, per affermarne l’innegabile primato? Chiamandolo con nomi diversi, gli uomini non potevano cambiarlo né dividerselo. E dunque? In nome di quale follia si combattevano?

Quando Osman espresse i suoi dubbi a Vidin, il derviscio sorrise.

- Hai talmente ragione, che molte delle convinzioni di ciascuna fede sono passate alle altre in uno scambio equo ed inevitabile. L’altra sera hai visto vicino a me un cristiano. Altre volte c’è stato un rabbino. Ci sono luoghi di culto in cui entrano a pregare indifferentemente gli uni o gli altri. È come dici tu. Dio è uno solo, comunque gli uomini decidano di chiamarlo. –

- Allora perché le guerre in nome di Dio, se quel Dio è lo stesso?–

- Questa è la follia degli uomini. Ma tu hai compreso. Dio ti ha illuminato. –

- Non per questo mi sento più vicino a lui. –

- È agli altri uomini che devi sentirti più vicino. Questo è il primo passo. –

Come ogni volta che un obiettivo gli sembrava irraggiungibile, Osman sospirò. E come ogni volta che comprendeva il suo disagio, Vidin lo abbracciò.

 

      Quel pomeriggio Girolamo aveva bevuto tanto caffè che ne aveva la nausea.

- Basta. Facciamo qualcosa. Non ne posso più di stare qua dentro. Persino la monotonia di questa musica mi sta dando il mal di capo. –

- Va bene, usciamo. Mi hanno parlato di una persona. Potremmo andare a trovarla. – rispose Thomas.

Quando furono all’aperto, diretti verso l’alto della collina, Girolamo gli chiese:

- Chi è questa persona? –

- Una donna. –

- Una donna? Sei impazzito? Qui ti metti nei guai anche solo se provi a parlarci, con una donna.–

Thomas rise.

- Non per questa donna. Lei ci riceverà volentieri. –

- È  una cortigiana? –

- Naturalmente. –

Girolamo nascose il suo imbarazzo. A Venezia, nonostante più volte i suoi amici lo avessero invitato ad accompagnarli nelle loro spedizioni notturne vicino a Rialto o alle Carampane, Girolamo si era sempre rifiutato di seguirli, affrontando e sopportando coraggiosamente i loro lazzi. Pensò che si sarebbe limitato ad accompagnare Thomas, ma che non sarebbe entrato.

Bussando ad un portoncino di legno dipinto di rosso, Thomas si voltò e gli rivolse un sorriso di complicità. Girolamo ricambiò quel sorriso, sempre più impacciato.

Ad aprire fu un ometto piccolo e magro con un enorme turbante sulla testa e una veste riccamente ricamata, da cui sbucavano le punte ricurve di due babbucce dorate.

- Siate i benvenuti. – disse – Entrate subito o farete uscire tutto il calore. –

Thomas spinse dentro Girolamo, che non ebbe il tempo di fiatare o di opporsi.

Fu così che si ritrovò in un piccola saletta accogliente, con divani sulle tre pareti e cuscini di ogni colore.

Girolamo provava una gran voglia di fuggire, ma non osava muoversi. Poco dopo tornò l’ometto, dicendo:

- La mia signora vi riceve. –

- Vai tu. – disse immediatamente Girolamo.

- No, vai prima tu. –

- Thomas, vai. È stata tua l’idea. –

- Potete andare insieme. – disse l’ometto, con un detestabile sorriso mellifluo.

Thomas afferrò per un braccio Girolamo, sollevandolo di peso dal divano e lo trascinò a forza dietro l’ometto che li precedeva.

Giunti in un’altra stanza, li accolse una giovane donna di una bellezza conturbante. Portava un lungo abito a strisce di colori screziati, com’era tipico delle donne dell’isola di Proconneso, con un’alta pettinatura carica di riccioli scuri che le scivolavano sul petto a nascondere il seno nudo.

Alle sue spalle vi era l’alcova, con tende di velluto rosso e cordoni dorati. Sulla parete di fianco, un divano coperto di cuscini. Due lampade rosse illuminavano l’ambiente di una luce morbida e discreta. Un sottile profumo di gelsomino invadeva l’aria. Da qualche parte, nella casa, qualcuno aveva iniziato a suonare un cogur.

Girolamo sentì venirgli meno le forze, le gambe molli. Andò a sedersi, senza invito. Thomas non si curò più di lui. Si era avvicinato alla donna sorridente che aveva dato loro il benvenuto e già, senza alcun pudore, le faceva complimenti per la sua bellezza e le spostava le ciocche dei lunghi capelli, scoprendole il seno. 

 

     Yoel invitò a pranzo Osman. La loro casa era sempre aperta ad amici e correligionari. Yoel non faceva distinzioni di razze o religioni. Essere nato in una città come Salonicco glielo impediva. Com’era diversa da Costantinopoli, dove i latini erano relegati in quartieri chiusi e trattati sempre come stranieri, se non come nemici. Qui solo i turchi tendevano a riunirsi in un solo quartiere, ma forse lo facevano per abitudine, non essendo abituati ad una simile promiscuità.

Dopo la preghiera rituale, a cui Osman si unì senza imbarazzo, fu servita in tavola la shawarma, con carne di pecora, accompagnata da una salsa a base di ceci e semi di sesamo. Il pane azzimo accompagnò il pasto, che si concluse con la baqlava, un dolce a base di miele e frutta secca, di cui i bambini andavano pazzi. Osman ringraziò con vera gratitudine, complimentandosi con Rahel. Quando i bambini lasciarono la tavola, Yoel gli chiese quali fossero i suoi progetti per il futuro.

- Potresti restare. Stai imparando bene il mestiere ed io ho proprio bisogno di un aiutante valido. –

- Mi dispiace, devo andare a Ragusa. Mi unirò alla prima carovana che partirà in quella direzione. –

- Resta almeno fino alla fine dell’estate. Mi hanno offerto una grossa commessa, ma se tu non mi aiuti, non posso accettarla.–

- Non c’è nessun altro che possa collaborare con te? – gli chiese Osman.

- No. Se tu non puoi restare, la rifiuterò. –

Osman lasciò indugiare il suo sguardo sulle mani forti di Yoel, poi sul suo volto serio e sereno, nei suoi occhi scuri, carichi di bontà. Ripensò alle parole di Vidin. È agli altri uomini che devi sentirti più vicino. Il primo passo. Era quello il primo passo.

Osman accettò.

 

       Vidin ascoltò il suo racconto e approvò la sua decisione.

- Hai seguito il tuo cuore. L’amore comincia ad indicarti il cammino. È davvero una cosa buona. –

- Eppure vorrei già essere a Ragusa. –

- Non preoccuparti. Vivi libero. Anche i desideri sono una zavorra di cui dobbiamo disfarci. –

- Di questo non posso disfarmi. –

- Che cosa c’è di così importante che ti aspetta a Ragusa? – gli chiese Vidin, come se già non avesse capito.

 

     Girolamo restò chiuso nella sua stanza al Palazzo del bailo per due giorni interi. La sua esperienza con Eirene era stata disastrosa. Per lei non aveva provato alcuna attrazione, ma la presenza di Thomas, nudo accanto a lui, lo aveva sconvolto. Non aveva osato mostrargli il suo desiderio, nemmeno per un attimo, ma aveva usato Eirene in modo vergognoso, come un odioso ripiego. Per Eirene non doveva essere inconsueto, non aveva opposto alcuna resistenza. A questo ricordo si era aggiunto il pensiero di Andrea, verso cui ora si sentiva colpevole, come per un basso tradimento. La sua confusione lo aveva gettato nello sconforto. Desiderava soltanto partire, non rivedere mai più né Thomas, né Costantinopoli. L’unica cosa che voleva davvero, dal più profondo del cuore, era ritrovare Andrea.

Paolo Contarini lo convocò.

- Che c’è, Girolamo? Non ti senti bene? –

- No, sto benissimo. –

Il bailo lo osservò, per nulla convinto.

- A Costantinopoli la peste è sempre in agguato. Se non ti senti bene, me lo devi dire. Mando a chiamare il medico. –

- No, non è questo. Non ne posso più di quest’attesa. Vorrei poter partire subito.–

Contarini sfogliò alcune carte davanti a , poi puntò il dito su un messaggio scritto in caratteri incredibilmente fitti e minuti.

- Se il tempo lo permetterà, fra tre giorni salperà una nave per Salonicco. Là potresti trovarne facilmente un’altra per Durazzo o addirittura per Ragusa. –

Il volto di Girolamo si illuminò.

- Grazie. Sarebbe perfetto. –

- Va bene. Ci penso io. Puoi iniziare a preparare il tuo bagaglio. Però arriverai là come mio messaggero. Dovrai consegnare un plico alla persona che ti indicherò. –

- Lo farò molto volentieri. –

- È venuto un certo Thomas Henry a cercarti. Era preoccupato di non vederti al caffè. Gli abbiamo detto che eri impegnato. –

- Grazie. – disse solo Girolamo, congedandosi.

Non voleva rivedere Thomas, dopo quello che era accaduto. Non sarebbe più stato in grado di guardarlo negli occhi. Ricordava troppo bene il suo corpo svelto, i suoi muscoli guizzanti, la schiena che si inarcava  ritmicamente, mentre i glutei si tendevano.

 

Ricordava troppo bene il desiderio lancinante che lo aveva finalmente invaso, e che non era scaturito dalla vista della pelle liscia e morbida di Eirene, o delle sue forme piene, bensì da quella del corpo di Thomas, che mentre si accoppiava con la donna, gli lanciava occhiate inquietanti, che Girolamo non aveva saputo decifrare. Non voleva più pensare a quel giorno. Non voleva più rivedere Thomas.

 

     Appena fuori dalle mura del quartiere turco del Kastra, un giorno apparve una comunità di Zingari, con tanto di animali al seguito. Osman vide gli orsi per la prima volta. Erano impressionanti, ben più alti degli uomini, quando si ergevano in piedi, camminando su due zampe. Erano animali addestrati alla lotta con gli esseri umani. Avevano unghie limate, il muso tenuto stretto da una fascia di cuoio e un collare da cui partiva un guinzaglio con cui l’ursaro li teneva a bada.

Il loro arrivo pose in festa l’intera zona. Si udivano spesso le musiche di tamburelli e strumenti a corda che gli Zingari suonavano con una specie di bastoncini. I loro canti erano quasi sempre allegri e pieni di ritmo. Le donne ballavano in cerchio a piedi nudi, nonostante il freddo. Portavano vesti molto colorate, i capelli lunghi, sciolti sulle spalle, e si adornavano di numerosi bracciali, lunghe collane e orecchini appariscenti, che lanciavano bagliori alle luci delle fiamme.

La sera, intorno ad un cerchio di piccoli falò, si riuniva la gente ad osservare e scommettere sulla lotta degli orsi.

Una volta Vidin apparve accanto ad Osman.

- Non è bene scommettere. – gli disse.

- Non lo faccio, stai tranquillo. – gli rispose Osman.

- Allora perché sei qui? –

- Solo per curiosare. Mi piace questa gente. Sembra così viva, così felice. Libera. –

- Anche i dervisci erranti sono liberi. Se aspiri alla libertà, potresti unirti alla mia tarikat, la confraternita sufi che mi ha accolto da ragazzo. –

- Non ho abbastanza fede, per questo. – ribattè Osman.

- È sufficiente l’amore. –

- Perché mi rigiri il coltello nella piaga? –

- Cosa ti ha convinto che non sai amare? – gli chiese Vidin, osservandolo con tenera curiosità.

- Cosa ti fa pensare il contrario? –

Vidin gli appoggiò una mano sul torace.

- Io ti leggo nel cuore. –

 

     Girolamo non voleva più rivedere Thomas, ma lo rivide, invece, sulla nave.

- Ti ho cercato, per salutarti. E invece parti anche tu. – gli disse, sorridendo soddisfatto.

- Sono in servizio per il bailo. – si limitò a spiegargli Girolamo.

- Questa coincidenza è incredibile. Ma mi rende davvero felice. – commentò Thomas, con una pacca sulla spalla.

Nessuno dei due accennò all’ultima volta che si erano visti.

 

- Perché limitarsi ad amare uno solo, quando puoi amare molti?      Sulla terra ama più che puoi. In cielo ama solo l’Altissimo. –

Osman non capiva. Come avrebbe potuto amare altri nello stesso modo in cui amava Girolamo? Forse era proprio Vidin, che non aveva capito nulla di quanto gli aveva raccontato.

- Capisco che tu possa essere incerto, ma vedrai che un giorno capirai che si può amare in molti modi e moltissime persone. –

Osman si aspettava che a quel punto Vidin lo abbracciasse, come faceva sempre, invece non accadde. E ad Osman quell’abbraccio mancò. Prima di andarsene, fu lui ad abbracciare Vidin, il quale lo ricambiò con un sorriso soddisfatto, proprio come se avesse finalmente ottenuto il suo scopo.

Osman si fermò.

- Era questo che aspettavi? – gli chiese.

- Non solo questo. Ma è già qualcosa. – rispose Vidin, fissando il suo sguardo intenso negli occhi azzurri di Osman.

Osman sentì le sue ultime barriere cadere, precipitandolo in un luogo senza confini, privo di densità, dove nulla aveva nome o regole, dove ogni cosa era possibile.

Vidin lo prese per mano e lo condusse con sé.

 

     Thomas approfittò della prima notte di viaggio per liberarsi di una confessione che gli premeva.  Nella stiva, dove tutti sembravano ormai addormentati, gli parlò sussurrando.

- Ti ho pensato molto, Girolamo. Soffrivo al pensiero di non rivederti più, senza poterti confidare quello che mi è accaduto. Per questo sono così felice che tu sia qui. Adesso ho la possibilità di dirtelo e tu puoi prenderla come vuoi, non mi importa. -

- Thomas… -

- Lasciami finire, ti prego. Non è facile, per me, ma devo dirtelo, fosse l’ultima volta che mi permetti di avvicinarmi a te. L’altro giorno, quando eravamo con Eirene… quad’ero sopra di lei, io… io avrei voluto che al suo posto ci fossi tu. E dopo, quando tu hai preso Eirene in quel modo… al suo posto avrei voluto esserci io. Non sai quanto l’ho desiderato. Non mi era mai accaduto nulla del genere. Volevo dirtelo subito, ma eri così distratto e lontano. Me n’è mancato il coraggio. Ecco, ora lo sai. Puoi fare quello che vuoi. Non m’importa. –

- Thomas, anch’io. Anch’io provavo lo stesso. – bisbigliò Girolamo.

- Ma è vero, è proprio vero? –

- Sì, Thomas. –

Nascosti da una montagna di merci e dal buio di quell’angolo della stiva, Thomas e Girolamo si baciarono a lungo, per poi lasciarsi andare, in prudente silenzio, a quell’amplesso che la presenza di Eirene aveva ispirato eppure impedito.

Neppure per un momento, nella mente di Girolamo, si affacciò il ricordo di Andrea. Solo molto più tardi, quando si svegliò nel cuore della notte, il suo pensiero riprese a tormentarlo. Di nuovo fu afferrato dal rimorso, un senso di colpa che alla luce del sole sarebbe svanito, ma in quel momento, costretto nel buio della stiva, lo lacerava nell’incertezza. Cosa avrebbe fatto? Chi contava di più per lui? L’amico Thomas, con cui aveva condiviso i mesi di attesa di quel viaggio di ritorno, oppure Andrea, che non era neppure certo di ritrovare e che in ogni caso lo avrebbe di sicuro respinto, giacché ne aveva rifiutato persino l’amicizia? 

Thomas dava per scontato che Girolamo lo seguisse ad Atene. Lui non aveva avuto il coraggio di smentirlo. Ma considerava Thomas soltanto un amico, e quello che avevano fatto, semplicemente un piacevole passatempo. Il suo cuore era altrove.

All’improvviso comprese le ragioni di Andrea. Per Andrea, Girolamo era solo un amico, così come Thomas era per lui. Nulla di più. Da parte di Andrea non c’era stato amore in quel loro rapporto. Non c’era stato e non ci sarebbe stato mai. Perché allora intestardirsi a cercarlo? Si sarebbe dunque convinto a seguire Thomas ad Atene? Neppure questo avrebbe avuto senso. Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto. Non era sicuro di nulla.

 

- Cosa pensi ora? Nel tuo cuore c’è spazio per più d’uno? – chiese Vidin, tornando ad indossare le sue pelli.

- Io amo Girolamo in un modo diverso. –

- Tanto diverso da poter affermare che non ami anche me? –

Osman era molto confuso. Il freddo che gli mordeva le carni lo costrinse a rivestirsi in fretta. Non osava confessare a Vidin che per tutto il tempo aveva pensato a Girolamo. Vidin gli si era offerto come la prima volta aveva fatto Girolamo, con la spontaneità di un desiderio che ha fretta di essere esaudito. Ma in Vidin non aveva individuato la stessa tenerezza, il medesimo timido slancio, l’incertezza di essere compreso e approvato. Osman non aveva trovato le ragioni per ricambiare quell’offerta. 

- Perché hai voluto farlo? – gli chiese Osman, ignorando la sua domanda.

- Perché ne avevi bisogno. Ed anch’io. –

- Mi pare che sia proprio tu a confondere le cose. Finora mi hai sempre parlato dell’amore spirituale. Questo invece era un banale sfogo della carne. –

- L’amore ha mille sfaccettature e tutte concorrono in egual modo a renderlo ciò che è. –

- Allora ho ancora molta strada da fare. –

- Questa sera ti sei limitato a partecipare soltanto con il corpo, la prossima volta ti insegnerò ad usare anche il cuore. –

Osman si chiese se ci sarebbe stata una prossima volta.

 

     Vidin aspettava che qualcosa cambiasse, che il suo amore facesse breccia nel cuore di Osman. La sua pazienza era una delle virtù che aveva alimentato sin dai suoi primi studi. Una volta il suo maestro lo aveva fatto sedere davanti ad un albero e gli aveva indicato una foglia.

- Starai qui finchè quella foglia non sarà caduta. Allora la raccoglierai e me la porterai. – gli aveva detto.

Vidin aveva aspettato per quarantadue giorni. Nel frattempo aveva imparato ad essere paziente, sotto il sole, sotto la pioggia, sferzato dal vento, digiuno se nessuno gli portava del cibo, assetato se nessuno gli portava dell’acqua. Quando la foglia era caduta, per un momento Vidin ne era stato dispiaciuto.

Osman era simile a quella foglia. Il giorno che fosse caduto, Vidin ne sarebbe stato felice non tanto per sé, che stava comunque per proseguire il suo cammino, quanto per Osman, che finalmente avrebbe potuto iniziare il suo.

 

     Girolamo prese infine una decisione. Avrebbe salutato Thomas a Salonicco. Le loro strade si sarebbero divise. Thomas si arrese soltanto dopo la promessa che Girolamo, se un giorno avesse potuto, sarebbe andato a trovarlo ad Appleby. Per evitare strascichi penosi ed inutili emozioni, Girolamo gli disse addio sul molo, appena sbarcati. Thomas lo avvolse in un abbraccio accorato, con le lacrime agli occhi. Girolamo si dovette sciogliere da quell’abbraccio con una certa forza, quasi brutalmente, dirigendosi poi a lunghi passi verso la città. Per lui era una storia già chiusa.

Tra i tanti testimoni di quell’addio, uno, in particolare, ne provò un’emozione profonda e sconvolgente, Osman, che osservando la disperazione di Thomas, ebbe pietà di lui con la stessa intensità con cui l’avrebbe provata per se stesso. E invece di rincorrere Girolamo, come avrebbe fatto in qualunque altro momento, si diresse verso l’uomo rimasto solo sul molo a fissare la figura che s’allontanava senza voltarsi indietro.

Quando gli fu vicino, si offrì di aiutarlo.

- Ti ringrazio, ma sono già atteso alla locanda vicino all’Arco di Galerio. –

- Posso aiutarti a portare i bagagli. – incalzò Osman, senza spiegarsi il motivo di quell’insistenza.

- Ma certo. Ti ringrazio. – rispose Thomas, scambiandolo per un facchino.

- Mi chiamo Osman Deli. – gli disse, mettendosi in spalla una delle sacche.

- Io sono Thomas Henry. –

- Poco fa ti ho visto con Girolamo Polidoro. –

- Lo conosci anche tu? –

- Ci siamo conosciuti a Costantinopoli, la scorsa primavera. Non sapevo che ci fosse tornato. –

- È in viaggio per Ragusa. Anche qui si fermerà poco. –

In viaggio per Ragusa. Osman si sentì improvvisamente euforico, come non gli accadeva da un tempo infinito.

Perché non aveva subito rincorso Girolamo? Perché stava perdendo il suo tempo con lui? Poi guardò in volto Thomas, osservò le tracce delle lacrime che aveva cancellato sommariamente e gli tornò quella stretta al cuore che lo aveva mosso a compassione.

Attraversarono la Porta d’Oro ed entrarono a Salonicco.

Osman lo lasciò alla locanda augurandogli ogni bene. Quando Thomas, ringraziandolo, fece il gesto di por mano alla borsa, Osman si difese.   

- Gli amici di Girolamo sono miei amici. –

- Grazie. Se lo incontri, ricordagli che mi ha promesso di raggiungermi, quando avrà completato il suo servizio per il bailo di Venezia. –

Osman si bloccò.

- Ma non è diretto a Ragusa? –

- Sì, ma poi verrà da me in Inghilterra. –

Dunque Girolamo non era affatto diretto a Ragusa per cercare lui. Non aveva alcuna intenzione di fermarsi là. E magari vi era diretto soltanto dietro ordine del bailo. Contarini sapeva. Lo aveva forse spedito a Ragusa nella speranza che si incontrassero, dal momento che Osman gli aveva confessato il suo desiderio. Ma ciò non sarebbe accaduto. Lui sarebbe rimasto a Salonicco fino alla fine dell’estate e per quell’epoca Girolamo avrebbe già raggiunto Thomas.

Osman si diresse alla Kassimi Giami, temendo e sperando di incontrare Girolamo lungo la strada. Doveva parlare con Vidin, subito.

Ma per la prima volta dacché si conoscevano, la panchina era vuota e di Vidin non v’era traccia.

Osman andò a cercarlo nella capanna dove si rifugiava di notte, fuori dal quartiere turco del Kastra, abbarbicata ai primi contrafforti del monte Kissós. Vi giunse in fretta, stremato, ma trovò Vidin immerso nella meditazione, così non gli restò che aspettare.

Osman si sedette in un angolo, appoggiando la fronte alle ginocchia. Tremava. Finalmente l’onda della disperazione si abbattè su di lui. Aveva perduto la sua ultima speranza. E questo avveniva proprio nel momento in cui Girolamo era a due passi da lui, in quella stessa città, mentre respirava la stessa aria, vedeva lo stesso cielo, udiva gli stessi richiami dei gabbiani. Accadeva nello stesso momento in cui avrebbero potuto incontrarsi faccia a faccia ed Osman avrebbe potuto finalmente confessargli i suoi sentimenti. Ma perché mai avrebbe dovuto? Era chiaro che ormai era stato sostituito da qualcun altro, che mostrava di amarlo molto meglio di lui, quel Thomas che piangeva, mentre Girolamo si allontanava verso la città. Lo aveva colpito quel dolore, perché era lo stesso che un giorno aveva provato lui. La sua preghiera era stata esaudita, Girolamo era a Salonicco, ma questo non era sufficiente. Girolamo non lo amava più.

- Osman. –

La voce dolce di Vidin lo riscosse dai suoi pensieri, che si erano smarriti in un labirinto senza via d’uscita. Sollevando la testa, gli disse:

- Vidin, Girolamo è qui. –

- E perché ne sei tanto sconvolto? –

- Ama un altro. L’ho visto, ci ho parlato. Lui lo sa amare meglio di me. –

- È Girolamo che te l’ha detto? –

- No, ho parlato con Thomas, il suo compagno. –

- Non sarebbe più giusto che lo sentissi dalla voce di Girolamo? –

- E a cosa servirebbe? Soffro già abbastanza così. –

- Ti fidi tanto di questo Thomas di cui conosci appena il nome? –

- Perché avrebbe dovuto mentirmi? Piangeva. –

- E perché mai? –

- Si erano appena detti addio, giù al molo. Girolamo proseguirà il viaggio verso Ragusa e Thomas andrà in Inghilterra. Ma presto si ritroveranno. –

- Strano. Sono entrambi qui, eppure ognuno se n’è andato per la sua strada. Non mi sembra che due compagni si comportino così. –

Osman lo fissò.

- È vero. Hai ragione. Che senso ha? Avrebbero potuto restare insieme, almeno fino alla partenza di uno dei due. –

- Già. Io avrei fatto così. E tu? –

- Anch’io. – disse Osman.

- Allora, appurato questo, perché ora non vai a cercarlo? –

Osman uscì in fretta dalla casupola.

Vidin lo vide correre giù per la collina, mentre sul golfo si allungavano lievi nubi rosa bordate di viola. L’orizzonte scintillava, ricordandogli che aveva indugiato fin troppo. Doveva riprendere il suo cammino.

 

     Thomas gli aveva detto che Girolamo aveva compiuto quel viaggio per conto del bailo. Cosa avrebbe potuto volere Contarini, a Salonicco? O si trattava soltanto di uno scalo? In quale locanda poteva cercarlo? Quella dei veneziani era vicino alla sinagoga Katallan Yachan. Probabilmente si sarebbe fermato là.

Osman vi si recò, chiedendo notizie, ma di Girolamo non v’era l’ombra, né in quella, né in altre locande dov’era probabile che potesse sostare.

Alla fine decise di informarsi anche in quella dell’Arco di Galerio, pur rischiando di imbattersi nuovamente in Thomas, che in quel momento era l’ultima persona al mondo che avrebbe voluto incontrare. Ma Girolamo non c’era.

Neppure il giorno seguente riuscì a trovarlo, né a parlare con Vidin, che era di nuovo sparito.

Per quattro giorni, finito il lavoro, se ne andò in cerca di Girolamo, ma sembrava che la città lo avesse inghiottito nelle sue viscere, senza neppure sputarne le ossa. Dedicò il sabato alla sua ricerca, dopo aver subito i rimproveri affettuosi di Yoel che aveva notato la sua distrazione e la svogliatezza con cui stava lavorando. Passò davanti alla Kassimi Giami, ma Vidin non c’era, neppure all’interno del tempio.

Andò a chiedere se si aspettavano navi per Ragusa, ma nessuno ne sapeva nulla. Poi qualcuno lo informò che era partita una carovana di sale e pellicce, proprio per Ragusa, sulla via Egnazia. L’avrebbe seguita anche lui, se non avesse promesso a Yoel di restare fino alla fine dell’estate. E se Girolamo si fosse unito a quella carovana? Nessuno gli seppe fornire informazioni certe. Sì, forse c’erano anche genovesi e veneziani. No, non era sicuro. 

Le navi cominciarono a riempire i moli, ma di Girolamo non ebbe più notizie. Osman rimase sulle spine per molti giorni, ma infine si rassegnò. Quello era il destino. Un destino beffardo, ma doveva accettarlo. Anche Vidin era scomparso e gli mancava molto più di quanto avrebbe creduto possibile.

 

     Ormai la neve era solo un ricordo. Superata Pella, Girolamo cavalcava dietro l’ultima soma, seguito dal dragomanno e da due giannizzeri armati fino ai denti. Attraversando la pianura macedone, benché il vento continuasse spesso a disturbarli, il calore del sole si faceva via via più intenso. In alcuni momenti della giornata, era costretto a disfarsi del pastrano. Cavalcando a quel ritmo ipnotico, aveva preso l’abitudine di sognare ad occhi aperti. Tra meno di un mese, avrebbe raggiunto Ragusa e là sarebbe andato in cerca di Andrea. Sognava il momento del loro incontro, in ogni variante possibile. Lo avrebbe incontrato appena entrato in città. “Hai bisogno di una guida?” gli avrebbe chiesto Andrea, ridendo. Oppure dopo lunghe ricerche, in una piccola casa ai confini della periferia, affacciata sulla verde distesa delle vigne. Andrea si sarebbe stupito di vederlo. Girolamo gli avrebbe detto che la sua vita non aveva senso senza di lui. No, non avrebbe potuto. Doveva andarci cauto, convincerlo un poco alla volta, permettendogli di abituarsi all’idea. Ma il sogno più bello era quello in cui Andrea gli correva incontro abbracciandolo e sussurrandogli in un orecchio che lo stava aspettando, che ci aveva ripensato, che anche lui lo amava. A volte Girolamo pregava che quel sogno potesse avverarsi. Altri giorni, forse per la stanchezza, pensava che Andrea se ne fosse già andato, che Ragusa lo avesse deluso, convincendolo a spostarsi altrove. Dove? Dove avrebbe potuto ritrovarlo, se non era più lì? Non ne aveva idea. E questo pensiero lo terrorizzava più di ogni altro, più di un temuto attacco di razziatori, più di un incontro con i pirati, più di un naufragio per via della tempesta. Non trovare Andrea a Ragusa sarebbe stata la fine.

 

     Osman aspettò Vidin nella sua baracca, per innumerevoli sere, ma il derviscio non ritornò. Un sabato decise di trascorrervi l’intera giornata. Non v’era ansia in lui. Non si trattava di una vera e propria attesa, ma piuttosto di un puro esercizio di pazienza e di meditazione, che gli svuotava la mente da ogni pensiero. Quando infine fu stanco, si distese sulla stuoia e si addormentò.

Lo svegliò, sull’orlo dell’alba, l’impressione di essere osservato. Nel vago chiarore della stanza scorse una presenza, accanto a lui. Un uomo nudo, seduto con le gambe incrociate, il respiro tranquillo, uno scintillio negli occhi, che ben conosceva.

- Perché sei qui? –

- Per te. – rispose Osman.

- Hai qualcosa da dirmi? –

- Solo che ti amo. –

L’uomo lo abbracciò. Ogni distanza era caduta.

Nello stesso modo caddero i dubbi di Osman, si sbriciolò il tempo, si annientarono rimpianti, paure, confusioni, incertezze, oscuri tormenti. Fu inghiottito in un vortice che lo sollevò nell’aria, lontano dalla terra, in un cielo risplendente di nuvole vaporose e stelle cadenti.

Quella notte gli restituì la fiducia nell’amore.

Al suo risveglio non c’era nessuno. E in quella baracca non tornò mai più.

 

     Dopo aver superato i passi montani, la carovana discese verso Lychnidòs, alla regione dei laghi. Il paesaggio era splendido. Girolamo si scoprì a descriverlo ad Andrea, nella sua mente. Avrebbe voluto averlo accanto, partecipe anche lui di quello spettacolo. Per tutto il viaggio aveva rimuginato fantasie nella sua testa, scambiando poche frasi con il dragomanno e con qualche carovaniere, mai con i giannizzeri, che si tenevano accuratamente in disparte, quando si fermavano per la notte nei caravanserragli.

Verso Clodiana incrociarono un’altra carovana diretta in senso opposto, a Costantinopoli. Trasportava stoffe. Si informarono sulla strada. L’anno precedente, avevano subito l’attacco di un gruppo agguerrito di razziatori. Saputo che il loro viaggio era stato tranquillo, ripresero il cammino con volti più rilassati.

Giunti a Durazzo, Girolamo si domandò se non fosse il caso di imbarcarsi per raggiungere Ragusa più in fretta, ma il dragomanno lo sconsigliò. Ormai il viaggio era quasi al termine.

In effetti, non solo quel viaggio finì in fretta, ma anche l’altro. Girolamo infatti vagò a lungo ed inutilmente per la città, in cerca di Andrea.  Infine si decise a chiedere notizie presso il Palazzo del Rettore, dove dovette far registrare la sua presenza. Di Osman Deli non c’era traccia nei loro registri, né come visitatore, né tantomeno come residente. Andrea non vi era mai giunto. Dopo aver pagato una piccola tassa per la sua permanenza in città, venne informato che vi era divieto assoluto di girare armati e di circolare in strada dopo l’ora terza. Quindi fu libero di andare.

Andare dove? Girolamo non ne aveva idea. Non a Venezia, di questo era sicuro. Cosa poteva fare? Doveva ripetere il viaggio di Andrea. Fermarsi in ogni città, in ogni villaggio, per chiedere di lui. Qualcuno doveva pur averlo visto. Da Costantinopoli, dov’era andato? Quando lui era partito da Venezia, aveva incontrato un tempo terribile. Andrea era partito solo due settimane dopo, quindi aveva sicuramente dovuto interrompere il viaggio molto presto. A Salonicco, forse. Il luogo in cui si era fermato, gli era piaciuto tanto che aveva deciso di stabilircisi? Perché no? Era libero di decidere. Libero di fare tutto quello che voleva. Forse aveva trovato un’occupazione che lo attraeva. Forse aveva soltanto rimandato il viaggio. Girolamo decise di tornare indietro. A Salonicco, prima di tutto, e poi a ritroso fino a Costantinopoli. Se non avesse ritrovato le sue tracce, da Salonicco sarebbe ridisceso fino ad Igoumenitsa, o magari fino ad Atene. Nel frattempo i suoi denari stavano cominciando a scarseggiare. Avrebbe trovato qualche piccolo lavoro per guadagnarsi la giornata o, meglio, avrebbe ripreso a commerciare. All’improvviso un rumore che aveva già sentito da qualche parte, lo bloccò.

Il plico che Contarini gli aveva affidato, da consegnare a Salonicco, era diretto ad una stamperia. Non ve n’erano a Costantinopoli, poiché era vietato dall’islam riprodurre gli scritti, se non a mano. Ma Pera non era Costantinopoli. Mosheh ed Eliezel Soncino lo avevano ospitato a Salonicco nella loro casa. Gli avevano mostrato il loro lavoro di stampatori. Gli avevano parlato del loro sogno di aprire una nuova tipografia a Costantinopoli. Girolamo immaginò di potervi trasportare una macchina da stampa come quella che aveva visto a Salonicco, e come quella che ora aveva davanti agli occhi e che intravedeva da un portoncino aperto sulla strada.

Entrò.

 

     Yoel era molto soddisfatto di Osman. La commessa per cui si era tanto preoccupato, era stata portata a termine, anche grazie al suo contributo. Osman vi si era impegnato senza risparmio, senza un attimo di respiro. Adesso si trattava di imbarcare la merce per farla giungere a Costantinopoli. L’estate stava finendo e Yoel era convinto che Osman volesse proseguire il suo viaggio, come gli aveva annunciato mesi prima.

- Posso andare io a Costantinopoli. – lo stupì invece.

- Non volevi andare a Ragusa? –

- Ormai non è più necessario. – gli rispose Osman, con quell’espressione triste e rassegnata che assumeva a volte.

- Se è così, allora va bene. Non te l’avrei mai chiesto, ma d’altra parte non mi va di allontanarmi, anche se ho bisogno di far seguire la merce da qualcuno di cui mi fidi. Tu sei la persona giusta. –

- Ci andrò volentieri. –

Tornare a casa per qualche giorno gli avrebbe fatto davvero piacere. Rivedere i luoghi dove era stato con Girolamo, durante quei brevi splendidi giorni, come in un pellegrinaggio. Dire addio a quella città da cui era fuggito senza salutare e senza immaginare che gli sarebbe mancata, che avrebbe continuato a portarsela dentro. Sarebbe andato a trovare il bailo, per chiedergli notizie di Girolamo, pur sapendo quanto fosse inutile.

 

     Quel giorno due navi imboccarono contemporaneamente il Corno d’oro, l’una diretta a Galata, l’altra di fronte, ai moli di Costantinopoli.

Ciò che venne scaricato sul molo di Galata, sotto l’attenta supervisione di Eliezel Soncino, di Girolamo Polidoro e del bailo Paolo Contarini, che mai gli era apparso tanto eccitato, fu caricato su un carretto e trainato a Pera ben avvolto in un telone pesante, che lo nascondeva completamente ad occhi indiscreti. Qualcuno se ne interessò, ma nessuno fu tanto curioso da seguirne il percorso.

I nuovi tarbush dei giannizzeri adornarono le loro teste già dal giorno seguente. Nessuno di loro immaginava che a crearli fosse stato quello stesso uomo che guardava scaricare le grosse ceste dal ponte della nave.

Osman assaporava la città con un gusto ritrovato, con uno sguardo nuovo, con una bizzarra sensazione di attesa. Incongrui versi gli scaturivano dal cuore, come un tardivo omaggio al derviscio errante, che non aveva più incontrato.

Lenta è l’attesa, come una barca controcorrente. Lenti i pensieri, come un gabbiano sull’onda del vento. Lento a spegnersi l’amore, nell’ostinato avvampare del cuore.

 

 Girolamo attraversò il Corno d’oro su una barca a quattro remi. Il mare era liscio come una tavola. Sbarcò quasi con timore. Ritrovarsi di nuovo su quella costa, a pochi passi dalla vecchia dimora di Andrea, poteva soltanto rinnovare il suo dolore. Ma una forza più potente di lui lo spingeva in quella direzione. Era come un richiamo inesorabile, una voce che gli sussurrava all’orecchio un canto di sirena. La porta era aperta. Chissà chi ci abitava ora?

Girolamo pensò che fosse meglio allontanarsi, evitando di essere indiscreto, eppure non riuscì a muoversi. I suoi piedi erano come inchiodati al suolo. Un usignolo si posò davanti all’uscio, cinguettando con passione. Anche il suo sembrava un richiamo. Girolamo si domandò se non fosse uno di quelli a cui aveva restituito la libertà. Poi, dall’ombra della casa uscì qualcuno. Qualcuno che aveva lo stesso sorriso di Andrea, lo stesso sguardo azzurro, le stesse braccia che si tendevano verso di lui, quelle del sogno, che non era riuscito ad afferrare.

- Girolamo, hai bisogno di una guida anche per percorrere questi pochi metri? – lo apostrofò la sua voce.

- Andrea, ma sei proprio tu? –

Girolamo non riusciva a credere ai propri occhi. Restò paralizzato dallo stupore e il suo cuore esplose di una tale gioia che gli mancò il respiro.

- Dunque è vero. Mi hai già dimenticato. – commentò tristemente Osman, abbassando di colpo le braccia, come se gli fossero cadute.

Girolamo, come liberato da un incantesimo, corse da lui, lo spinse dentro la stanza e chiuse la porta, abbracciandolo tanto stretto da togliergli il fiato. Gli si affollò nella mente una valanga di parole, da cui a stento riuscì a far affiorare le prime a casaccio.

- Sono andato a Ragusa, ma tu non c’eri. Non sapevo dove cercarti, ma ero deciso a rincorrerti fino in capo al mondo. –

Con la più incredibile calma che Osman fosse mai riuscito ad imporsi, gli rispose:

- Ero a Salonicco. Ti ho visto salutare Thomas, al molo. Ho visto le sue lacrime, mentre tu te ne andavi. –

- Ma come? Mi hai visto e non sei venuto da me? Perché? – chiese Girolamo, amareggiato.

- Non so. Mi ha bloccato il suo dolore. Poi Thomas mi ha detto che dovevi raggiungerlo in Inghilterra.

- Non ne ho mai avuta alcuna intenzione. Non so perchè Thomas ti abbia detto una cosa del genere, ma il mio unico pensiero era soltanto quello di ritrovarti. Ed ora che ti ho ritrovato, non voglio lasciarti mai più. –

- Ma io non ti amo, Girolamo. – mentì Osman, per metterlo alla prova. 

- Lo so. Non m’importa. Il mio amore può bastare per tutti e due.– rispose lui coraggiosamente, con la sua espressione più decisa.

Osman restò senza fiato. Lo fissò seriamente, per qualche istante, soppesando emozionato le incredibili parole di Girolamo. Poi gli prese il volto tra le mani, sospirando.

- Non sarà necessario. Ti amo anch’io. Ti ho amato sempre, ma non ero capace di riconoscerlo. Mi ha perseguitato il rimpianto di non avertelo detto quando eri ancora qui. Mi sei mancato immensamente. Immensamente… A Salonicco ti ho cercato disperatamente, ma non sono riuscito a trovarti. Non ho fatto che pregare che tu ritornassi da me. – gli confessò, baciandolo con una passione che assomigliava a una rivincita.

Girolamo si sentì stordito dalla felicità, enormemente grato che le loro preghiere fossero state esaudite e pensò che in fondo Andrea si sbagliava. Anche in terra ottomana accadevano miracoli.

Fuori il sole calò, colorando d’arancio la luce che colava dalle alte finestrelle. Nella stanza nuda solo una stuoia copriva il pavimento di legno malridotto. In una casupola come quella, a Salonicco, una notte in cui aspettava Vidin il derviscio, Osman aveva sognato Girolamo, ritrovando intatto l’incredibile dono del suo amore, puro e scevro da ogni dubbio, coraggioso ed incondizionato, l’unico che avrebbe mai contato per lui.

 

Ed il destino, che si era divertito abbastanza, finalmente andò a cercarsi altre vittime con cui giocare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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