Un
sogno condiviso Quella
notte, e le altre che seguirono, Andrea non le voleva ricordare, ma gli
rimasero ugualmente impresse nella memoria come incise a colpi di scalpello. Andrea,
che non si chiamava più Andrea, ma Osman Deli, aveva rinnegato il suo nome ed il suo Dio, pur di
restare libero di muoversi. Aveva un unico fine ed un solo desiderio, aiutare
Marcantonio Bragadin a sopravvivere, anche se
quello che poteva fare era davvero poco, portargli di nascosto acqua e cibo,
mentre era rinchiuso in quella gabbia di ferro, di dimensioni talmente
ridotte che lo costringeva a rimanere rannicchiato, con la testa incassata
nelle spalle. Prima di rinchiudervelo, gli avevano reciso orecchie e naso,
cauterizzando in seguito le ferite con pece bollente. Era stato il 4 agosto
1571, il giorno del vile massacro. Solo Bragadin
era stato risparmiato, ed un paio di paggi che Andrea aveva rivisto. La
gabbia era posta all’aperto, per permettere a quella moltitudine di
giannizzeri di osservarlo con comodo, sbeffeggiandolo e talvolta rendendolo
bersaglio di vili lanci d’oggetti d’ogni sorta. Durante il giorno la gabbia
si arroventava all’implacabile sole d’agosto, tanto che arrivava ad ustionare
la pelle nuda di Marcantonio, che tentava in ogni modo di scostarsi dalle
sbarre, in quell’angusto spazio. Giunta la notte, Andrea riusciva a portargli
quel poco conforto che poteva, mentre Marcantonio lo pregava di andare via.
Se lo avessero scoperto, Andrea avrebbe rischiato di fare la stessa fine
degli altri, decapitato e smembrato sotto gli sguardi soddisfatti dei loro
nemici. Ormai Famagosta era in mano loro. Lala Kara Mustafa Pascià non
solo aveva vinto, ma aveva tradito le condizioni della resa e le convenzioni
di guerra che garantivano la salvezza della città assediata, che decideva di
arrendersi. Forse il suo intento era di vendicare i suoi cinquantaduemila
morti, tra cui quella di suo figlio. Forse non aveva digerito che tutti quei
caduti fossero stati opera di appena seimila uomini asserragliati dentro la
fortezza. Forse, semplicemente, Lala Kara Mustafa era un mostro perverso che godeva delle
sofferenze imposte ai propri nemici, e non solo a loro. Andrea
sperava, come può sperare un ragazzo ingenuo ed affezionato al suo padrone,
che avendolo lasciato in vita, al contrario degli altri, il Pascià si sarebbe
limitato a mantenerlo in schiavitù, in vista di un lauto riscatto. Le teste
mozzate e messe in mostra di Astorre Baglioni,
Nestore Martinengo e Gianantonio
Querini, non riuscivano a convincerlo del
contrario, e nemmeno l’oscillare al vento del corpo di Lorenzo Tiepolo, che
il Pascià aveva fatto impiccare appena entrato trionfante a Famagosta. Ma
Andrea sperava, non poteva arrendersi. Considerava Marcantonio il padre che
non aveva mai conosciuto. Sin da bambino, paggio presso di lui, era stato
trattato con affetto. Divenuto più grande, era diventato il suo servo
personale. Marcantonio lo conduceva sempre con sé. Anche là, a Famagosta, gli era al fianco, salvo che in quelle ore
cruciali in cui si era consumata l’ignobile carneficina. Marcantonio
gli aveva chiesto di rimanere nella fortezza e Andrea era stato geloso di Gianantonio, che invece aveva potuto accompagnarlo. Ora
che di Gianantonio era rimasta solo la bella testa
infilzata su un pennone, Andrea, ancora ben vivo, ringraziava il cielo di
quel benedetto buonsenso. Andrea
continuò a sperare fino al 17 agosto. Quel giorno, poté solamente
tormentarsi, seguendo il martirio di Bragadin da
lontano, confuso in mezzo alla folla sbeffeggiante ed urlante di giannizzeri
in divisa verde e rossa, sopraffatto e stordito dal suono di corni, pifferi,
trombe, cembali, campane e tamburi, intontito dal sole rovente che martellava
senza pietà. Quel
mattino, avevano liberato Marcantonio dalla gabbia: era pieno di ustioni
e non si reggeva più in piedi, dopo
essere rimasto per tredici giorni in quella posizione assurda. Nudo com’era,
lo avevano trascinato fino alla sua nave e là lo avevano appeso all’albero,
per ore intere, massacrandolo con oltre cento frustate. Ogni colpo era per
Andrea una stilettata al cuore. Anche quando aveva distolto gli occhi da
quella terribile vista, non riusciva a smettere di tremare. Quando
infine lo avevano liberato, era stato soltanto per costringerlo a camminare
lungo la fortezza, ancora nudo, con una gran cesta piena di pietre e
spazzatura sulle spalle già ustionate e tremendamente martoriate,
obbligandolo con la forza a baciare la terra quando passava davanti al
Pascià. Marcantonio cedette più volte e ogni volta lo fecero riprendere, con
perversa brutalità. Le urla erano assordanti. Lungo il cammino chiunque
poteva picchiarlo e sbeffeggiarlo. Ad Andrea tremavano le gambe, ma non
voleva lasciarlo da solo lungo il percorso di quell’orribile via crucis. Improvvisamente,
ad un gesto del Pascià, Marcantonio fu trascinato nella piazza principale e
legato alla colonna della gogna. Là fu raggiunto dal suo boia, un turco alto
e grosso, con indosso solo un paio di pantaloni a sbuffo di leggera tela
bianca e in capo un gran turbante. Due aiutanti gli stavano al fianco. Andrea
avrebbe voluto chiudere gli occhi. Non aveva più la forza di guardare, ma non
trovava il coraggio di smettere, era come paralizzato. Quando comprese ciò
che gli facevano, si pentì di aver guardato. Se ne pentì per il resto dei
suoi giorni. Il
prigioniero gridò una volta sola, quando il boia iniziò a scuoiarlo a partire
dalla testa. Più tardi, mentre dava lo strappo decisivo fino all’ombelico,
finalmente Marcantonio Bragadin esalò l’ultimo
respiro, e Andrea, che non si chiamava più Andrea, ma Osman
Deli, ricacciò indietro le lacrime e la
disperazione, e ingoiò il nodo che aveva in gola, ringraziando Dio, il suo
Dio, non l’altro. Finalmente quell’agonia era cessata. Finalmente Marcantonio
era morto. Invece
non era finita. Intorno a lui gli schiamazzi continuavano, accompagnati dal
suono assordante dei tamburi e delle trombe, mentre il boia completava la sua
opera. Il suo corpo era stato staccato dalla colonna e steso a terra, per
finire di spogliarlo più facilmente di tutta la sua pelle. Ma neppure allora
era finita, perché il boia aveva continuato con cura il suo lavoro,
immergendo nel sale e nell’aceto quel povero involucro che era stato la pelle
del suo padrone. Con la massima cura lo aveva poi imbottito di paglia e di
bambagia, ricucendolo interamente fino a farne un fantoccio. Gli aveva posto
sul capo un cappello di pelliccia, lo aveva rivestito della sua toga porpora
di senatore e lo aveva issato in groppa ad una vacca. Così aveva sfilato per
le strade della città, mentre quel che rimaneva del suo corpo, quella massa
sanguinolenta e spaventosa, era stato macellato, come quello di un animale. I
suoi quarti erano stati infilzati ai quattro torrioni estremi della fortezza,
al Diamante, all’Arsenale, al Cavalier di Limissò e al Baluardo Andruzzi,
e la testa e le interiora erano state appese alle corde dello stendardo. Per
fortuna, gli occhi del fantoccio non avevano potuto vedere quello scempio.
Andrea invece non era stato tanto fortunato. Osman Deli, che tale era
diventato per servire il suo padrone fino in fondo, sentì il macigno che
aveva sul cuore come un peso impossibile da trascinare e finalmente crollò a
terra, stordito dal sole, dalle urla, dai tamburi, dalle trombe e dal
terribile dolore che lo squarciava dentro. Marcantonio era morto e non
avrebbe avuto una tomba su cui piangerlo, né a Famagosta,
né altrove. Anche
per le strade di Costantinopoli, Lala Kara Mustafa esibì orgogliosamente il suo trofeo-fantoccio,
insieme alle teste mozzate dei suoi compagni, ed anche là Osman
Deli lo seguì. Non voleva perderlo di vista. Solo
quello rimaneva dell’uomo che aveva amato come un padre. Quando infine il
Pascià si stancò del suo macabro giocattolo, lo fece appendere all’arsenale,
in modo che tutti quelli che vi passavano potessero vederlo. Un monito ai
veneziani e a quanti potessero ancora pensare di opporsi all’impero ottomano.
Le teste mozze, invece, impartì che fossero sepolte nel cimitero degli
schiavi, vietando di porvi alcun segno di riconoscimento. Osman avrebbe
voluto che lo tirassero giù. Vedere il fantoccio-Bragadin
esposto in quel modo crudele, lo faceva star male. Non sapendo a chi
rivolgersi, decise di chiedere aiuto al bailo,
sempre che riuscisse a farsi ricevere. Alle prime luci del mattino si recò a
Pera, al suo Palazzo, dove scoprì che il bailo vi
era tenuto prigioniero. Nel suo giardino, un gruppo di giannizzeri faceva la
guardia, per evitare che potesse fuggire. Osman
osservò la situazione da lontano, per qualche tempo, notando che qualcuno
riusciva a passare, dopo una sommaria perquisizione. Il primo ad entrare fu
un prete e, poco dopo, un ebreo dal turbante giallo, probabilmente un
mercante. Decise
che avrebbe tentato anche lui, spacciandosi per il fattorino di qualche commerciante.
Non sapeva più se avrebbe potuto servire a qualcosa, ma voleva parlare con
qualcuno e se il bailo non era la persona giusta,
avrebbe in ogni caso potuto suggerirgli qualche utile soluzione. Fu
il suo nuovo travestimento da turco, unito forse all’aspetto innocuo della
sua giovanissima età, a fornirgli il salvacondotto per accedere alla presenza
del bailo. Marcantonio
Barbaro lo accolse con cordialità, pur non sapendo chi fosse. Era alto,
elegante, dal portamento aristocratico e il suo sguardo lo studiò in ogni
minimo dettaglio, prima di invitarlo a parlare. Dopo
avergli raccontato la sua storia, Osman gli espose
la situazione in cui si trovavano le spoglie di Bragadin,
all’arsenale, e la necessità di trovare un modo per convincere le autorità a desistere
da quell’ulteriore infamia. -
Non ho potuto vederlo. Purtroppo sono recluso nel mio stesso palazzo, ma me
ne hanno già parlato. Anche poco fa, padre Gontrano,
si torturava all’idea che i poveri resti di Bragadin
fossero abbandonati agli uccelli e alle intemperie. – -
Ecco, sono qui proprio per questo. Come si può fare per convincere i turchi a
finirla? – -
Non è facile, Andrea. Il mio ascendente sul Gran Visir, in questo momento,
come puoi vedere da te, non è molto alto. Certo, se sono qui, a casa mia, e
non a marcire in una prigione, lo devo a lui. Ma non posso tirare troppo la
corda. Non si sa mai cosa ne possa venire. Mohammed Soqollu
non è un pazzo, ma deve trovare il suo interesse, per muoversi. Ed è
difficile capire quali siano i suoi scopi, in questo momento. – -
Quali sono i suoi rapporti con Lala Kara Mustafa? – -
Non troppo buoni. Lo ha sempre osteggiato davanti al Sultano. – -
Allora si potrebbe fare leva su questo. – -
E chi? Io non sono in condizioni di farlo. Non ora. – -
Allora dobbiamo lasciarlo appeso lì finché a qualcuno non venga in mente di
tirarlo giù? – chiese Osman, con disperazione. -
Farò quello che posso. C’è un medico ebreo che ha forti appoggi. Vedrò di
fargli giungere un messaggio, tramite un mercante mio amico. – -
Grazie. Per tutto quello che riuscirete a fare. – disse Osman,
anche se temeva che sarebbe stato troppo poco. -
E tu che farai adesso? Dove ti sei sistemato? – -
Per ora dormo al caravanserraglio, dall’altra parte del Corno d’oro. Faccio
piccoli lavori all’arsenale, per non allontanarmi da Bragadin.
Finché i giannizzeri sopporteranno la mia presenza, andrò là. – -
Forse dovresti pensare a tornare a casa. Qui non puoi fare più niente per
aiutarlo. Bragadin è morto. Dovrai rassegnarti a
quest’idea. – Osman non trovò nulla da dire. Anche se Bragadin non c’era più, il suo fantoccio era ancora là e
lui doveva fare qualcosa. - Buona fortuna, Andrea. – Osman si congedò, sapendo che sarebbe tornato. Non
poteva arrendersi così. E infatti ci tornò. Era appena sbarcato a Galata, quando vide padre Gontrano
trascinato via e malmenato da quattro giannizzeri. Si precipitò a Palazzo per
chiedere se sapessero cosa fosse accaduto, ma fu solo dopo molte insistenze
che lo fecero passare. Il bailo era
sconvolto. -
Gli avevo affidato un messaggio da far giungere a Venezia. Fino ad oggi non
lo avevano mai spogliato, prima di lasciarlo andar via. – -
Quel messaggio conteneva notizie pericolose? – -
No, non è grave tanto quello che c’era scritto, quanto il fatto in se stesso.
Penseranno che l’abbia sempre utilizzato come spia, tradendo la loro fiducia.
Se non sono spacciato io, lo è lui di sicuro. – -
Ma se non era niente di compromettente, non saranno tanto crudeli da
ucciderlo. – -
Tu non li conosci ancora, Andrea. – -
Sì, forse un po’ li conosco. – disse Osman,
ripensando a Famagosta. -
Stai attento. Venire qua ti mette in grave pericolo. – -
Fuori di qui non parlo e non m’incontro con nessuno. Quale pericolo potrei
costituire per loro? – -
Non lo so. Stai attento. – “Il
negoziato con i turchi è simile ad un gioco con la palla di vetro. Quando il
compagno la lancia con forza, non bisogna ribatterla violentemente, né lasciarla cadere a terra.” Anche
questo c’era scritto nel messaggio. Il bailo sperò
che non fossero troppo duri con padre Gontrano, ma
una parte di lui sapeva già trattarsi di un’inutile speranza. -
L’hanno impalato. – mormorò Osman, senza riuscire a
distogliere la mente dall’immagine di quel turpe supplizio. -
È morto? – gli chiese il bailo, tristemente. -
No, non ancora. Dicono che ci vorranno almeno un paio di giorni. – Il
boia era un esperto. Sapeva esattamente come agire, per evitare di ledere
organi vitali, ottenendo di prolungare il supplizio per giorni. Quando Osman aveva abbandonato la piazza, padre Gontrano, infilzato in un palo, che lo attraversava
dall’ano ad una spalla, non era ancora morto, ma era come se lo fosse. I suoi
occhi erano aperti, ma sembrava non vedere nulla. Neppure il dolore
traspariva dal suo volto. La sua espressione assomigliava a quelle di certi
dipinti che aveva visto appesi nelle chiese. Sembrava trasfigurato
dall’estasi mistica. -
Adesso tocca a me. – mormorò Marcantonio, rabbrividendo. -
Perché non tornate a Venezia, prima che sia troppo tardi? – -
Non credo che Soqollu me lo permetterà. Deve in
ogni caso risponderne al Sultano. - -
Ma con Soqollu si può sempre trattare, no? Non
avete sostanze da offrirgli? – -
Vedo che hai già capito cosa muove questo mondo. – si stupì il bailo, guardandolo con un sorriso che era quasi
d’ammirazione. -
Dovete tentare. Quella è una morte troppo orrenda. – disse Osman, che pure, di morti, ne aveva viste tante. Quella
di Bragadin gli tornava in mente di continuo. E
quella di padre Gontrano lo avrebbe perseguitato a
lungo. -
Tenterò. – rispose il bailo. Marcantonio Barbaro partì la settimana
successiva, lasciando padre Gontrano ancora esposto
nella piazza, benché fosse morto ormai da cinque giorni, il fantoccio di Bragadin ancora appeso all’arsenale, e Osman Deli sempre più deciso a
farlo rimettere giù. Eppure
sarebbe accaduto senza il suo intervento. Pochi giorni dopo, il 7 ottobre, la
flotta ottomana fu distrutta a Lepanto da quella della Lega Santa, formata da
104 galee e 6 galeazze veneziane, 58 galee spagnole, 12 di Cosimo dei Medici,
12 dello Stato Pontificio e 3 dei Cavalieri di Malta. Peccato
che non si fossero mossi in tempo per raggiungere Famagosta,
prima che la fortezza cadesse, pensò Osman, con profondo rancore. Nonostante
il Gran Visir Mohammed Soqollu avesse commentato
che i veneziani avevano fatto a Selim solo la barba
- che sarebbe cresciuta più folta - mentre loro, prendendo Cipro, avevano
tagliato a Venezia un braccio - che non sarebbe ricresciuto - subito dopo, Bragadin scomparve dall’arsenale. Non era più il simbolo
di una vittoria, ma quello di una disfatta che si voleva cancellare in
fretta. Che fosse stato per ordine del Sultano Selim,
a cui il supplizio di Bragadin non era piaciuto
affatto, di Soqollu, che era stato amico del bailo, o dello stesso Lala Mustafa, che tentava di rientrare nelle grazie del
Sultano, questo Osman non lo seppe mai. Però, da
quel momento, il suo unico scopo fu quello di scoprire dove lo avessero
nascosto. Girolamo Polidoro
giunse a Costantinopoli esattamente il giorno in cui si festeggiava la nomina
a Gran Visir di Lala Kara Mustafa,
il 28 aprile 1580, dopo due settimane di un viaggio perfetto, con i venti
giusti a gonfiare le vele, il mare appena increspato e poche bianche nubi a
rincorrersi nel cielo. Un viaggio veloce, senza ombre né accadimenti, che si
cancellò presto dalla memoria di tutti quei navigatori, proprio per il fatto
che non ci fosse alcun evento da ricordare.
Ma
il destino fissa appuntamenti nei luoghi e nei momenti più strani e fu
proprio quel giorno che Girolamo incontrò Osman Deli, un turbante bianco sulla testa bruna, occhi azzurri
in un volto barbuto e un sorriso indeciso, quasi un modo di chiedere scusa.
Un rinnegato, lo bollò Girolamo, senza rifletterci un attimo. Sì, in fondo
era quello che era, un rinnegato. Ma per amore. Dopo
aver espletato le prime formalità con il bailo
Paolo Contarini, Girolamo fu libero di andarsene a
zonzo per la città. Era la prima volta che si recava così lontano da Venezia.
Il grano ottomano avrebbe dovuto far fronte, ancora una volta, alla carestia
che minacciava Girolamo,
ancora fermo sul molo, si guardava intorno, incerto sulla direzione da
seguire, quando Osman gli si avvicinò. -
Ti serve una guida? È la prima volta che vieni a Costantinopoli, vero? – gli
chiese. -
Sì, è la prima volta, come hai fatto a capirlo? – -
Dopo anni di questo mestiere, so riconoscere uno straniero che non sa dove
andare. – -
E quanto mi costerebbe il tuo servizio? – -
Non preoccuparti, ci metteremo d’accordo. Dimmi solo dove vuoi andare, se già
lo sai. Altrimenti posso consigliarti io. – -
Mi serve un posto dove dormire, immagino. – -
C’è la locanda San Marco, dove di solito si fermano i veneziani. Non è
lontana. – -
Come ti chiami? – gli chiese Girolamo. -
Qui mi chiamano Osman, ma una volta ero Andrea. – Girolamo
valutò che dovesse avere più o meno la sua età, ma una storia ben diversa,
che lo aveva portato a vivere tanto lontano da casa e a cambiare nome e
religione. Guardandolo negli occhi, vi lesse un’infinita tristezza e una
grande bontà. -
Io mi chiamo Girolamo. Girolamo Polidoro da
Venezia. – -
Venezia, naturalmente. L’avevo capito. – -
Ma anche tu mi sembri veneziano. – -
Un tempo. Molto tempo fa, prima che Venezia tradisse Famagosta.
– Girolamo
tentò di ricordare quella storia, le voci che erano circolate a quei tempi,
però non gli sovvenne d’alcun tradimento. Ma forse era stato troppo giovane
per afferrare il senso delle storie che aveva udito. -
Ci possiamo togliere dal sole? – chiese Girolamo, che iniziava a sudare. -
Preferisci restare a Galata o andare alla città? – -
Alla città. – -
Allora vieni, c’è un caicco che sta per partire. – Girolamo
non aveva fatto in tempo a sbarcare, che si ritrovò nuovamente in mare.
Osservò la costa che si allontanava e si disse che il posto non gli sembrava
un granché. Domandò ad Osman notizie di Galata. Lui gliela descrisse accuratamente. Quattromila
casette di legno e due chiese, Santa Maria e i Santi Marco e Pietro. La
colonia era formata da più settori. Galata era
quello dei genovesi. In quello che chiamavano Pera, c’era il Palazzo del bailo di Venezia, che vi aveva la sua corte, di una
quindicina di persone, tra cui un prete che fungeva da notaio. Tre volte a
settimana amministrava la giustizia tra i veneziani, ma il suo compito
principale era quello di controllare le navi che andavano e venivano da
Venezia. Senza il suo salvacondotto, nessuno si muoveva. A Galata avevano bottega anche gli ebrei, che però poi
dormivano nel loro settore. E più discosto c’era il quartiere degli schiavi.
Gli raccontò che ogni domenica il bailo, con i
rappresentanti degli altri latini presenti in città, doveva rendere omaggio
al Sultano. Al banchetto imperiale che ne seguiva, però il bailo non partecipava. Era abitudine consolidata che si
mantenesse ad una certa distanza. Secoli di guerre avevano abituato veneziani
e turchi a diffidare gli uni degli altri, eppure i loro scambi commerciali
erano tanto importanti e radicati che non potevano fare a meno di mantenere i
contatti. Osservando la costa dal
mare, quella che svettava sul profilo di basse casette di legno, era la torre
di Galata, edificata dai genovesi, alta e rotonda,
costruita di mattoni dorati e col tetto grigio a forma di cono. Il
mare era tranquillo e la traversata non fu molto lunga. Girolamo si voltò ad
osservare la città che si avvicinava piano. Minareti e cupole svettavano
dalle mura, mentre un cielo limpidissimo permetteva al sole di riflettersi su
quelle superfici bianche e azzurrine. Era uno spettacolo da mozzare il fiato.
Se Venezia era uno splendore, Costantinopoli sembrava un sogno. Una
volta messo piede a terra, Girolamo si rese conto di avere ancora con sé la
sua sacca. Non era molto pesante, ma portarsela dietro tutto il giorno
l’avrebbe fatta diventare ben presto un macigno. -
Vieni. Ti porto a bere un caffè. – gli disse Osman. -
Me ne hanno parlato, ma non molto bene, se devo essere sincero. – -
È solo una questione d’abitudine. Scommetto che quando tornerai a casa ti
mancherà. – -
Intanto non ci sarebbe un posto dove lasciare il bagaglio? – -
Potresti lasciarlo da me. Abito qui vicino. – Osman lo guidò verso un piccolo gruppo di casette di
legno affacciate sulla costa. Si avvicinò ad una di esse, che una volta
doveva essere dipinta di un tenue color rosato, di cui era rimasta traccia su
qualche scaglia qua e là. Ne aprì la
porta, poi gli sfilò la sacca dalla spalla, entrò un momento e tornò subito
all’aperto richiudendo la porta. -
Qui sarà al sicuro e sarà comodo riprenderla quando dovrai tornare a Galata. – -
Ti ringrazio. – -
Bene, e adesso ci vuole proprio un caffè. -
In breve tempo, si addentrarono nella città,
lasciandosi il mare alle spalle. La strada era fiancheggiata da case
variamente colorate, nella cui ombra camminarono in silenzio. Poi deviarono
per una stradina più stretta e là, poco oltre l’angolo, Osman
si fermò. -
Il kahvehane è qui. – disse, entrando nella mescita
di caffè. Ai fianchi della porta, sulla strada, c’erano due panchine, in quel
momento vuote. Il
locale era grande. Lungo le pareti erano disposte lunghe panche coperte di
cuscini, davanti alle quali erano distribuiti piccoli tavolini bassi. Le
pareti erano piastrellate di maioliche colorate, fino all’altezza del petto
di un uomo, e per il resto dipinte di un bel giallo zafferano. All’interno
aleggiava uno strano profumo, che Girolamo non avrebbe saputo descrivere. Su
una delle panche erano seduti due uomini. Dopo aver scambiato uno sguardo con
Girolamo, Osman disse qualcosa al gestore e poi lo
invitò a sedersi. -
Di solito qui è pieno di gente. C’è sempre qualcuno che suona, si gioca a
scacchi, si legge, si fuma il narghilè. Ci puoi incontrare viaggiatori che
raccontano strane storie, o narratori di professione che declamano il Mu’allaqat o lo Shahnameh. – In
quel momento, i due uomini seduti di fronte a loro iniziarono a discutere
animatamente, tra i commenti allegri e chiassosi del gestore, che ben presto
fece loro cenno di andarsene, ridendo. Quindi entrambi si alzarono, lo
salutarono e si allontanarono in fretta. -
Che succede? – chiese Girolamo. -
Stanno andando alla festa. Si preoccupavano di essere in ritardo. È per
questo che qui oggi non c’è nessuno. – -
Quale festa? – -
Oggi si festeggia la nomina a Gran Visir di quel demonio di Lala Kara Mustafa. – Girolamo non lo aveva mai sentito
nominare. -
Era il comandante della flotta che ha assediato Famagosta,
nove anni fa. – gli spiegò Osman. -
Sai, devo proprio dirtelo. Di quella storia non mi ricordo niente. – -
Non sai quanto sei fortunato. – Il
suo commento gli fece intuire che Osman invece
doveva esserci stato coinvolto, anche se allora doveva essere giovanissimo.
La sua curiosità lo spinse a chiedergliene conferma. -
Tu c’eri, vero? – Osman sospirò, ma non rispose, limitandosi ad un assenso
con la testa. Il suo volto si era trasformato in una maschera triste. Il
gestore si avvicinò, appoggiando un vassoio sul tavolino davanti a loro e si
allontanò, dopo averli studiati per un attimo con curiosità. Girolamo
guardò i due piccoli bricchi di rame e le due tazzine di vetro. Osman bloccò la mano che Girolamo aveva allungato. -
Non ancora. Dobbiamo aspettare che il caffè si depositi sul fondo. – -
Mi fido di te. – disse Girolamo, ritraendo la mano. Mentre
studiava con un certo disagio quel liquido nerastro, si decise a chiedergli: -
E dopo, come mai non sei tornato a casa? – Osman si voltò di scatto verso di lui e i suoi occhi
non gli sembrarono più tanto buoni. -
La mia casa era Marcantonio Bragadin. – rispose,
con freddezza. Quello,
almeno, Girolamo lo sapeva. Bragadin era stato il
difensore di Famagosta. -
Eri suo figlio? – -
No, prima un paggio e poi il suo servitore. – -
Ma a Venezia non hai più nessuno? – -
Non sono più veneziano, non l’hai capito? Forse ho sbagliato ad offrirmi come
guida proprio a te. – -
Scusami, non volevo farti inquietare. Non ne parliamo più. – Osman cambiò
argomento. -
È pronto. Te lo verso io. Non bisogna far salire i fondi. Ecco, adesso puoi
berlo. – lo invitò, dopo aver riempito la tazzina. Girolamo
guardò con stupore quel liquido scuro, che emanava un profumo strano ma
accattivante e, preso coraggio, lo assaggiò.
E poi lo bevve, a piccoli sorsi, come faceva Osman. -
Che ne dici? – Girolamo scoppiò a ridere. -
È buono! – -
Certo che è buono. – -
Grazie. È stata una vera scoperta. – -
Ne farai altre, te lo assicuro. – Dopo la penombra confortante del locale,
il calore della strada colpì di nuovo Girolamo. -
Fa sempre così caldo in questa stagione? – -
Sì, di solito, quando non piove. Ma si sta bene, finché il vento spazza
l’aria. D’estate invece fa un caldo infernale. – -
Dove stiamo andando? – -
Dove vuoi tu. Ti posso condurre al gran bazar, all’ippodromo, oppure alla
Porta D’oro, se vuoi vedere la festa. – -
Non credo che tu ci andresti volentieri, alla festa. – commentò Girolamo. -
No, è vero. – -
Allora non mi interessa. – Osman si voltò a guardarlo, diviso tra lo stupore e la
gratitudine. -
Al gran bazar, allora? – -
Va bene. – Dopo un lungo cammino, giunsero ad una
piazza. -
Quella è la colonna di Arcadio. – disse Osman. -
Cos’è quell’assembramento? – -
È l’Avrat Pazari, il
bazar delle donne. – Avvicinandosi
al mercato, Girolamo poté vedere i banchi e le botteghe di fiori, candele,
profumi ed unguenti che donne velate offrivano ad altre donne, anch’esse
velate. -
Questa è l’unica area dove le donne possano commerciare. – affermò Osman. -
Non ho visto molte donne per le strade. – -
I turchi preferiscono tenerle rinchiuse in casa. E quelle che escono sono sempre
ben scortate, come hai potuto notare. - Per
il resto, il gran bazar si manifestò esattamente come Girolamo se lo
immaginava dalle descrizioni che ne aveva ricevuto. Un’infinita serie di
stradine coperte che s’incrociavano, trasformandosi in un labirinto su cui si
affacciavano una moltitudine di botteghe, tutte costruite in legno. In alcune
si aprivano grandi porte intarsiate e traforate, altre erano dipinte di
colori squillanti. Ogni strada era adibita alla vendita della medesima merce.
C’era quella delle stoffe e quella dei tappeti, quella delle spezie e quella
dei gioielli, quella dei profumi e quella degli abiti. In alcune di esse, la
merce era esposta anche all’esterno e i mercanti contrattavano con i
compratori con la foga disperata di chi sta lottando per la vita. Non
somigliavano affatto a quelli di Rialto. Le voci si confondevano
trasformandosi in un chiasso incomprensibile. I colori lo colpivano agli
occhi senza lasciargli il tempo di distinguere i singoli oggetti, gli odori
forti e penetranti lo stordivano. Mercanti più audaci gli si paravano davanti
mettendogli sotto il naso la merce in vendita. Ad un certo punto si erano
fermati a mangiare qualcosa, ma presto si erano di nuovo tuffati nella
colorata corrente del bazar. Dopo aver camminato a lungo, fendendo a tratti
una vera folla, Girolamo si ritrovò a desiderare una cosa soltanto,
allontanarsi in fretta da tutto quel caos. -
Come si esce da qui? – chiese ad Osman. -
È facile. Qua dietro c’è una delle porte. Vieni. – Osman lo afferrò per un braccio e lo guidò fuori,
schivando la folla. Una
volta all’esterno, Girolamo sospirò. -
Grazie. È molto animato e divertente, ma non ne potevo più. – -
Non ami molto la confusione, vero? – -
No. In effetti preferisco più spesso la pace ed il silenzio. – -
Anch’io. – -
Dove potremmo trovarli, in questa città? – -
Un posto ci sarebbe. - -
Allora andiamoci. – I
suoi occhi azzurri lo osservarono per un istante. - Ne hai davvero un gran bisogno, in effetti.
– commentò Osman, sorridendo ironicamente. Girolamo
pensò che avrebbe fatto meglio a chiedergli quale fosse quel posto, ma
all’improvviso sentì che doveva lasciarsi andare. Se voleva davvero conoscere
la città, doveva affidarsi completamente ad Osman. Girolamo
non si aspettava nulla del genere, quando misero piede nell’hamam. In mezzo al grande salone, c’era una bellissima
fontana di marmo bianco, i cui zampilli si riversavano in vasche
concentriche, con un mormorio lieve e rilassante. Intorno alla sala correvano
gallerie di legno come ne aveva viste a teatro, a Venezia. Solo che lì la
gente stava sdraiata sui cuscini, con indosso solo teli di stoffa bianca. Il
tetto era a cupola con tonde finestrelle che facevano piovere in basso fasci
di luci colorate. Furono accolti da due robusti tellak,
a torso nudo, che li condussero in un’altra sala con una serie di cabine di
legno dove si spogliarono e indossarono un telo bianco intorno ai fianchi e
degli zoccoli. Subito dopo li condussero in una sala piena di nebbia. Era
vapore caldissimo, che immediatamente costrinse i loro corpi a sudare
copiosamente. Attraverso la nebbia, Girolamo vide confusamente che l’intero
ambiente era fatto di marmo, circondato di colonne e con il soffitto a
cupola. Al centro vi era un grande letto circolare di pietra calda, su cui si
distesero. Intorno vi erano piccole fontane di marmo da cui qualcuno
attingeva acqua per rinfrescarsi. Girolamo guardava Osman,
di fianco a lui. Le perline di sudore affioravano sulla sua fronte, sul
braccio, sul torace, scivolando e andando a perdersi in un triangolo di fitti
peli scuri. Osman si accorse che lo stava
osservando, ma non disse nulla. Fu invece Girolamo a parlare, colto da
imbarazzo. -
Soffro molto il caldo. – -
Più tardi ti rinfrescherai. – gli rispose Osman,
sorridendogli in modo strano. Poi
furono accompagnati in un altro ambiente con tavoli di marmo su cui li fecero
sdraiare. -
Cosa ci fanno? – chiese Girolamo, lievemente inquieto. -
Nulla di male, non ti agitare. Alì è molto bravo. Lascialo fare, ed uscirai
da qui come nuovo. – Girolamo
non si agitò. Alì, il tellak che si occupava di
lui, iniziò ad insaponarlo con sapone d’Aleppo e poi a strigliarlo con un
guanto di pelo di cammello, inondandolo d’acqua tra una strigliata e l’altra.
Poi lo massaggiò e lo pizzicò, alternando dolcezza a brutalità, fino a
suscitargli brividi in tutto il corpo. Nessuno lo aveva mai toccato così.
Girolamo non si pentì di aver seguito Osman. Quando
il tellak ebbe finito, lo asciugò e gli pose un
telo bianco intorno ai fianchi. Quindi
furono condotti nella sala principale, sotto la galleria, dove li aspettavano
cuscini ricamati, caffè e bibite, oltre ad un narghilè di cui entrambi
rifiutarono di servirsi. -
Dopo questo trattamento, mi sembra che potrei dormire. – disse Girolamo. -
È l’effetto del bagno. Chiudi gli occhi e riposati. – Ma
Girolamo non dormì. Col trascorrere dei minuti si sentiva sempre più leggero,
riposato, con la testa vuota e persino felice. Osman aveva conosciuto molta gente, facendo la guida,
ma era la prima volta che provava tanta simpatia per qualcuno. Girolamo Polidoro gli sembrava una persona semplice, quasi
ingenua, curiosa e spontanea. Certo, lo conosceva da poche ore appena, ma lo
aveva colpito. Con lui sembrava facile fare amicizia. Dopo aver cenato, quella sera, Girolamo
provò un bizzarro impulso. Quello di restare con Osman.
Non voleva separarsi da lui. Si rendeva ben conto che era assurdo, ma aveva
la sensazione che quel desiderio fosse inevitabile. Così, quando raggiunsero
la casetta, per permettergli di riprendersi il suo bagaglio, gli sfuggì
un’impudente proposta. -
Non potresti ospitarmi tu, allo stesso prezzo della locanda? – Osman tentò di guardare bene in faccia Polidoro, ma la luce della luna che in quel momento
filtrava a malapena dalle nuvole, gli permise soltanto di distinguerne lo
scintillio degli occhi e dei denti. -
Se ti accontenti di dormire in questa baracca, su un tappeto…
- -
Grazie, – gli disse Girolamo, interrompendolo – sarà sicuramente meglio di
come ho dormito sulla galea, per due settimane. - -
Chissà se domani ti sentirai ancora di ringraziarmi. – aggiunse Osman. La
casetta di legno non era affatto una baracca come appariva dall’esterno e
come Osman si compiaceva di far credere. Quando vi
accese una lanterna, Girolamo notò il pavimento coperto di tappeti, lungo le
pareti alcuni materassi bassi, coperti di cuscini, e due cassoni ai lati
opposti della stanza. In un angolo vi era una giara e accanto ad essa un
fornellino di rame. Su una mensola bacili e brocche. Su un tavolino, qualche
bicchiere e tre o quattro tazzine, con un bricco proprio uguale a quello
della mescita di caffè. -
Non è esattamente come me l’aspettavo. – commentò Girolamo. -
Ti sei già pentito? – -
No, al contrario. È bello qui. – -
C’è tutto quello che mi serve. Del resto io sto sempre fuori, e di solito non
ospito nessuno. – -
Quello è per il caffè? – chiese Girolamo, indicando in direzione del
tavolino. -
Sì. Non è difficile da fare. – -
E adesso potresti farlo? – Osman lo
guardò divertito. -
Allora ti è piaciuto davvero. – -
Non sono più tanto sicuro. Vorrei rinfrescarmi la memoria. – Osman,
ridendo, pose l’acqua a scaldare. -
Da quanto vivi qui a Costantinopoli? – -
Da nove anni. – rispose Osman. -
E come ci sei finito? – Osman lo guardò a lungo, meditando se fosse il caso di
raccontargli tutta la storia. Girolamo sembrava davvero curioso di
conoscerla. Era tutto il giorno che gli poneva domande su di lui. In fondo,
perché no? Ricordare non gli faceva più male come una volta. Era
ormai molto tardi, quando Osman smise di parlare.
Per tutto il tempo Girolamo aveva avuto l’impressione di vivere accanto a lui
quella guerra infernale, soffrendo il freddo ed il caldo, la fame e la sete,
la paura, la speranza, la delusione, il dolore. Con lui aveva curato le
ferite, respirato l’odore della polvere da sparo, pulito le armi. Con i suoi
occhi aveva visto quell’immenso esercito verde e rosso che li pressava senza
lasciare scampo e aveva sentito il puzzo di putrefazione di migliaia di
cadaveri lasciati a cuocere al sole sotto le mura. Accanto a lui si era fatto
turco, per conservare la possibilità di muoversi liberamente. Con lui si era
nascosto nella notte per portare acqua e cibo al suo padrone, costretto in
una gabbia. Accanto a lui ne aveva seguito le torture, con il cuore in gola,
e con un assurdo senso di sollievo, ne aveva infine osservato la morte. Ci
sono momenti in cui capita di riflettersi completamente nell’anima di un
altro essere umano e quello, per Girolamo, era il momento. -
Due mesi dopo c’è stata Lepanto e ricordo che tutti, a Venezia, hanno parlato
solo di quella vittoria. – commentò Girolamo. -
Così Marcantonio Bragadin è stato tradito due
volte. – -
Quando tornerò a casa, ricorderò a tutti questa storia. Vedrai che il suo
nome non sarà dimenticato. – -
Adesso è meglio che dormiamo. – Un
velo di tristezza aveva avvolto Girolamo come una veste. Osman
faceva parte integrante di quella sensazione. Dopo
aver parlato tanto a lungo, Osman si sentiva
svuotato, come se tutto il suo dolore residuo, attraverso la sua voce, si
fosse trasferito altrove. A Polidoro forse. Gli
vedeva un’espressione mesta e un po’ assente, che non era certo la stessa di
quella mattina, quando lo aveva visto al molo per la prima volta. -
Mi dispiace di averti rattristato. – si scusò. -
No, non preoccuparti. Sono contento che tu mi abbia raccontato la tua storia.
– -
Nel giorno del trionfo di Lala Kara Mustafa, era giusto che qualcuno conoscesse la verità su
quel demonio. – -
Bisognerebbe fargli provare le stesse pene che ha inflitto ai suoi nemici. – -
La vendetta e l’odio non servono a molto. Ti prosciugano le forze senza darti
nulla in cambio. – -
Credo che tu abbia ragione, ma è così difficile perdonare. – -
Io non l’ho fatto. Ma cerco di vivere la mia vita senza altre complicazioni.
– -
Ne hai già avute abbastanza, in effetti. –
gli disse Girolamo, con una pacca di consolazione sulla spalla. Nonostante l’ora tarda e la stanchezza,
Girolamo faticò ad addormentarsi. Continuava a sentire nella mente la voce
ipnotica di Andrea che gli raccontava l’incredibile martirio del suo padrone.
La guerra è guerra e in battaglia si muore, ma non così. Quello era
qualcos’altro. Qualcosa di simile all’inferno. Aveva visto anche lui qualche
impiccato e persino un combattimento con morti e feriti. Quella era una morte
pulita. Dolorosa, certo, ma dignitosa. Quello che Bragadin
aveva subito non aveva nome e sarebbe stato difficile trovargliene uno. Ammirava
il coraggio di Andrea. Ce n’era voluto tanto per fare quello che aveva fatto.
Pur di restare libero di muoversi, per aiutare Bragadin
di nascosto, aveva voltato le spalle alla sua gente. Durante il suo racconto,
aveva parlato più volte di tradimento. Venezia aveva tradito Bragadin, di questo si era convinto anche lui. Ma quello
di Andrea non era stato un tradimento, semmai la dimostrazione di un amore
incondizionato. E Girolamo lo ammirò anche per questo. E poi pensò che
sarebbe stato incredibile meritare un amore simile. Un amore assoluto,
totale, indissolubile. Per un amore come quello valeva la pena di vivere e
morire. Prima
di cedere al sonno, Girolamo ripensò alle goccioline di sudore che si
affacciavano sulla pelle di Osman, all’hamam, e al desiderio improvviso e strano che lo aveva
colto, quello di accarezzarlo. Gli sarebbe piaciuto sentire il contatto della
sua pelle. La luna era alta nel cielo e Girolamo la
poteva osservare restando tranquillamente sdraiato sul tappeto, perché il
tetto non c’era più. Quando si girò su un fianco, nella luce lattea che illuminava
la stanzetta, vide qualcuno muoversi. Qualcuno che si avvicinò a lui
chiedendogli a bassa voce di ascoltarlo. Girolamo restò immobile e muto
cercando di distinguerne i tratti, senza riuscirci. Così non gli rimase che
ascoltare. -
So che stai cercando di vedermi, ma anche se ci riuscissi, non mi
riconosceresti. Una volta ero diverso. Adesso sono soltanto il simulacro di
me stesso. Sono qui per affidarti il mio ultimo desiderio. Voglio tornare a
Venezia. Tu puoi farlo. Puoi portarmi con te. Ti prego, non farmi restare
qui. È troppo doloroso per me. – -
Ma chi sei? – chiese Girolamo. La
figura si allontanò, fino a scomparire attraverso la porta. Soltanto allora
gli giunse la risposta. -
La pelle di Marcantonio Bragadin. – Osman si
svegliò di soprassalto. Aveva sognato Marcantonio. Lo aveva visto in piedi,
in mezzo alla stanza, nella sua forma di fantoccio rivestito di porpora. Non
era certo la prima volta che accadeva, ma era la prima volta che gli chiedeva
di farlo tornare a Venezia. - Ti prego, fammi tornare a casa, – gli
aveva detto – ora che ne ho l’occasione. - Osman si accorse che anche Girolamo era sveglio. Aveva
l’espressione turbata di chi era appena uscito da un incubo. -
Brutti sogni? – gli chiese. -
Ho sognato Bragadin. - -
Anche tu! – esclamò Osman, stupito. -
Ma allora, non era davvero un sogno. Ti ha parlato? Ti ha detto qualcosa? – -
Sì, mi ha detto che vuole tornare a casa. E a te? – -
Ha detto lo stesso anche a me. Mi ha chiesto di riportarlo a Venezia. – Si fissarono per qualche istante,
sbigottiti. Girolamo
era sveglio da tempo e aveva avuto tutto l’agio di rifletterci. -
Lo farò, se tu mi aiuterai. – affermò, deciso. Osman si alzò a sedere, incrociando le gambe, e lo
osservò attentamente. -
Davvero lo faresti? – -
Devo farlo. – -
Perché? È stato solo un sogno. – -
L’hai sognato anche tu. Un sogno condiviso non è più un sogno.– -
E che cos’è? – -
Una richiesta dall’aldilà o l’indizio di un destino che vuole compiersi. – Osman sorrise
appena, ma il suo sguardo sembrava vuoto. -
E se io mi rifiutassi di aiutarti? – -
E perché dovresti farlo? Tu lo amavi. Non vuoi esaudire il suo ultimo
desiderio? – -
Il suo ultimo desiderio è stato quello di permettergli di morire con dignità.
Ma non è stato esaudito. – -
Mi dispiace, Osman. Comprendo la tua angoscia e il
tuo dolore, ma lui vuole tornare a Venezia. Aiutami. – -
E dove lo nasconderai? Come farai a portarcelo? – -
Non lo so, non lo so. Devo rifletterci. Ma un modo ci sarà. Devo solo
trovarlo. – -
E se riuscissi a riportarlo a Venezia, poi che ne sarà di lui? – -
Lo porterò alla mia parrocchia. I frati sapranno cosa fare. – -
Avrà finalmente un nome su una tomba? – -
Certo che lo avrà, e anche un monumento, di sicuro. E tutti dovranno parlare di
lui per un pezzo. Non permetterò che il suo nome cada nell’oblio. – -
Tu non puoi promettere nulla del genere. Chi ti ascolterà? – Girolamo,
seduto di fronte a lui, guardò verso il tetto, che era di nuovo al suo posto. -
A Venezia ci si può far ascoltare in molti modi ed io li userò tutti. – Osman lo guardò per un momento, tentando di capire se
Girolamo avrebbe avuto davvero la determinazione per arrivare fino in fondo. -
D’accordo, mi hai convinto. Ma non sarà facile. – -
Prima di tutto, bisogna scoprire dov’è. – -
All’arsenale. In una botte per vivande. – affermò Osman. -
In una botte? – si stupì Girolamo. -
Si vede che in quel momento non avevano altro per le mani. – -
Un’altra umiliazione! – -
L’ultima. – commentò Osman, tristemente. -
Ci sarà un modo per portarla via da lì? – -
Ho un amico, all’arsenale. È uno schiavo, ma forse potrà darci una mano. – -
Stamattina devo presentarmi al bailo. Forse anche
lui potrebbe aiutarci. - -
Questo mi sembra più difficile. Non ha tanto potere, anche se le cose, adesso,
vanno molto meglio rispetto a nove anni fa. E comunque Contarini
ha appena assunto la carica. Di sicuro non ha ancora avuto il tempo di
tessere le sue complicità. – -
Andiamo a vedere. Non si mai. – -
Ti accompagno. Ma non sperarci troppo. Non è da lui che potremo ricevere
aiuto.- -
Posso dormire ancora qui, stasera? – -
Non ho nulla in contrario. – -
Grazie, Osman. – Di buon passo raggiunsero il molo, dove
caicchi e barche a quattro remi facevano la spola dalla riva a quella
opposta, su cui sorgevano Pera e Galata. Osman e Girolamo s’imbarcarono sul primo caicco che
partiva. Quando giunsero sulla riva opposta, dovettero camminare a lungo,
prima di raggiungere il Palazzo del bailo. Le basse
case di legno erano tutte addossate le une alle altre, lasciando alle strade
uno stretto passaggio. C’era un via vai di gente d’ogni colore. Tra i
turbanti bianchi dei musulmani, spiccavano i turbanti gialli degli ebrei, e
qualche raro turbante azzurro d’un cristiano greco. Tra salite e discese,
botteghe e bettole, buoni odori e olezzi sgradevoli, finalmente giunsero al
Palazzo del bailo, circondato da un bel giardino
rigoglioso e con una ricca ed elegante facciata. Paolo
Contarini li ricevette quasi subito. Girolamo ne
aveva notato l’espressione leggermente stralunata, con cui lo aveva accolto
il giorno precedente. La stessa che sfoggiava anche in quel momento, seppur
forse attenuata dalla protezione della grande scrivania dietro la quale
sedeva. -
Polidoro, sarai contento si sapere che tra una
settimana esatta potrai tornartene a casa. – esordì. Girolamo
ed Osman si voltarono contemporaneamente l’uno
verso l’altro, guardandosi negli occhi il tempo sufficiente per capire che
pensavano la stessa cosa. In quel breve lasso di tempo avrebbero dovuto
trovare il modo per sottrarre
segretamente le spoglie di Bragadin. -
Il carico della Maria Vergine inizia domani mattina all’alba. Dal momento in
cui sarà completato, potrai passare il tuo tempo come vuoi, in attesa che anche
le altre navi siano caricate. Avrai già avuto modo di notare che ci s’ingegna
molto, da queste parti, per non annoiarsi. E vedo che ti sei già trovato una
guida. In ogni caso, se hai bisogno di qualcosa, puoi chiedere. – Girolamo decise di approfittarne. -
Una cosa ci sarebbe. – -
Dimmi pure. – -
C’è un modo sicuro per far passare di nascosto qualcosa alla dogana? – chiese
Girolamo. Contarini,
dapprima sorpreso, lo osservò con attenzione. -
Qualcosa? Che cosa, esattamente? – -
Qualcosa che i turchi preferirebbero non abbandonasse questo paese. – -
Non metterti nei guai, Polidoro. Qui sono molto
severi con quelli che fanno i furbi.– -
Vorrei riportare a casa la pelle di Marcantonio Bragadin.
– Il bailo
schizzò in piedi con movimento fulmineo. -
Che cosa? Sei impazzito? – urlò. -
Non trovate giusto che ritorni a Venezia? – chiese Girolamo, pacatamente. -
Anche se fosse, non saprei nemmeno dove cercarla. – -
Io so dov’è. – -
E dove? – -
All’arsenale. – -
E come pensi di portartela via sotto il naso dei giannizzeri? – urlò ancora
il bailo. -
Questo ancora non lo so. Ma vorrei il vostro appoggio. – disse Girolamo,
niente affatto intimorito dalla sua violenta reazione. -
Non so proprio in che modo potrei aiutarti a compiere questa follia. Se i turchi
ti scoprissero, ne verrebbe fuori uno di quegli incidenti diplomatici che ce
ne ricorderemmo per un pezzo. Lascia perdere. Oltretutto, sei troppo giovane
per rischiare la vita per una causa di nessuna utilità. - -
Voi ditemi soltanto come farla passare alla dogana, al resto ci penserò io. – -
Quello sarebbe l’ultimo dei problemi. – -
Bragadin è stato dimenticato. E questa è una grave
ingiustizia. Bisogna porvi rimedio. Che abbia almeno una sepoltura dignitosa
nella sua terra, quella per cui si è battuto ed è stato ucciso in maniera
tanto orribile e vile. – Contarini tornò a sedersi, incrociando le
dita sulla scrivania davanti a sé, poi guardò Girolamo con curiosità per
qualche istante, prima di parlare. -
Chi ti ha mandato? – -
Lo sapete chi mi ha mandato. – -
No, voglio sapere chi ti ha affidato questo incarico. Chi vuole che a Venezia
si torni a parlare di Bragadin? – -
È stato lui a venirmi in sogno, chiedendomi di riportarlo a casa. - Il bailo lo
guardò a lungo, valutandolo, poi sospirò. -
Non so davvero perché, ma ti credo. – -
Allora mi aiuterete? – -
Ti ho già detto che è una follia. Ma farò tutto quello che posso, anche se in
questo momento non mi viene in mente una sola cosa che possa aiutarti. – -
Mi basta la vostra disponibilità. Se avrò bisogno di qualcosa, ve la
chiederò. – -
Il tuo amico, qui, è anche lui implicato nell’impresa, vero? – -
Sì. Anche lui ha fatto lo stesso sogno. – Il
bailo li fissò entrambi, prima l’uno e poi l’altro,
infine scosse la testa e sospirò di nuovo, come rassegnato. -
Per farla passare alla dogana, basterà un vecchio pastrano. – disse. -
In che modo? – chiese Girolamo. -
Nascondendola all’interno della fodera. – Girolamo
volse lo sguardo verso le finestre da cui si scorgevano il mare e la città in
lontananza, con l’arsenale. Poi, tornò a guardare in faccia Contarini. -
Vi ringrazio. – -
Non fare sciocchezze, Polidoro. Sii molto prudente.
Non avrei alcuna autorità per tirarti fuori dai guai. – Osman rimase
in silenzio a lungo, poi si voltò verso Girolamo, che osservava le botteghe e
le bettole lungo le quali passavano, e finalmente gli pose la domanda che si
stava rigirando nella mente. -
Davvero speravi che il bailo avrebbe potuto fare
qualcosa? – -
Non so, ci ho provato. – -
Te l’ho detto che non ha alcun potere a Costantinopoli. – -
Se sarà necessario, avremo almeno il suo aiuto. - -
L’idea del pastrano è buona, comunque. – commentò Osman. -
Devono averla già usata altre volte. – -
Credo che tu abbia ragione. Adesso torniamo in città. Voglio andare all’arsenale.
– Ad
un tratto Girolamo si fermò davanti ad una bottega. Disse ad Osman di aspettarlo un momento e vi entrò. Poco dopo ne
uscì con un pacchetto minuscolo, che infilò nella borsa. -
Ago e filo? – chiese Osman. -
Sì, è per buon auspicio. – -
Mi piace il tuo ottimismo. – Una
volta riattraversato lo stretto braccio di mare, si avviarono lungo la costa,
passando davanti alla casa di Osman e proseguendo
per un pezzo nella stessa direzione, fino a che non apparve una chiesa senza
croce. -
Questa una volta era la chiesa di Sant’Irene. I turchi l’hanno trasformata in
una parte dell’arsenale. All’interno ci sono i magazzini. Ho un amico che
lavora qui. Spesso vengo a trovarlo. – -
Ti fanno entrare senza problemi? – -
A me sono abituati, ma tu è meglio che rimanga qui. Ci vado da solo. – -
Come vuoi. – disse Girolamo, rassegnandosi ad aspettare. Osman trovò Luca nel magazzino. -
Dovrei parlarti. – gli disse. -
Parla pure, tanto quelli non sentono e comunque lo sai che non capiscono la
nostra lingua. – -
Bragadin è sempre al suo posto? – -
Certo. Dove vuoi che vada? – -
Luca, voglio portarlo via da qui. – -
Sei impazzito? – -
No. C’è qualcuno disposto a riportarlo a Venezia ed il bailo
ci darà appoggio. – -
Ma come si fa? Lo sai che anche di notte ci sono i guardiani a controllare
l’arsenale.– -
Non avevi qualche amico, tra loro? Ricordo male? – -
Amico è una parola grossa. – sbuffò Luca. -
Senti, è passato tanto di quel tempo che di quelle spoglie non importa più
niente a nessuno. Anche se sparissero, chi se ne accorgerebbe? Pensi che i
guardiani si possano corrompere?– -
Perché, tu hai del denaro? – -
Io no, ma se è quello che serve, forse il bailo
potrà darci una mano. – -
È pericoloso. – -
Lo so. Valuta tu. Se pensi che sia inutile, dovremo muoverci in un altro
modo. – -
Quel modo è anche peggio. Bisognerebbe essere almeno il doppio di loro. Ce
l’hai cinque amici disposti a rischiare la pelle? Tu sei impazzito, Andrea.
Cosa diavolo ti è successo? – -
Ho sognato Bragadin. Mi ha detto che vuole tornare a
Venezia. – -
È stato un sogno, Andrea. Uno stupido sogno! Ma mettere mano al pugnale
contro tre giannizzeri addestrati all’uso della scimitarra, può diventare un
incubo. E probabilmente sarebbe l’ultimo. – -
Non vorrei arrivare a tanto. So che a volte davanti all’oro possono
dimenticare il loro compito, almeno per il tempo di intascarlo. - -
E va bene. Proverò a sondare il terreno. – -
Abbiamo poco tempo. – -
Mi metti anche fretta, adesso? – -
Fai quello che puoi, Luca. – -
Contaci. Domani ti faccio sapere. Torna qui alla stessa ora. – Girolamo si era preparato ad aspettare
a lungo, forse per questo il ritorno repentino di Osman
gli fece temere che non avesse trovato il suo amico. -
Tutto a posto. – disse, arrivandogli vicino. -
Gli hai parlato? – -
Sì. È disposto ad aiutarci. Proverà a sondare il terreno con i guardiani. Se
chiuderanno un occhio in cambio di un po’ d’oro, ce la faremo. – -
Altrimenti? – -
Altrimenti bisognerà usare le armi. – -
Spero di no. – -
Anch’io lo spero. – Osman era
silenzioso. Si chiedeva se fare tutto ciò sulla spinta di un sogno, non fosse
una follia. Inoltre rifletteva sul dopo. Era rimasto a Costantinopoli per
restare vicino alle spoglie di Bragadin. Ogni tanto
andava all’arsenale, come si va al cimitero. Lo andava a trovare, gli
parlava, toccava la botte dov’era rinchiuso, come avrebbe accarezzato una
lapide. Luca lo capiva. Era anche lui un superstite di Famagosta.
E non lo disprezzava per aver rinnegato la sua fede, poiché ne conosceva i
motivi. Quando
Bragadin fosse stato lontano, Osman
non avrebbe più avuto alcuna ragione per restare. Forse sarebbe finalmente
giunto il momento di partire, andarsene altrove, trovare un luogo qualunque
in cui mettere radici, lontano dal suo passato, voltando per sempre le spalle
a quella parte tormentata della sua vita. -
A che pensi? – gli chiese Girolamo. -
A quello che farò dopo, quando questa storia sarà finita. – -
Perché non torni con me a Venezia? – -
Non te l’ho già spiegato? Non potrei mai tornarci. – -
È che mi dispiace lasciarti qui. – gli sfuggì, senza neppure capire perché
l’avesse detto. Osman lo guardò, con quello sguardo che gli scavava
dentro, come volesse capire più di quanto le parole non dicessero. -
Me la caverò, non preoccuparti. – lo rassicurò. -
Domani tornerò dal bailo per chiedergli il denaro
che ci serve. Spero che me lo conceda, visto che non può fare altro. – -
Speriamo che questo sia sufficiente. Altrimenti dovremo allenarci col
pugnale. – -
Io ci so fare, non ho bisogno di allenarmi. – affermò Girolamo,
tranquillamente. Osman lo guardò per qualche istante, poi, con lo stesso
effetto che fa il sole quando sbuca dalle nubi in una giornata di pioggia,
sorrise. Girolamo ne restò turbato. Quella notte, nel buio, Osman ripensò alla richiesta di Girolamo. Tornare a
Venezia. No, non poteva farlo. Non si sentiva più veneziano. Ma nemmeno
turco. Non si sentiva di appartenere a nessun paese, a nessuna religione, a
nessuna famiglia (aveva a malapena conosciuto la madre). Non aveva nessuno,
non provava niente. In mezzo a questo vuoto assoluto, Girolamo era piombato
nella sua vita come un vento di poyraz che soffia
impetuoso dal nord, senza lasciare scampo. Si sarebbe portato via quel che
restava di Bragadin, e con esso la sua unica
ragione di vita. Eppure non provava alcun risentimento nei suoi confronti,
anzi gli era grato. Forse, dopo tutto, lo stava liberando. Girolamo gli
piaceva. Aveva un volto aperto ed un’espressione franca, che attiravano simpatia,
lo sguardo curioso e sincero, diretto, che non sfuggiva mai all’indagine
dell’altro. Non aveva timore di essere compreso, forse perché non nascondeva
segreti. E dopo la sosta nell’hamam, nemmeno il suo
corpo gli nascondeva più segreti. Era muscoloso e ben fatto e aveva notato
che Alì si era molto divertito con lui. Si era quasi aspettato che gli
applicasse quel suo trattamento speciale, che spesso i clienti gli
richiedevano e che lui elargiva anche gratis a quelli che gli piacevano
davvero. Come avrebbe reagito Girolamo? All’alba il molo del fondaco del grano
era già in pieno fermento. Girolamo osservava tutto, intorno a sé, con
l’impressione che ogni cosa fosse più nitida e brillante. Il mare era liscio
come un telo di seta, il cielo era immenso ed azzurro, lontanissimo e puro.
L’aria era profumata di salsedine. Ma fu una lunga giornata. Soltanto
al tramonto il carico della Maria Vergine fu completato. Prima ancora che la
nave salpasse dal molo, per far posto alla Libeccio, che sarebbe stata caricata
il giorno successivo, Girolamo era già partito in direzione del Palazzo del bailo. Contarini lo accolse subito, sebbene, dalla
montagna di carte che ricopriva la sua scrivania, Girolamo avesse subito
compreso che doveva essere molto impegnato. -
Ci sono novità? – chiese il bailo. -
Probabilmente i guardiani dell’arsenale chiuderebbero gli occhi davanti ad
una botte che rotola via, se potessero avere la borsa abbastanza piena. – -
Una botte? – -
La pelle di Bragadin è conservata in una botte. – -
Signore, che affronto! – mormorò Contarini. -
Spero proprio che stia per finire. - -
Sei sicuro di quello che fai? Non rischiate di infilarvi in una trappola? - -
Una trappola? Pare che a nessuno importi più niente di quelle spoglie. Credo
che basterà corrompere i guardiani. Non ne ho ancora la conferma, ma Osman è andato là oggi, e stasera lo saprò. Altrimenti
troveremo un'altra soluzione. – Contarini non chiese quale fosse la
soluzione alternativa. Non ce n’era bisogno. -
Se ti serve il denaro, lo troverò. – disse il bailo. -
Grazie, era quello che volevo sapere. Voi tenete pronto il denaro e noi
verremo a prenderlo quando sarà il momento. – -
D’accordo, ma stai attento, Polidoro. – -
Starò attentissimo. – Girolamo andò a cercarsi un passaggio
per la riva opposta. Già sentiva come un peso l’assenza di Osman al suo fianco. Non si capacitava di quello strano
fenomeno che glielo rendeva così necessario. Ne attribuì la colpa al fatto di
essere lontano da casa e dai suoi amici, ma poi si rese conto che si trattava
di una falsa giustificazione. Non era la prima volta che affrontava un
viaggio da solo. In altri casi era
stato assente da Venezia per periodi di tempo ben più lunghi, senza che
questo lo avesse obbligato ad accompagnarsi a qualcuno, pur di scacciare la
noia o la solitudine. Era qualcosa di diverso. Qualcosa che non gli era mai
accaduto prima e a cui non sapeva dare né un nome, né una vera
motivazione. Osman era
seduto davanti alla porta della sua casetta, come tante volte gli piaceva
fare al tramonto. Guardava il mare solcato da una moltitudine di imbarcazioni
d’ogni sorta, che si incrociavano in quello stretto braccio di mare chiamato
Corno d’oro. Su una di quelle sarebbe arrivato Girolamo. Poi
lo vide. Passo da marinaio, che l’immobilità della terraferma sembrava quasi
stupire, gli occhi a terra per seguire il sentiero e poi lontano a cercare
una meta. E infine su di lui, con l’espressione di averla trovata. Uno
splendido tramonto tingeva di sogno il paesaggio. Ne avrebbe visti altri, ma
di quello avrebbe avuto nostalgia. -
Hai fame? – -
Non ho mangiato quasi niente tutto il giorno. – rispose Girolamo. -
Allora andiamo. Ho fame anch’io. – -
Hai incontrato il tuo amico? – -
Sì, a quanto pare uno dei guardiani ha perso tutto alle scommesse dell’ippodromo
e adesso non vede l’ora di riempirsi di nuovo la borsa. Domani notte
diventerà momentaneamente cieco. – -
Domani? – -
Sì, ci aspetterà ai cancelli. Se riusciremo ad arrivare fin qui, senza che
nessuno ci veda, saremo a posto. – -
Bisognerà procurarci un pastrano. – -
Ci ho già pensato io. Invece bisognerà procurarsi il denaro. – -
A quello ci sta già pensando il bailo. – -
Glielo hai chiesto? – -
Sì, ed è d’accordo. – -
Forse, dopo tutto, il tuo ottimismo funziona. – affermò Osman,
assestandogli una pacca sulla spalla. Il bailo di
Venezia era certo di compiere la più grossa scempiaggine della sua carriera,
ma Girolamo Polidoro, con quella specie di candore
che solo i giovani innocenti possiedono, lo aveva convinto. Si era anche
informato sulla sua guida, e una volta scoperto che si trattava di
quell’Andrea, servitore di Marcantonio Bragadin,
che lo aveva seguito fino all’ultimo, a Famagosta,
non potè che arrendersi. Sì, forse stava facendo
una sciocchezza, ma quei due avevano la determinazione e la stoffa per
riuscire là dove le sottigliezze diplomatiche non sarebbero mai arrivate.
Quel mattino consegnò loro una borsa moderatamente pesante. Sapeva che
sarebbe bastata. Il bailo non era esperto soltanto
delle valutazioni di grano e velluti. Una delle prime cose che si imparavano
assumendo la sua carica, era il prezzo del silenzio, una merce che si
negoziava assai più di quanto non si fosse propensi a credere. -
Non avrei mai immaginato che riuscissi a convincere il bailo
a sborsare una somma per corrompere i turchi. Sei incredibile. – disse Osman. -
C’eri anche tu quando gli ho parlato. Si è convinto da solo che è la cosa
giusta da fare. – -
Non è vero. A convincerlo sono stati la tua onestà e il tuo sguardo sincero.
– A
quelle parole di apprezzamento, Girolamo provò un intenso calore. Temette di
arrossire ed ammutolì. Osman comprese di averlo turbato ed anche lui si chiuse
nel silenzio. Ripeterono
la loro traversata con il mare leggermente mosso. Durante la mattina s’era
alzato un lieve vento da nord, che aveva decisamente raffreddato l’aria. Una volta entrati nella casetta di Osman, Girolamo gli chiese: -
Secondo te, come saranno le condizioni della pelle di Bragadin,
dopo tutto questo tempo? – -
Non lo so, non abbiamo mai potuto riaprire la botte per controllare. La pelle
è ancora imbottita di paglia. – -
La svuoteremo qui? – -
Sì, credo sia la cosa migliore. L’importante è che non ci veda nessuno con
quella botte. – -
La fortuna ci aiuterà. – -
Oppure una barca. Seguire il sentiero mi sembra troppo pericoloso. – disse Osman. -
Ti sei procurato una barca? – -
Sì, me la presta un pescatore che abita qui di fianco. – -
È magnifico. – -
Non ne sono troppo convinto. Andare per mare con questo vento, al buio… - -
Ma c’è la luna! – Osman rise. -
Non ti arrendi mai, vero? – -
Solo quando non c’è più speranza. – Osman si
rattristò all’improvviso. -
Anch’io, una volta, ero come te. – -
Neanche tu ti sei arreso. – affermò Girolamo, comprendendo a cosa stesse
pensando. Osman sospirò. Afferrandolo per entrambe le braccia,
Girolamo mormorò: -
Non guardare più indietro, Andrea. Ogni volta che lo farai, ritroverai
intatti quell’angoscia e quel dolore. – Sentirsi
chiamare Andrea gli procurò una strana emozione. Era come tornare ad un altro
se stesso che aveva smarrito da tempo. Anche il calore delle mani che gli
stringevano le braccia gli trasmetteva un tenero turbamento. Avrebbe voluto
che Girolamo lo abbracciasse. -
Girolamo… - Lo
sguardo di Osman era meno triste ora, ma faceva
venire a Girolamo voglia di abbracciarlo, proprio come si fa con un bambino
da consolare. Lo guardò ancora per un istante negli occhi e poi, con
l’impressione di tuffarsi in mare aperto, lo abbracciò. Il vento aveva trascinato via le nuvole
e poi era calato. La luna splendeva davvero. Vedendola, Osman
sorrise. Andarono a prendere la barca e remarono con foga fino all’arsenale,
nel più totale silenzio. Accostando alla bassa scogliera dovettero fare molta
attenzione alla risacca che rischiava di sbatterli a riva. Quando arrivarono al cancello non c’era
nessuno. Osman fischiò. Una volta sola. Poco dopo videro
apparire uno dei guardiani, che portava una torcia. -
Cosa cercate a quest’ora? – -
Sono un amico di Luca. – disse Osman. -
Ah, sì, quello che voleva comprare una vecchia botte. – -
Hai indovinato. – -
Però costa cara. – -
Questo può bastare? – disse Osman, lasciandogli
vedere la borsa tintinnante. -
Dipende da cosa c’è dentro. – Osman sciolse i lacci e mostrò il contenuto al chiarore
della torcia. -
Aspettate qui. – disse il guardiano. -
Non vuole dividere con gli altri, a quanto pare. – mormorò Girolamo, quando
si fu allontanato. -
Meglio così, questo significa che non dovremo neppure entrare. – Poco dopo tornò il guardiano, rotolando
una botte davanti a sé. Aveva abbandonato la torcia, ma era evidente che
conosceva bene la strada. Aprì il cancello e la spinse fuori, quindi allungò
la mano con gesto veloce verso la borsa che Osman
gli tendeva, facendola scomparire come per magia. -
Io non vi ho mai visto. – dichiarò, allontanandosi in fretta. Osman e Girolamo si mossero anche loro, rotolando la
botte verso il luogo dove la barca li attendeva. Il
sentiero era deserto. Caricarono la botte sulla barca e ricominciarono a
remare in direzione opposta. Il mare non era tranquillo. Benché il vento
fosse calato, vicino alla costa risentiva della vecchia risacca.
All’improvviso nuove nubi nascosero la luna, sprofondandoli nel buio più
completo. Smisero di remare. -
Bisogna accendere la lanterna. – disse Girolamo. Come
in risposta, videro una luce e sentirono alcune voci. Trattenendo il respiro,
scorsero tre uomini a cavallo, diretti all’arsenale. Percorrevano il sentiero
che seguiva la costa, illuminandosi il cammino con una lanterna. Entrambi
ebbero lo stesso pensiero. Se fossero andati a piedi, li avrebbero
incrociati. Probabilmente si trattava del cambio dei guardiani. Una delle
possibilità di cui stupidamente non si erano informati, né tantomeno
preoccupati. Gli uomini li superarono senza accorgersi di loro. Poi la debole
luce sparì dietro la curva. -
C’è mancato poco. – mormorò Girolamo. In
quel momento la luna sbucò nuovamente dalle nuvole, rendendoli ben visibili. -
C’è mancato davvero poco. – ribadì Osman,
detergendosi il sudore dalla fronte. Quella notte, molto più tardi, mentre
la luna continuava a giocare con le nuvole, una botte piena di vecchia paglia
si ritrovò a galleggiare sul Corno d’oro, in direzione di Galata.
Non era stato facile. Per nessuno dei due. Osman si era
sentito male ed era corso fuori a vomitare. Girolamo
non sapeva cosa fare, ma avrebbe voluto risparmiargli quel nuovo dolore,
perciò decise di raggiungere Osman all’esterno, per
convincerlo a lasciarlo fare. -
Resta qui, Andrea. – gli sussurrò – Ci penso io. – -
No, - rispose Osman, che si era ripreso – non
sarebbe giusto.– -
Giusto o sbagliato, tu resterai qui.
Prendi un po’ d’aria. Ti farà bene. – Osman lo abbracciò con trasporto. Ed era spinto da
qualcosa di più che semplice gratitudine. -
Non c’è bisogno. Mi sento meglio, adesso. – -
Sei cocciuto come un mulo. – bisbigliò Girolamo. -
Lo so. – All’interno
della casetta, il fantoccio aspettava, disteso su un telo, come se dormisse. -
Finisco io di scucirlo. – disse Girolamo, brandendo un coltellino che aveva
estratto dal fondo della sua sacca. Osman lo
osservava, pallido in volto. La
pelle era simile a pergamena, con i capelli e i peli biondicci ancora
attaccati al loro posto. Erano stati quelli ad impressionare tanto Osman, oltre a tutti i tremendi ricordi che lo avevano di
colpo sopraffatto. Girolamo, dopo un primo momento di sbigottimento, si era
detto che era tutto normale. Se l’era detto come un pazzo si dice di non
essere pazzo. Gli serviva solo per convincere se stesso. Quando
la scucitura fu abbastanza larga, Girolamo iniziò a tirarne fuori la paglia e
la bambagia che la riempivano. Man mano li gettava nella botte, mentre Osman, incapace di compiere anche un singolo gesto, si limitava
ad osservarlo, da debita distanza, seduto sul tappeto. Girolamo lo guardò, accorgendosi che era
sfinito. -
Vai a dormire, Andrea. Sei distrutto dalla stanchezza. – -
Non posso. Bisogna finirla. – -
Finisco io. Tu dormi. – -
Non potrei chiudere occhio. Sarebbe inutile. – -
Allora vai a prendere un po’ d’aria. – -
Dopo. Dopo andrò a gettare in mare la botte. – Girolamo
sospirò e continuò il suo lavoro. Svuotare braccia e gambe fu la parte più
difficile. Per raggiungere l’imbottitura alle estremità, dovette infilarci il
braccio, come in una manica, fino in fondo. Osman
rabbrividì e finalmente si decise a tornare fuori. Una
volta finito, Girolamo afferrò la botte e la portò all’esterno. -
Adesso tocca a te. – disse ad Osman. -
Vediamo dove tira la corrente. – rispose lui, allontanandosi verso il bordo
della scogliera e scagliando lontano il coperchio. Al
buio sembrò che il mare lo avesse inghiottito, invece, poco dopo, affiorò in
superficie, come una piccola macchia chiara che si allontanava verso il largo. -
Insieme? – disse Girolamo. -
Insieme. – Fecero
dondolare un paio di volte la botte e poi, preso lo slancio, la scagliarono
in mare. All’impatto con l’acqua fece
un rumore secco, come un piccolo scoppio. Entrambi si immobilizzarono,
trattenendo il fiato. Ma il silenzio rimase totale. Nessuno aveva sentito.
Girolamo avvolse con un braccio le spalle di Osman
e lo trascinò in casa. Aveva riposto la pelle in un cassone, avvolta tra due
teli, per evitare che Osman la vedesse di nuovo. -
E adesso dormiamo. – gli disse, col tono di un ordine. -
Sì, adesso sì. – Osman spense la lanterna e si distese accanto a
Girolamo, molto più vicino della notte precedente. -
Scusami. Non ti sono stato di molto aiuto. – -
Non c’è niente di cui tu debba scusarti. Al posto tuo, io sarei rimasto là
fuori per tutto il tempo. – -
È stato più forte di me. Dovevo vedere. – -
Adesso dormi. – gli sussurrò, stringendogli una mano. La mattina successiva si recarono dal bailo per rassicurarlo che era andato tutto bene. Paolo Contarini pensò che certe follie riescono solo ai pazzi o
ai bambini, ma quei due non appartenevano a nessuna di quelle categorie.
C’era qualcosa nel modo in cui avevano affrontato e compiuto quell’assurda
impresa, che li accomunava a semplici emissari di un destino prestabilito,
che un’entità superiore aveva disposto dovesse trovare esecuzione.
Inconsapevolmente eroici, nella loro incosciente giovinezza, per un attimo il
bailo li invidiò. -
A chi la consegnerai, una volta a Venezia? – -
Ai frati della mia parrocchia. – rispose Girolamo. -
Il posto giusto, per un martire. – commentò il bailo. -
Grazie per averci aiutato. – -
Credo sia stata la cosa più giusta che abbia mai fatto. – affermò Contarini. Quella sera iniziarono il loro lavoro
di sarti. Osman osservava i movimenti sciolti e
precisi con cui Girolamo scuciva i fitti punti di sutura del vecchio
mantello, con il suo piccolo pugnale affilato. Agli stranieri era vietato
aggirarsi in città armati. Ma quello era uno strumento talmente inoffensivo
che sarebbe comunque passato inosservato. Osman non
ne possedeva uno di dimensioni tanto ridotte, quindi si limitò a guardarlo. -
Quando sarà il momento di ricucirlo, ti potrò dare una mano.–
gli disse, sentendosi inutile. -
Non preoccuparti, finirò in fretta. Piuttosto, questa stoffa è troppo grezza.
Temo che la pelle si possa rovinare. – affermò Girolamo. -
La cuciremo dentro i teli che la custodiscono ora. – Girolamo
sollevò lo sguardo per un istante, approvando con un semplice sorriso. Era
sufficiente per comunicargli che era d’accordo. Osman
si rese conto che non era la prima volta. Spesso si capivano al volo, senza
parlare. Erano molto vicini, più di quanto non si fosse sentito con chiunque
altro avesse conosciuto. Era rassicurante. Girolamo aveva fatto cadere le sue
barriere e non si era neppure accorto del momento in cui era accaduto. Osservando
i suoi movimenti, ne rimase come affascinato. Le sue mani si muovevano in
modo preciso, con un ritmo calmo ma implacabile, il capo chino sulla stoffa
nera, mentre la luce della lanterna si rifletteva sul suo volto, lasciandone
in ombra una parte. Una
goccia di sudore si affacciò all’attaccatura della sua fronte. Osman, senza rifletterci, gliel’asciugò con le dita. Girolamo
si immobilizzò per un attimo. Lo fissò negli occhi, senza sorridere. Il
calore di quello sguardo costrinse Osman a
trattenere il respiro. Sembrò che Girolamo volesse dire qualcosa, ma poi
abbassò lo sguardo, ricominciando a scucire la fodera. E Osman
tornò a respirare. Girolamo non riusciva ad addormentarsi.
Neppure Osman, accanto a lui, dormiva. Ascoltando
il suo respiro, intuiva che non era quello profondo e regolare del sonno. Si
voltò a guardarlo. Nell’incerto chiarore che giungeva dalle finestrelle alte,
notò che aveva gli occhi aperti. Il suo profilo puro, come quello di una
statua classica, gli entrava nella memoria e nel cuore allo stesso tempo.
Vedeva il lieve movimento del suo torace espandersi nel respiro. Avrebbe voluto
toccarlo, accarezzarlo. L’idea di doversene separare gli procurava una fitta
di dolore. Perché? Come poteva significare tanto per lui, dopo appena cinque
giorni? Ma davvero erano già trascorsi cinque giorni? Anche Osman si
voltò verso di lui. -
Neppure tu riesci a dormire? – -
No. – rispose piano Girolamo. -
Domattina non riusciremo a svegliarci. – -
Vorrà dire che dormiremo fino a tardi. Chi ce lo può impedire? – -
Sono contento di averti conosciuto, Girolamo. – -
Anch’io, ma l’idea di dovermene andare presto… - Osman si
avvicinò a lui. Le sue mani gli strinsero il viso. -
Anche a me dispiace che tu te ne vada. – -
Vieni con me. – lo pregò. -
Non posso. – Girolamo
si avvicinò ancora di più. Ora, tra le loro labbra c’era solo lo spazio di un
sospiro. -
Non so cosa mi stia accadendo. – mormorò Girolamo. -
Quello che doveva accadere. – rispose Osman,
appoggiando le labbra alle sue. Fu
davvero una notte molto lunga, durante la quale Girolamo diede finalmente un
nome a ciò che provava: attrazione e desiderio. Gli stessi che già si erano
trasmessi ad Osman, come per contagio. Fu lui a
riaccendere il lume. -
Voglio vederti. – gli disse. Qualunque
cosa la vita gli avesse offerto, tragica o splendida, Osman
aveva sempre voluto guardarla bene in faccia. E poiché il destino si era
accanito a mostrargli tutti gli orrori possibili, ora voleva goderne anche
gli splendori. Girolamo era bello. Osman voleva
ricordarselo, tra le ombre ed i sospiri, con i muscoli guizzanti, la schiena
marmorea, i glutei perfetti e la nuca modellata, offerti ai suoi baci e ai
suoi morsi. Con il riflesso di quella luce tenue e giallognola, voleva
ricordare come, lentamente, lo avesse penetrato, con il cuore che gli
martellava impetuoso nel petto, mentre l’emozione lo investiva inesorabilmente.
Voleva ricordarne i gemiti ed il momento in cui aveva dovuto chiudergli la
bocca con la mano, mentre urlava il suo nome, Andrea, per evitare che lo
udissero nelle case vicine. Fu davvero una notte molto lunga. Al risveglio Girolamo aveva il cuore
gonfio. Una gioia sottile lo pervadeva. Ma un’ombra nera si profilava
all’orizzonte, una nube che si stava velocemente caricando di pioggia. Il
tempo gli sfuggiva. Il pensiero di dover presto partire, gli impediva di
essere davvero felice. Lo turbava profondamente. Approfittando
della luce del mattino, Osman era già al lavoro.
Consapevole che Girolamo aveva compiuto, fino ad allora, la maggior parte del
lavoro, aveva approfittato del suo sonno prolungato per ricucire le spoglie
all’interno dei teli bianchi. Nello stesso tempo aveva dato l’ultimo addio a
Marcantonio Bragadin. Qualunque cosa ne fosse
stato, lui non ne avrebbe più avuto né responsabilità, né merito. Girolamo
si svegliò quando Osman aveva ormai completato la
sua fatica. Lo vide, comprese e gliene fu grato. Viaggiare portando in spalla
la sua sacca, ben cosciente di cosa contenesse, era già abbastanza difficile,
anche senza dover ricordare il momento in cui era stata prelevata dal cassone
e cucita nel suo sudario. Quello era un ricordo che sarebbe rimasto ad
Andrea. I
giorni erano volati. Osman lo aveva condotto in
giro per la città, mostrandogliene tutti gli angoli più affascinanti, dalle
porte alle moschee, dai serragli alle fontane. Erano
entrati nei caffè affollati, ascoltando la musica e le chiacchiere, che Osman gli aveva tradotto in un orecchio. Avevano
osservato i funamboli che si esibivano nei mercati di quartiere;
all’ippodromo avevano scommesso sulle corse dei levrieri e sui combattimenti
degli arieti. Si erano fatti strapazzare negli hamam,
a cui Girolamo aveva preso gusto. Avevano persino passeggiato nei giardini. E
tutto questo ormai era finito. Avevano giusto il tempo di terminare quel loro
strampalato lavoro di sartoria. Il giorno successivo sarebbe partito. Appoggiarono
con cura il sudario all’interno del mantello, fermandolo con pochi punti,
quindi ricucirono la fodera al suo posto, insieme, l’uno di fronte all’altro,
sollevando ogni tanto lo sguardo da quel nero che li accecava. Quand’ebbero
finito, arrotolarono con cura il pastrano, in modo che non si formassero
pieghe e lo inserirono nella sacca, che ne risultò piena a metà. Girolamo
avrebbe lasciato da Osman quegli indumenti che non
potevano più trovarvi posto. Alla fine dell’opera si guardarono negli occhi. -
È fatta. – -
È fatta. – -
Anche se alla dogana mi frugassero nei bagagli, non troverebbero niente. – -
Ce la farai a comportarti con naturalezza? – -
Sì, ormai mi sono abituato all’idea. Non mi sconvolge più. – -
Durante il viaggio stai attento a non farla bagnare. – -
Non ti preoccupare. Arriverà a Venezia così com’è adesso. - -
Qual è la tua parrocchia? Non me l’hai mai detto. – -
San Gregorio. – -
Ah, sì, la conoscevo bene. Quando sapranno che i resti di Bragadin
sono a San Gregorio, i suoi parenti vorranno rientrarne in possesso. Lascia
che ci pensino loro. Una volta consegnate le spoglie, il tuo compito sarà
finito e potrai tornare alla tua solita vita. – Quale
vita? All’improvviso Girolamo si voltò indietro a guardarla e gli sembrò un capitolo
chiuso. Avrebbe dovuto iniziarne un altro, ma non riusciva a vederlo. Viaggiare
era sempre stato il suo sogno. Andare per mare e per terra, Adriatico,
Mediterraneo, dove? Magari nelle Americhe. Ovunque
fosse andato avrebbe sentito mancargli qualcosa. Lo sapeva, ma non poteva
porvi rimedio. Andrea non voleva seguirlo. Quel giorno uscirono soltanto per fare
provvista di cibo. Per il resto, si nutrirono l’uno dell’altro in una
frenesia che li lasciò stanchi e spossati, eppure insaziati. Girolamo
preparò la sua sacca sotto lo sguardo rattristato del compagno. -
Andrea, non fare quella faccia. Potresti venire con me. – -
Non posso. Mi dispiace. – -
Dispiace più a me. – mormorò Girolamo, contrariato. -
Non dire sciocchezze. – Girolamò alzò
la voce, irritato. -
Si può sapere cosa ti lega a questa terra? Perché non vuoi lasciarla? – -
La lascerò, invece. Ma non tornerò mai a Venezia. Ai primi freddi me ne andrò
verso Ragusa. So che si sta bene da quelle parti. – -
Sei cocciuto come un mulo. – ribadì Girolamo, per l’ennesima volta. -
Hai ragione. Me lo diceva anche Bragadin. – Girolamo sospirò. -
Ti penserò. – -
Dimenticami, invece. Sarebbe più saggio. – -
La saggezza e l’amore non sono mai andati d’accordo. – -
Amore? – mormorò Osman, stupito. -
E cosa pensi che provi per te? – -
Ci siamo appena conosciuti. – replicò Osman,
incerto. -
Beh, a me è bastato. – affermò Girolamo, con convinzione. Osman gli
afferrò le mani. -
Per me la nostra amicizia è già fin troppo. Il tuo arrivo ha sconvolto la mia
vita. Ora che porti via quel che resta di Bragadin
non avrò più alcun legame con questa città, ma non ho neppure altri affetti
che mi spingano altrove. Ho intorno il vuoto, non ho più nulla a cui
aggrapparmi. Quando tu sarai partito, dovrò ricostruire tutto da capo. – -
Ma non capisci, Andrea? Sono io il tuo legame. Vieni con me. – -
Non posso. - -
Vorrei che accadesse un miracolo, prima dell’alba. – -
Ma qui siamo in terra ottomana. Da queste parti non accadono miracoli.– Girolamo
lo abbracciò. Aveva poco tempo. Tutto quello che provava con Andrea era
meraviglioso e straziante. Sarebbe stato meraviglioso se avesse davvero fatto
parte del suo futuro, invece era tragico perché quella sarebbe stata la fine.
La disperazione che sentiva crescere dentro di sé, aumentava mano a mano che
il momento della partenza si avvicinava. Ed ora aveva bisogno di provare nel
corpo lo stesso straziante dolore che sentiva nell’anima e nel cuore. Pregò
Andrea di entrare in lui con forza, con violenza, come fosse una punizione,
il castigo che si era meritato per essersi innamorato di lui. Andrea non
comprese, ma agì come gli chiedeva. Girolamo non ne voleva provare piacere,
ma solo essere usato, abbandonandosi unicamente al dolore. Invece il piacere
che provò fu quasi insopportabile e lo lasciò del tutto inebetito. Nello
stesso tempo, esplodendo dentro di lui, parve ad Osman
che il mondo sprofondasse per sempre. Quegli incredibili momenti non si
sarebbero più cancellati dalla loro mente. Quella
notte Girolamo non chiuse occhio, mentre Osman
rimase abbracciato a lui anche nel sonno, imprigionandolo in una stretta da
cui non avrebbe potuto sciogliersi neanche volendo. Ma tanto, Girolamo non lo
voleva. All’alba se ne andò, rifiutandosi di
farsi accompagnare. -
Resta qui, conosco bene la strada. – gli disse, con una freddezza che era ben
lungi dal provare e che gli serviva da scudo per la commozione che invece lo
stava travolgendo. -
Girolamo, mi mancherai. – -
So che esiste una cura. – -
Non posso. – Girolamo
lo guardò per l’ultima volta e non fu in grado di regalargli nemmeno un
sorriso. La prima cosa di cui provò nostalgia fu
il caffè. Girolamo ne aveva bevuta ancora qualche tazzina a bordo della
galea, che aveva ospitato due mercanti turchi, per una parte del viaggio.
Quando ne aveva sentito il profumo, si era avvicinato a loro, che possedevano
un fornello su cui potevano scaldarsi il cibo. Nella lingua franca, con una
spudoratezza che non si conosceva, aveva chiesto loro di poterne bere anche
lui. I due avevano apprezzato il suo interesse e glielo avevano offerto con
l’orgoglio di chi ha inventato un rimedio che cura tutti i mali. No,
non tutti. La lontananza da Andrea era sempre una spina velenosa conficcata
nel cuore. In alcuni momenti il dolore gli impediva persino di respirare. Il
viaggio fu un lungo tormento, che visse a malapena consapevole di trovarsi in
mezzo al mare. Appena
sbarcato, si diresse a San Gregorio, senza pensarci un attimo. Fra’
Lorenzo lo conosceva sin da bambino, ma trovandoselo davanti all’improvviso,
con la barba lunga, i capelli spettinati, i vestiti stazzonati, l’aria sporca
e disperata, in un primo momento lo scambiò per un mendicante. -
Fratello, c’è la casa del pellegrino, se vuoi ripulirti un po’ e ricevere un
pasto caldo. Ti indico dov’è. – -
Fra’ Lorenzo, sono Girolamo Polidoro. Non mi
riconoscete? – Il frate lo osservò più attentamente,
stupito. -
Girolamo, ma da dove vieni? Dall’inferno? – -
Non proprio. Sono sbarcato adesso. Era necessario che prima di tutto venissi
qui. Devo consegnarvi una cosa che ho portato da Costantinopoli.– Così
dicendo, aprì la sua sacca e ne prelevò con la massima attenzione il
pastrano. Poi lo distese su un fratino e con il suo coltello iniziò a
scucirne le due fodere, mentre il frate lo osservava. Fece molto in fretta,
perché i punti con cui le avevano ricucite erano piuttosto radi e lenti. -
Vi ricordate di Marcantonio Bragadin? – chiese
Girolamo. -
Certamente. – -
Sapete che cosa ne è stato del suo corpo? – -
Sì, mi ricordo anche di questo, purtroppo. – -
Ebbene, qualcosa di lui è rimasto ed io l’ho riportato a casa. Vi consegno la
pelle di Marcantonio Bragadin, perché ne facciate
quel che è giusto. Il suo nome deve essere ricordato. È morto per Venezia. – Quindi
Girolamo sollevò la fodera e poi anche il telo di stoffa che custodiva la
pelle. Nonostante l’attenzione prestata, vi si erano prodotte numerose crepe,
ma per il resto era come se la ricordava. Fra’
Lorenzo rimase senza parole per qualche momento, poi, dopo una benedizione e
una breve preghiera, la ricoprì di nuovo con il telo. -
Va bene, Girolamo. Contatterò i suoi familiari. Sono certo che lo
apprezzeranno molto e te ne saranno grati. Ma come hai fatto a ritrovarla? – -
Non sono stato io. Andrea, il suo servitore, sapeva dove trovarla. – -
Dunque quel povero ragazzo si è salvato. Ne sono contento. – -
Voi lo conoscevate? – -
Sì, certo. Era anche lui di questa parrocchia, non te lo ricordi? – No,
Girolamo non se lo ricordava e Andrea non glielo aveva detto. -
Ma certo, era difficile che vi poteste incontrare. Lui era un orfano che
abbiamo fatto entrare come paggio da Marcantonio. Poi, crescendo, è diventato
il suo servitore. Ma non era trattato come tale. Marcantonio gli era molto
affezionato, era il suo pupillo. Non se ne separava mai. Per questo si
ritrovò con lui anche a Famagosta, durante quel
terribile assedio. – -
Ma perché Bragadin è stato abbandonato? Per undici
mesi hanno aspettato aiuti da
Venezia. Se fossero arrivati, forse le cose sarebbero andate diversamente. – -
Per quel che ne so io, che non è molto, le poche navi che sarebbero riusciti
a mettere insieme, non sarebbero state che una goccia nel mare. Era
necessario costituire una grande flotta, ma questo è accaduto soltanto dopo
che Famagosta era ormai perduta. Eppure quella
sconfitta è servita, Girolamo, perché al racconto di quanto era successo là,
gli animi si sono infiammati e la battaglia successiva, a Lepanto, ha
finalmente visto la vittoria dei cristiani sull’impero ottomano. Senza il
sacrificio di Bragadin, e di tutti gli altri che
erano con lui, forse questo non sarebbe stato possibile. - -
E Andrea non ha più nessuno qui a Venezia? – -
Che io sappia, no. – -
Va bene, Fra’ Lorenzo. Adesso credo che andrò a ripulirmi un po’. – Girolamo guardò per l’ultima volta il
pastrano. -
Stai tranquillo. Lo lasci in buone mani. – -
Lo so. – disse Girolamo, congedandosi. La
seconda cosa di cui ebbe nostalgia fu un hamam in
cui andare a ripulirsi. Sul Corno d’oro i vascelli andavano e venivano
con le vele tese da un vento incostante. Ormai l’estate era giunta ed il
calore intenso faceva tremolare le immagini a pelo d’acqua, fondendo luci e
colori. Osman li osservava. Quando non era
occupato, non faceva nient’altro. Come al solito, accompagnava gli stranieri
attraverso la città, conducendoli nei luoghi consueti. Questo non era
cambiato. Del tutto nuova era invece la sensazione di essere scortato da una
perenne assenza di entusiasmo. Si sentiva svuotato. Neppure la notte gli
portava sollievo. Anzi, era forse il momento peggiore. Non riusciva a
dormire. Smaniava, in un desiderio che non poteva trovare compimento e che
una volta lo aveva istigato a fare una sciocchezza di cui in seguito si era
pentito. Aveva tirato fuori dal cassone gli abiti che Girolamo aveva dovuto
abbandonare e li aveva imbottiti di cuscini, in una terribile imitazione del
fantoccio di Bragadin. Se li era messi al fianco,
nel buio quasi totale della notte, immaginando che Girolamo gli fosse
accanto. Aveva persino posato il braccio su quel petto che non respirava, che
non diffondeva il minimo calore, in un abbraccio che non poteva essere
ricambiato. Eppure, da principio, ne aveva tratto conforto. Una consolazione
che rasentava la follia, certo, ma non ne aveva trovata un’altra, sul
momento, anche se poi aveva dovuto sfogare solitariamente il suo torturante e
frustrato desiderio. Se già prima Girolamo gli mancava immensamente, la
bravata di quella notte riuscì semplicemente a peggiorare le cose. Si era
pentito di non avergli confessato i suoi veri sentimenti. Forse, se li avesse
conosciuti, Girolamo avrebbe deciso di ritornare da lui. La saggezza non è
mai andata d’accordo con l’amore, gli aveva detto. Era vero. Avrebbe dovuto
rispondergli che anche lui lo amava. Era la prima volta. Non aveva mai amato,
prima di incontrarlo. Eppure qualcosa glielo aveva impedito. Uno stolto
pudore, o forse un insensato sentimento di inutilità. Perché Notte profonda e nera, senza luna.
Notte di caldo intenso, da sudare senza alzare un dito. Notte silenziosa e
greve. Osman sognava. Girolamo era nudo di fronte a lui, con
l’espressione delusa e mesta che aveva il giorno in cui era partito.
Finalmente poteva parlargli, confessandogli i suoi veri sentimenti. Ma
Girolamo non lo sentiva. Gli aveva teso le braccia, ma non era riuscito a
toccarlo. Osman, deluso, aveva allungato le sue, ma
inutilmente. Girolamo
sognava. Andrea era nudo di fronte a lui, con un sorriso di scuse, come la
prima volta che lo aveva visto. Gli vedeva muovere le labbra, ma, come fosse
sott’acqua, le sue parole non lo raggiungevano. Si slanciava verso di lui in
un abbraccio, ma Andrea era un fantasma immateriale che non poteva toccare e
che invano gli tendeva le braccia incorporee. Notte
profonda e nera, in cui il destino si diverte. Piazza San Marco era il gioiello di
Venezia. Si diceva che là fosse il centro del mondo, eppure Girolamo era
convinto che quel centro si trovasse altrove, a Costantinopoli, per
l’esattezza. Una città di sogno, disseminata di moschee e minareti svettanti,
dove cinque volte al giorno si innalzavano i canti dei muezzin, mentre tutto
si fermava; dove si potevano trovare ad ogni angolo mescite di caffè, hamam o taverne; dove c’era un mercato che occupava un
intero quartiere, un immenso Rialto, città nella città; dove splendore e
miseria convivevano senza intralciarsi l’un l’altra; dove si trovavano
incredibili guide di cui ci si poteva inutilmente innamorare. Il ricordo di
Andrea lo perseguitava ovunque, in qualunque momento. Ogni volta che guardava
il mare, si ricordava dei suoi occhi. Voleva dimenticarlo e voleva tenerlo
dentro di sé. La
grande risonanza che aveva avuto il ritorno delle spoglie di Bragadin, lo aveva fatto festeggiare come un eroe. Si era
ritrovato mille volte a ripetere che il merito non era suo, bensì di Andrea e
del bailo Contarini, ma
questo non importava a nessuno. Poiché, di tutti loro, solo Girolamo era
presente, doveva essere lui il festeggiato. Eppure ogni volta sentiva Andrea
accanto a sé. All’improvviso
Venezia sapeva di stantio e di muffa. Girolamo avrebbe voluto andarsene. Ma
dove? Ogni luogo ormai gli sembrava privo di interesse. Provava un’intensa nostalgia
per Costantinopoli o era solo la nostalgia di Andrea? L’estate era ormai
finita e lui non sapeva ancora cosa fare. Restare? Partire? Nessuno dei suoi
amici lo comprendeva, ma non poteva certo biasimarli, dal momento che non si
capiva lui stesso. Una
notte in cui si era ritrovato ubriaco sul Gran Canal, dopo uno dei soliti
festeggiamenti, era salito su una gondola e si era sdraiato a guardare il
cielo, dondolando sulla placida risacca. Uno spicchio di luna occhieggiava
tra le nuvole, ricordandogli un’altra notte come quella, a
Costantinopoli. La
vedi anche tu, Andrea, questa luna? Vorrei che fossi qui, accanto a me,
vorrei poterti abbracciare ancora, in questa luce incerta, vorrei baciarti a
lungo e dirti che non mi importa se non mi ami. Il mio amore può bastare per
tutti e due. Fu
quella notte, perdutamente ubriaco, smisuratamente infelice ed estenuato da
un desiderio inguaribile, che infine Girolamo decise. Quel mattino Osman
stabilì che sarebbe partito. Avrebbe davvero lasciato Costantinopoli per
trasferirsi a Ragusa. Cosa avrebbe fatto là, non era importante. Poteva
sempre offrirsi come interprete. Di mercanti turchi ce n’erano ad ogni scalo.
Guardava il mare grigio che si levava con inaudita violenza, biancheggiato
dalle furiose creste di onde che si abbattevano su altre onde. Branchi
galoppanti di nuvole nere conquistavano il cielo, mentre improvvisi lampi
saettavano lontano, all’orizzonte, e possenti tuoni rimbombavano
riecheggiando all’infinito. Quel mare e quel cielo gli assomigliavano. Dove
sarà Girolamo? Forse un giorno ci incontreremo ancora. Chissà, magari proprio
a Ragusa. Lui che ama tanto viaggiare, ci passerà di sicuro, prima o poi. In
quello stesso momento, a Venezia, era una giornata splendida, di quelle che
anche l’autunno sa regalare, col cielo terso di uno sfolgorante azzurro,
interrotto soltanto dalle traiettorie bianche dei gabbiani. Le calli,
spazzate dal leggero vento di tramontana, sapevano di pulito e di nuovo. I
colori vibravano. Piazza San Marco scintillava di ori e lapislazzuli, mentre
una folla eterogenea di curiosi e marinai gremiva i moli. Finalmente la galea
per Costantinopoli era pronta a salpare. Determinato
a non voltarsi più indietro, Girolamo Polidoro si
imbarcò senza salutare nessuno e nessuno a Venezia lo rivide mai più. Di nuovo, Costantinopoli apparve
all’improvviso. Lo colpì, spinto dal vento, l’olezzo forte delle concerie e
dei macelli. E ancora, la sensazione dell’aria che brillava, anche se il sole
filtrava a malapena da ammassi di nubi che sembravano lanugini di cotone
sporco. Il viaggio era stato lento e stentato. Girolamo ne aveva risentito
più degli altri compagni di sventura. La sua impazienza era stata amplificata
tanto dall’opprimente rimorso di non essere partito prima, quanto
dall’ossessivo timore di arrivare troppo tardi. Ma adesso non voleva più
pensarci, mentre la costa scorreva davanti a lui, mostrando le mura, le
cupole azzurrognole dei caravanserragli, le arcate del vecchio acquedotto e
la foresta dei minareti svettanti. Tutto era rimasto uguale, durante i pochi
mesi della sua assenza. Galata, il bailo che lo
accoglieva, la fretta di attraversare il Corno d’oro, di bussare alla porta
di Andrea. Tutto si svolse come un sogno, o forse come un incubo. Girolamo
rimase davanti alla porta chiusa. Studiò le scaglie di colore rosato sul
legno secco e crepato, fino ad impararle a memoria. Il vento, che insisteva
sul suo viso, lo fece lacrimare. Il vento. Il giorno trascorse, il tramonto
veloce trapassò verso la sera, ma Andrea non ritornò. Calò la notte,
recapitandogli i suoi brividi di gelo. Girolamo non si spostò. Ma il freddo
era troppo intenso per restare seduto in terra davanti a quella porta. Quando
si rese conto che rischiava di congelare, finalmente si mosse. Il riparo del
caravanserraglio lo accolse nella sua rincuorante indifferenza. Girolamo era
stremato, deluso, infuriato con se stesso. Dormì poco o nulla. La
disperazione restava in agguato, senza mostrarsi con la sfrontatezza di cui
avrebbe potuto dar prova. Un dolore sotterraneo e profondo impediva a
Girolamo di provare qualunque altra sensazione. All’alba
fu di nuovo davanti a quella porta. Una porta che rimase inesorabilmente
chiusa. Paolo
Contarini lo accolse con gioia. Al suo arrivo,
Girolamo aveva scambiato con lui solo qualche laconica frase, trascinato
altrove dalla tormentosa fretta che lo incalzava. Ora era di nuovo davanti al
bailo, con un’espressione completamente avvilita. -
Che ti succede, Girolamo? – -
Credo che Osman Deli sia
partito. – -
Sì. Due settimane fa. È venuto a salutarmi, annunciandomi che andava a
Ragusa. Voleva una vita nuova. Tu lo sapevi, ne aveva parlato anche con te. - -
Avrei voluto partire con lui. – ammise Girolamo, disperato. -
Mi dispiace che tu non sia giunto in tempo, ma animo! Mi ha detto che se ti
avessi rivisto avrei dovuto invitarti a raggiungerlo a Ragusa. – -
Quando c’è una nave per Ragusa? – -
Non so bene. Il tempo è stato cattivo. Ma vedrai che sarà presto. – -
E per via di terra? – -
Le carovane non ripartono fino a marzo. Del resto, viaggiare da soli in pieno
inverno è troppo pericoloso. Non troveresti nessuna guida disposta a venire
con te. Dovrai aspettare, temo.– Aspettare.
Un verbo che Girolamo non avrebbe più voluto sentire. -
E cosa faccio, nel frattempo? – -
Potresti lavorare per me. Che ne dici? – Salonicco mostrava la faccia colorata e
multiforme di un gran bazar a cielo aperto. Greci, turchi, ebrei, armeni, slavi, italiani, c’erano tutti, un crogiolo di
razze e di lingue mescolate come in una straordinaria torre di Babele. Osman Deli vi aveva già
trovato la sua nicchia, un posto dove fermarsi in attesa che passasse
l’inverno, giunto improvviso e feroce. Non era proprio il momento di
continuare il suo viaggio lungo la via Egnatia, che
lo avrebbe portato fino a Ragusa. Tanto non lo attendeva nessuno. Il resto
del suo viaggio poteva aspettare. Come
a Costantinopoli, le case di legno si addossavano l’una all’altra, con strade
perlopiù strette e irregolari, che si arrampicavano a forza sulla collina. Di
fronte al mare si affacciavano le finestre, come mille occhi che guardavano
oltre le mura, mentre le barche dei pescatori erano in secca, lontano dalle
onde che battevano incessanti, con alti schizzi di schiuma bianca. La
prima cosa di cui si rese conto, fu che quella città non aveva alcun bisogno
di un interprete. Bene o male tutti si capivano, utilizzando quella sorta di
lingua franca chiamata sabir, che era un
imbastardimento di tutte le altre, un po’ di veneziano, genovese e spagnolo,
frammiste ad una manciata di parole in turco, catalano, greco e occitano. La
lingua parlata in ogni porto del Mediterraneo, quella di mercanti, marinai,
corsari e contrabbandieri. Quella, persino, delle donne che andavano al
mercato, qui molto più presenti e visibili di quanto non fossero a
Costantinopoli. Ma Osman si disse che avrebbe
trovato qualcosa da fare. Qualsiasi cosa. Se
persino facchini e lustrascarpe comprendevano una moltitudine di lingue, lui
avrebbe potuto impegnarsi in una moltitudine di lavori. Il
pensiero di Girolamo lo prendeva a tradimento, quando meno se lo aspettava.
Col tempo, quel pensiero si era tramutato in preghiera. Osman
pregava che Girolamo lo raggiungesse. Ma sarebbe mai avvenuto il loro
incontro? E dove? Col pensiero gli lanciava messaggi sempre più pressanti.
Vieni da me, vieni da me. Nella piccola casa che Yoel
Mimiela gli aveva affittato, poco più di una
stanzetta, come quella in cui viveva sul Corno d’oro, trovava riparo dal
vento e dalla pioggia. Quella solitudine lo compiaceva. Nella sua mente
albergava solo il rimpianto. Ed era così profondo ed immenso che null’altro
avrebbe potuto trovarvi rifugio. Girolamo era il centro intorno a cui la sua
vita ruotava. Doveva raggiungere Ragusa, perché era là che forse Girolamo
sarebbe andato a cercarlo. A quell’unico appuntamento non poteva rinunciare.
Alla sua unica speranza di rivederlo. Quando
Osman incontrò Vidin Satik, non era in condizioni di seguire i suoi
ragionamenti o i suoi insegnamenti. La tristezza era l’unica prerogativa riconoscibile
in lui. Tutto ciò che era stato e che a fatica aveva costruito, durante i
nove anni in cui era vissuto a Costantinopoli, si era disperso. -
La benedezione ricada su di te come una pioggia
rigenerante. – gli disse il derviscio. Osman si stupì che gli avesse rivolto la parola. -
La benedizione ricada anche su te. – rispose Osman,
prima di proseguire per la sua strada. -
Tu non stai andando da nessuna parte, perché allora non ti fermi qui con me?
– Osman si chiese come facesse a sapere che stava vagando
senza meta. Il primo impulso fu di ignorarne l’invito, ma qualcosa nella sua
espressione e nel suo tono, riuscì a stimolare la sua curiosità e lo convinse
a restare. Il derviscio portava sulla testa un tarbush
bianco, da cui sfuggivano lunghe ciocche di capelli nerissimi, ed era vestito
di pelli di montone. Aveva occhi nocciola ed un naso dritto e appuntito. Le
labbra carnose disegnarono una curva all’insù, in un morbido sorriso
rassicurante. -
Vieni a sederti accanto a me. – Osman si sedette. Soltanto allora si accorse che il
derviscio teneva un flauto appoggiato in grembo. -
Tu suoni? – gli chiese. -
Suonerò per te. – Così
dicendo, prese con delicatezza lo strumento e iniziò a soffiarci dentro. Le
suggestioni della musica non lo avevano mai coinvolto tanto. Quelle note
tristi e disperate riflettevano come in uno specchio il suo stato d’animo,
proprio come fosse lui stesso a suonare per esibirlo al mondo. Tuttavia,
mentre l’armonia di fondo restava sempre identica, il motivo cambiava
continuamente, quasi a dimostrare che tristezza e disperazione potevano
trovare conforto e magari cullare la speranza di trasformarsi anch’esse. Dopo
aver emesso l’ultima lunga nota, il derviscio lo guardò, ma non disse nulla.
Gli sorrise appena. E Osman ricambiò quel sorriso. Aveva
smesso di piovere, ma il vento sembrava ancora carico di umidità. -
Il tuo dolore ti avvicina a Dio. – gli disse il derviscio errante. -
Non credo che a Dio importi molto del mio dolore. – -
Quello che tu credi e ciò che è vero sono due cose diverse. – -
Grazie molte. Questo mi è di grande conforto. – rispose Osman,
non riuscendo a rinunciare ad un tono di amara ironia. -
Oggi tu non sai ancora quale strada hai imboccato. Ma presto la strada si
mostrerà a te, mentre la percorri. – spiegò Vidin,
imperturbabile. -
La mia strada è la via Egnatia. Devo raggiungere
Ragusa. – -
Questo non lo so. La strada di cui parlo io, segue il tuo cuore. È la strada
dell’amore. – Appunto,
pensò Osman. E se Ragusa non basterà, allora
arriverò fino a Venezia. In
realtà, Girolamo non aveva, alla corte del bailo,
un vero e proprio compito. Contarini si limitava ad
utilizzarlo quale messaggero delle sue missive presso i suoi nuovi contatti,
diplomatici e nobili europei residenti a Pera, o turchi di varia estrazione,
a Costantinopoli. In pieno inverno, quando erano scarsi i collegamenti col
resto del mondo, ci si scambiava poche notizie, quasi di nessun conto.
Pettegolezzi, si potrebbe dire, che andavano a volte a scalfire la buona
reputazione di alcuni, e altre volte si ritorcevano contro gli stessi che li
avevano diffusi. Pera, in quella stagione, diventava un mondo piccolo piccolo. Thomas
Henry fu una delle poche sorprese piacevoli della sua permanenza forzata.
Trascorrendo più tempo di quanto avrebbe voluto nelle taverne e nei caffè di Galata, annoiandosi tra franchi d’ogni sorta, mercanti
bloccati dall’inverno, capitani disoccupati o cavalieri di ventura,
l’apparizione di Thomas fu salutata da Girolamo come l’avvento di un’epoca di
esile contentezza. Era l’unico, tra tanti stranieri, a provenire
dall’Inghilterra del nord, precisamente da Appleby,
dove aveva inaugurato una scuola. Appassionato e studioso di storia greca e
romana, era giunto a Costantinopoli per trovare, acquistare e portarsi a casa
manufatti di quelle epoche che si diceva fossero ancora sparpagliati
nell’impero ottomano, negletta eredità di quello bizantino, senza che alcuno
se ne curasse, ed anzi, spesso distrutti con infantile quanto sadico piacere.
Raccontando di statue classiche prese di mira dai giannizzeri per esercitarsi
nelle armi, Thomas rabbrividiva d’orrore.
Bloccato anche lui dalla neve che diventava fanghiglia subito dopo
essere caduta, si rifugiava nei caffè al riparo dal freddo, godendo come Girolamo
di quel caldo vapore accogliente che vi si insediava dall’alba a sera.
Presero presto ad incontrarsi al Caffè “Il Leone”, che ostentava l’insegna
magistralmente dipinta del leone di San Marco. Tra gli avventori che giocavano a tavla in concentrato silenzio, quelli che fumavano
narghilè con tabacco aromatizzato al gelsomino o pipe di terracotta con il
cannello di legno, quelli che chiacchieravano senza sosta, oscurando con voci
profonde la musica tenue di un flauto ed un cogur,
i due si raccontarono la loro vita passata e tutti i sogni e le speranze del
futuro. Ma Girolamo si trattenne dal riferirgli la storia dei resti di Bragadin, per timore che qualcuno potesse ascoltarla e
riportarla. Inoltre evitò di nominare Osman Deli. Teneva accuratamente e gelosamente nascosti i suoi
sentimenti per lui, come se renderli noti potesse in qualche modo rischiare
di distruggerli o anche soltanto di offuscarli. Yoel Mimiela produceva copricapo di feltro, soprattutto kippot e tarbush. Era un uomo
sereno e gioviale, il cui volto mostrava volentieri i sentimenti che provava.
Dopo avergli affittato la stanza in cui viveva, offrì ad Osman
anche un lavoro nella sua bottega, che si trovava a metà collina, quasi al
confine con il quartiere turco. Di fianco alla bottega c’erano la stanza che
gli aveva affittato e la sua casa, con cui viveva insieme alla famiglia. Sua
moglie Rahel lo aiutava in bottega e i suoi tre
figli andavano alla scuola ebraica. Osman scoprì così che, all’interno della comunità
sefardita, nessuno era analfabeta. Si trattava di una comunità molto vasta,
che comprendeva più di metà dell’intera popolazione. E difatti il sabato
tutto si fermava. Lo Shabbat ebraico era il giorno
di riposo, adottato per esigenze di comodità anche dalle altre comunità,
poiché in tutte le attività gli ebrei erano presenti in gran numero. Il
sabato Osman passeggiava per la città, se il tempo
lo permetteva. Si incontrava con Vidin Satik, vicino alla moschea Kassimi
Giami, che una volta era stata la chiesa di San
Demetrio, trasformata dai turchi, con gran dolore dei cristiani che ancora
risiedevano a Salonicco. Era seduto sempre sulla stessa panca di pietra,
sotto i rami spogli di un albero secolare, che d’estate doveva estendere
l’ombra delle sue ampie fronde fin sulla facciata del tempio. A volte Vidin suonava per lui, oppure gli recitava dei versi. Un
giorno gli disse: -
Quanto cerchi valicando montagne, frugando per terra, in affannosi lunghi
viaggi è qui, non nell'insensato peregrinare... è in te la moschea ed il
caravanserraglio, ma tu cammini a casaccio! così recitò Yunus
Hemre. – -
Come se mi conoscesse… - commentò Osman. Altre
volte, invece, Vidin Satik
taceva. E allora capitava che ad Osman quel
silenzio non sembrasse silenzio, ma una magica forma di conversazione, che di
volta in volta gli trasmetteva sensazioni insolite o poetiche. Vidin parlava soltanto d’amore. -
Stasera in questo tempio si terrà una cerimonia. Vorrei che anche tu fossi
presente. – gli disse un giorno. -
Se ci tieni, ci sarò. – -
Lo apprezzo, anche se lo fai per amor mio e non per te stesso.- commentò Vidin,
sorridendo con ironia. La
prima cosa di cui Osman si stupì, quella sera, fu
di vedere numerosi cristiani tra i musulmani presenti. Appena entrato nella
moschea, qualcuno gli offrì una lunga candela, invitandolo a farsi avanti.
Quando raggiunse il cerchio dei fedeli, vide che il derviscio officiava la
cerimonia affiancato da un religioso cristiano. Vidin Satik salutò tutti i
presenti, invitandoli ad accendere le candele ad un enorme cero bianco ed
oro, poi annunciò che con quel rito ci si sarebbe avvicinati all’orecchio di
Dio e che nessuna invocazione che non fosse dettata dall’amore avrebbe potuto
trovare ascolto. Diede quindi inizio alla funzione, che fu molto diversa da
altre a cui Osman aveva assistito. Nel
momento in cui, tra musiche e canti, Vidin invitò i
fedeli ad innalzare al cielo le loro richieste, Osman,
la testa vuota, pensò a Girolamo, ma non riuscì a formulare una preghiera
diversa da quella che sempre accompagnava il suo ricordo. Alla
fine del rito, fu presentato un capretto legato, in una sorta di vascone di legno. Vidin lo
offrì a Dio pregando che il sacrificio gli fosse gradito, quindi lo sgozzò
con un solo fendente. Il derviscio fece portar via la vittima sacrificale e
invitò tutti a pregare ancora, con il massimo fervore. Osman
si sentiva imprigionato in una bolla vuota. Le candele illuminavano il
cerchio dei presenti, ciascuno immerso nella propria supplica. I suoi
pensieri erano fissi su un’unica immagine, quella di Girolamo che lo lasciava
davanti alla porta di casa, senza rivolgergli neppure un sorriso.
Quell’invocazione non sarebbe bastata a farlo tornare da lui. Vidin impose la sua benedizione finale e li invitò tutti
alla mensa. Il capretto doveva essere consumato. Il poyraz, il
gran vento proveniente dal nord, impigliava le nubi sfrangiate sui minareti
di Santa Sofia. Un velo freddo e vaporoso si stendeva sul Bosforo. Girolamo e
Thomas giunsero al gran campo dei morti di Scutari, abitato da innumerevoli
cipressi, dalle cui cime i falchi stridevano i loro richiami. -
Non credo che qui troverai niente. – gli disse Girolamo, mentre percorrevano
l’ennesimo sentiero. -
Eppure mi hanno raccontato di un piccolo tempio in marmo. Dev’esserci
rimasto qualcosa, se i giannizzeri non l’hanno utilizzato per il tiro al
bersaglio. – -
In un cimitero? Avranno un po’ di rispetto almeno di un luogo simile! – -
Non ne sarei troppo sicuro. – rispose Thomas, meditabondo. -
Che pace. Che solitudine. – sospirò Girolamo. Appena
pronunciate queste parole, il volto di Andrea gli si parò davanti agli occhi
della mente. Di sicuro gli piaceva quel posto, anche se non aveva avuto il
tempo di accompagnarcelo. Erano stati insieme troppo poco. Era quasi certo,
come spesso gli accadeva di pensare, che Andrea non si ricordasse neppure più
di lui. Sì, erano stati insieme troppo poco e in quel poco tempo non era
riuscito a fare breccia nel suo cuore. Glielo aveva ben detto. Persino la sua
amicizia era troppo, per lui. Non voleva neanche quella. Thomas
lo richiamò al presente. -
A cosa stai pensando, che ti rende così triste? – -
A niente. – -
Forse a qualcuno che è morto di recente? – -
No, non è morto, ma è come se lo fosse. – -
Dev’essere qualcuno che ami molto. – Girolamo
inghiottì il nodo che aveva in gola, ma fu incapace di rispondere. -
Perdona la mia invadenza. – -
Non preoccuparti. Mi passerà. – Imboccarono
un altro sentiero alberato che incrociava il primo e presero a risalire la
collina. -
Sai, non mi hai mai detto come mai sei qui. – -
Anche se può sembrarti strano, è per quello stesso motivo che mi rende
triste. – -
Non riesco proprio a cambiare argomento, dunque! – -
Non importa. Questo è solo uno scalo. Non appena mi sarà possibile, partirò
per Ragusa. – -
Io invece me ne andrò a Salonicco, dove mi aspettano per formare una carovana,
per poi raggiungere Atene. Quindi caricherò su una nave i reperti che sarò
riuscito a conquistarmi lungo la strada e me ne tornerò a casa. Non ti
andrebbe di accompagnarmi per un tratto? – Girolamo
ci pensò per qualche momento. -
Forse potrei seguirti fino a Salonicco e da là imbarcarmi per Ragusa. – -
Mi farebbe davvero piacere. – gli disse Thomas, sorridendo. Quindi,
rabbrividendo dal freddo, si strinse addosso il pastrano di pelliccia, in cui
il vento implacabile si infilava con folate improvvise. -
Qui di tempietti non c’è ombra, Thomas, e non mi sembra la giornata adatta
per questa esplorazione. Che ne diresti se tornassimo indietro? – -
Direi che hai mille volte ragione. Inoltre, temo che stia per piovere. – -
Ci mancherebbe solo questa. Non riusciremmo più a liberarci dal fango. – -
Torniamo indietro. – decise Thomas, sorridendo. Dopo aver diviso la mensa, i fedeli
uscirono dal tempio, in piccoli gruppi. Anche Osman
stava per ritirarsi, quando Vidin gli fece cenno di
restare. Poco dopo si ritrovarono da soli, nel grande locale adiacente al
tempio, dov’era stato arrostito il capretto e in cui avevano consumato il
pasto rituale. Vidin si sedette accanto ad Osman. -
Non t’affliggere così vanamente, vivi contento, e nell’ingiusta via della tua
sorte, vivi con giustizia. Giacché in conclusione questo mondo è il nulla,
pensa di essere il nulla, e libero vivi. – -
Di chi sono questi versi? – gli chiese Osman. -
Sono di Omar Khayyam, e sembra che anche lui ti
conoscesse, quando li ha scritti. – -
Già. Pare che tutti mi conoscano, tranne me. Non so più chi sono, non so cosa
voglio, non so dove vado, né perché. – -
Ascolta il tuo cuore. Lui sa tutto. E non hai bisogno d’altro. Seguilo, e sarai sulla giusta via. – -
Tu parli per fede. Io non ne ho così tanta. – -
Dio è buono. Dio è grande. – Osman, per la prima volta dopo molti mesi, ripensò al
martirio di Marcantonio Bragadin e si domandò come
potesse definirsi buono un Dio che aveva permesso un simile strazio. Come
se Vidin avesse potuto leggergli nel pensiero, gli
disse: -
Non confondere ciò di cui sono capaci gli uomini, con ciò di cui è capace
Dio. Lui è puro amore. L’uomo, per giungere a quell’amore, deve rendersi
capace di annullarsi in Lui. – -
Cos’è l’amore? – gli chiese Osman, guardandolo negli
occhi. Vidin lo fissò a lungo, finchè
ad Osman non sembrò che qualcosa si sciogliesse
dentro di lui. Era un grumo compatto, e duro, e terribile, che un calore
intenso liquefaceva lentamente, e poi, come un piccolo mare segreto in cui le
onde ribollivano nel soffio del vento, all’improvviso si placava,
tramutandosi in un limpido, immobile specchio. Osman sospirò e sorrise. Vidin
lo abbracciò stretto, cullandolo a lungo. Girolamo passeggiava per il mercato di Galata domandandosi per quanto tempo avrebbe dovuto
sopportare quell’ozio che gli stava mettendo i nervi allo scoperto. Possibile
che fosse tanto difficile trovare una nave che avesse il coraggio di
affrontare il mare? Si sentiva prigioniero, legato, a volte persino
imbavagliato, nei momenti in cui avrebbe voluto parlare di Andrea e invece
preferiva tacere. Thomas, accanto a lui, continuava a raccontargli di statue
e di templi, di imperatori romani ed eroi greci. Neanche di quelle storie ne
poteva più. Né di quei tre cani randagi che li seguivano fin dal momento in
cui erano usciti dal caffè. Non sopportava le donne velate che si aggiravano
tra i banchi, lanciandogli occhiate interessate, mentre le europee, a volto
scoperto, non lo degnavano nemmeno di uno sguardo. Arrivando in fondo al
mercato, videro un mercante di usignoli. Girolamo osservò i poveri
prigionieri per qualche momento, convincendosi che almeno loro avrebbero
dovuto volare via liberi, librandosi nel cielo. Ne domandò il prezzo, sotto
lo sguardo incuriosito di Thomas. -
Ne compro dieci. – -
Che diavolo te ne fai di dieci usignoli? – -
Niente. – affermò Girolamo, porgendo il denaro al mercante. Poi
iniziò ad aprire le gabbie. Yoel Mimiela faceva tingere la lana in fiocco, da tintori
caucasici, in un edificio subito fuori dalle mura, oltre Osman fu incaricato di andare a ritirare un carico di
lana tinta, con un piccolo carretto trainato da un asino. Già appena giunto
nelle vicinanze del magazzino, potè avvertire il
terribile tanfo. Entrò nell’ampio cortile, dove quasi immediatamente lo
raggiunse un giovane, incredibilmente sporco. Aveva macchie colorate per
tutto il corpo, persino sulle braccia e sul viso. L’aria era gelida, ma lui
se ne stava là, nel cortile, mezzo nudo, come se nulla fosse. -
Mi manda Yoel Mimiela. –
gli annunciò Osman. -
Vieni. – rispose il giovane, correndo verso un grande portone spalancato. Osman lo seguì a piedi. Il ragazzo si voltò e gli
disse: -
Che fai? Vieni dentro col carretto. – Osman comprese solo allora la necessità di un simile
portone. Una
volta all’interno, due ragazzi colorati come il primo, ma forse ancora più
giovani, caricarono le balle di lana colorata, blu, gialla, marrone, rossa,
verde e nera. Yoel Mimiela
lavorava anche lana grezza, nel suo colore naturale, ma Osman
trovava che le tinte di quella lana fossero assai più belle. Era curioso di
vedere all’opera i tintori e chiese di poter entrare. Uno dei ragazzi lo
invitò a seguirlo. Uscirono dal magazzino, attraversando il cortile per
accedere di nuovo nel vasto edificio da un portoncino laterale. Qui, appena
entrato, Osman ebbe l’impressione che tutto il
fiato gli uscisse dai polmoni. L’aria era irrespirabile e densa, nuvole di
vapore pestilenziale salivano da immensi vasconi di
rame, ai bordi dei quali una decina di giovani, armati di lunghi bastoni,
rimestavano un ribollire di lana in fiocco o in matasse. Ogni vascone conteneva un liquido di colore diverso. Se un
giorno avesse dovuto rappresentarsi un inferno, quell’immagine sarebbe
risultata appropriata. Uscì quasi subito, dopo aver ringraziato il ragazzo
della sua gentilezza. Questi abbassò il capo, imbarazzato. Osman intuì che doveva essere uno schiavo, come tutti gli
altri. La
schiavitù, una condizione che lui aveva evitato rinnegando la sua fede. Non
se n’era mai sentito colpevole, eppure dentro di sé sapeva che c’era qualcosa
di sbagliato. Il Dio a cui rivolgeva le sue preghiere non era mai cambiato.
Era convinto che tutti, cristiani, ebrei o musulmani, credessero in un unico
Dio, che era sempre lo stesso. Che senso avevano secoli di guerre, di
persecuzioni, di abomini, per affermarne l’innegabile primato? Chiamandolo
con nomi diversi, gli uomini non potevano cambiarlo né dividerselo. E dunque?
In nome di quale follia si combattevano? Quando
Osman espresse i suoi dubbi a Vidin,
il derviscio sorrise. -
Hai talmente ragione, che molte delle convinzioni di ciascuna fede sono
passate alle altre in uno scambio equo ed inevitabile. L’altra sera hai visto
vicino a me un cristiano. Altre volte c’è stato un rabbino. Ci sono luoghi di
culto in cui entrano a pregare indifferentemente gli uni o gli altri. È come
dici tu. Dio è uno solo, comunque gli uomini decidano di chiamarlo. – -
Allora perché le guerre in nome di Dio, se quel Dio è lo stesso?– -
Questa è la follia degli uomini. Ma tu hai compreso. Dio ti ha illuminato. – -
Non per questo mi sento più vicino a lui. – -
È agli altri uomini che devi sentirti più vicino. Questo è il primo passo. – Come
ogni volta che un obiettivo gli sembrava irraggiungibile, Osman
sospirò. E come ogni volta che comprendeva il suo disagio, Vidin lo abbracciò. Quel
pomeriggio Girolamo aveva bevuto tanto caffè che ne aveva la nausea. -
Basta. Facciamo qualcosa. Non ne posso più di stare qua dentro. Persino la
monotonia di questa musica mi sta dando il mal di capo. – -
Va bene, usciamo. Mi hanno parlato di una persona. Potremmo andare a
trovarla. – rispose Thomas. Quando
furono all’aperto, diretti verso l’alto della collina, Girolamo gli chiese: -
Chi è questa persona? – -
Una donna. – -
Una donna? Sei impazzito? Qui ti metti nei guai anche solo se provi a
parlarci, con una donna.– Thomas
rise. -
Non per questa donna. Lei ci riceverà volentieri. – -
È una cortigiana? – -
Naturalmente. – Girolamo
nascose il suo imbarazzo. A Venezia, nonostante più volte i suoi amici lo
avessero invitato ad accompagnarli nelle loro spedizioni notturne vicino a
Rialto o alle Carampane, Girolamo si era sempre rifiutato di seguirli,
affrontando e sopportando coraggiosamente i loro lazzi. Pensò che si sarebbe
limitato ad accompagnare Thomas, ma che non sarebbe entrato. Bussando
ad un portoncino di legno dipinto di rosso, Thomas si voltò e gli rivolse un
sorriso di complicità. Girolamo ricambiò quel sorriso, sempre più impacciato. Ad
aprire fu un ometto piccolo e magro con un enorme turbante sulla testa e una
veste riccamente ricamata, da cui sbucavano le punte ricurve di due babbucce
dorate. -
Siate i benvenuti. – disse – Entrate subito o farete uscire tutto il calore.
– Thomas
spinse dentro Girolamo, che non ebbe il tempo di fiatare o di opporsi. Fu
così che si ritrovò in un piccola saletta accogliente, con divani sulle tre
pareti e cuscini di ogni colore. Girolamo
provava una gran voglia di fuggire, ma non osava muoversi. Poco dopo tornò
l’ometto, dicendo: -
La mia signora vi riceve. – -
Vai tu. – disse immediatamente Girolamo. -
No, vai prima tu. – -
Thomas, vai. È stata tua l’idea. – -
Potete andare insieme. – disse l’ometto, con un detestabile sorriso
mellifluo. Thomas
afferrò per un braccio Girolamo, sollevandolo di peso dal divano e lo
trascinò a forza dietro l’ometto che li precedeva. Giunti
in un’altra stanza, li accolse una giovane donna di una bellezza conturbante.
Portava un lungo abito a strisce di colori screziati, com’era tipico delle
donne dell’isola di Proconneso, con un’alta
pettinatura carica di riccioli scuri che le scivolavano sul petto a
nascondere il seno nudo. Alle
sue spalle vi era l’alcova, con tende di velluto rosso e cordoni dorati.
Sulla parete di fianco, un divano coperto di cuscini. Due lampade rosse
illuminavano l’ambiente di una luce morbida e discreta. Un sottile profumo di
gelsomino invadeva l’aria. Da qualche parte, nella casa, qualcuno aveva
iniziato a suonare un cogur. Girolamo
sentì venirgli meno le forze, le gambe molli. Andò a sedersi, senza invito.
Thomas non si curò più di lui. Si era avvicinato alla donna sorridente che
aveva dato loro il benvenuto e già, senza alcun pudore, le faceva complimenti
per la sua bellezza e le spostava le ciocche dei lunghi capelli, scoprendole
il seno. Yoel invitò a
pranzo Osman. La loro casa era sempre aperta ad
amici e correligionari. Yoel non faceva distinzioni
di razze o religioni. Essere nato in una città come Salonicco glielo
impediva. Com’era diversa da Costantinopoli, dove i latini erano relegati in
quartieri chiusi e trattati sempre come stranieri, se non come nemici. Qui
solo i turchi tendevano a riunirsi in un solo quartiere, ma forse lo facevano
per abitudine, non essendo abituati ad una simile promiscuità. Dopo
la preghiera rituale, a cui Osman si unì senza
imbarazzo, fu servita in tavola la shawarma, con
carne di pecora, accompagnata da una salsa a base di ceci e semi di sesamo.
Il pane azzimo accompagnò il pasto, che si concluse con la baqlava, un dolce a base di miele e frutta secca, di cui
i bambini andavano pazzi. Osman ringraziò con vera
gratitudine, complimentandosi con Rahel. Quando i
bambini lasciarono la tavola, Yoel gli chiese quali
fossero i suoi progetti per il futuro. -
Potresti restare. Stai imparando bene il mestiere ed io ho proprio bisogno di
un aiutante valido. – -
Mi dispiace, devo andare a Ragusa. Mi unirò alla prima carovana che partirà
in quella direzione. – -
Resta almeno fino alla fine dell’estate. Mi hanno offerto una grossa
commessa, ma se tu non mi aiuti, non posso accettarla.– -
Non c’è nessun altro che possa collaborare con te? – gli chiese Osman. -
No. Se tu non puoi restare, la rifiuterò. – Osman lasciò indugiare il suo sguardo sulle mani forti
di Yoel, poi sul suo volto serio e sereno, nei suoi
occhi scuri, carichi di bontà. Ripensò alle parole di Vidin.
È agli altri uomini che devi sentirti più vicino. Il primo passo. Era quello
il primo passo. Osman accettò. Vidin
ascoltò il suo racconto e approvò la sua decisione. -
Hai seguito il tuo cuore. L’amore comincia ad indicarti il cammino. È davvero
una cosa buona. – -
Eppure vorrei già essere a Ragusa. – -
Non preoccuparti. Vivi libero. Anche i desideri sono una zavorra di cui
dobbiamo disfarci. – -
Di questo non posso disfarmi. – -
Che cosa c’è di così importante che ti aspetta a Ragusa? – gli chiese Vidin, come se già non avesse capito. Girolamo restò chiuso nella sua stanza
al Palazzo del bailo per due giorni interi. La sua
esperienza con Eirene era stata disastrosa. Per lei
non aveva provato alcuna attrazione, ma la presenza di Thomas, nudo accanto a
lui, lo aveva sconvolto. Non aveva osato mostrargli il suo desiderio, nemmeno
per un attimo, ma aveva usato Eirene in modo
vergognoso, come un odioso ripiego. Per Eirene non
doveva essere inconsueto, non aveva opposto alcuna resistenza. A questo
ricordo si era aggiunto il pensiero di Andrea, verso cui ora si sentiva
colpevole, come per un basso tradimento. La sua confusione lo aveva gettato
nello sconforto. Desiderava soltanto partire, non rivedere mai più né Thomas,
né Costantinopoli. L’unica cosa che voleva davvero, dal più profondo del
cuore, era ritrovare Andrea. Paolo
Contarini lo convocò. -
Che c’è, Girolamo? Non ti senti bene? – -
No, sto benissimo. – Il
bailo lo osservò, per nulla convinto. -
A Costantinopoli la peste è sempre in agguato. Se non ti senti bene, me lo
devi dire. Mando a chiamare il medico. – -
No, non è questo. Non ne posso più di quest’attesa. Vorrei poter partire subito.– Contarini sfogliò alcune carte davanti a sè, poi puntò il dito su un messaggio scritto in
caratteri incredibilmente fitti e minuti. -
Se il tempo lo permetterà, fra tre giorni salperà una nave per Salonicco. Là
potresti trovarne facilmente un’altra per Durazzo o addirittura per Ragusa. – Il
volto di Girolamo si illuminò. -
Grazie. Sarebbe perfetto. – -
Va bene. Ci penso io. Puoi iniziare a preparare il tuo bagaglio. Però
arriverai là come mio messaggero. Dovrai consegnare un plico alla persona che
ti indicherò. – -
Lo farò molto volentieri. – -
È venuto un certo Thomas Henry a cercarti. Era preoccupato di non vederti al
caffè. Gli abbiamo detto che eri impegnato. – -
Grazie. – disse solo Girolamo, congedandosi. Non
voleva rivedere Thomas, dopo quello che era accaduto. Non sarebbe più stato
in grado di guardarlo negli occhi. Ricordava troppo bene il suo corpo svelto,
i suoi muscoli guizzanti, la schiena che si inarcava ritmicamente, mentre i glutei si tendevano. Ricordava
troppo bene il desiderio lancinante che lo aveva finalmente invaso, e che non
era scaturito dalla vista della pelle liscia e morbida di Eirene,
o delle sue forme piene, bensì da quella del corpo di Thomas, che mentre si
accoppiava con la donna, gli lanciava occhiate inquietanti, che Girolamo non
aveva saputo decifrare. Non voleva più pensare a quel giorno. Non voleva più
rivedere Thomas. Appena fuori dalle mura del quartiere
turco del Kastra, un giorno apparve una comunità di
Zingari, con tanto di animali al seguito. Osman
vide gli orsi per la prima volta. Erano impressionanti, ben più alti degli
uomini, quando si ergevano in piedi, camminando su due zampe. Erano animali
addestrati alla lotta con gli esseri umani. Avevano unghie limate, il muso
tenuto stretto da una fascia di cuoio e un collare da cui partiva un
guinzaglio con cui l’ursaro li teneva a bada. Il
loro arrivo pose in festa l’intera zona. Si udivano spesso le musiche di
tamburelli e strumenti a corda che gli Zingari suonavano con una specie di
bastoncini. I loro canti erano quasi sempre allegri e pieni di ritmo. Le
donne ballavano in cerchio a piedi nudi, nonostante il freddo. Portavano
vesti molto colorate, i capelli lunghi, sciolti sulle spalle, e si adornavano
di numerosi bracciali, lunghe collane e orecchini appariscenti, che
lanciavano bagliori alle luci delle fiamme. La
sera, intorno ad un cerchio di piccoli falò, si riuniva la gente ad osservare
e scommettere sulla lotta degli orsi. Una
volta Vidin apparve accanto ad Osman. -
Non è bene scommettere. – gli disse. -
Non lo faccio, stai tranquillo. – gli rispose Osman. -
Allora perché sei qui? – -
Solo per curiosare. Mi piace questa gente. Sembra così viva, così felice.
Libera. – -
Anche i dervisci erranti sono liberi. Se aspiri alla libertà, potresti unirti
alla mia tarikat, la confraternita sufi che mi ha accolto da ragazzo. – -
Non ho abbastanza fede, per questo. – ribattè Osman. -
È sufficiente l’amore. – -
Perché mi rigiri il coltello nella piaga? – -
Cosa ti ha convinto che non sai amare? – gli chiese Vidin,
osservandolo con tenera curiosità. -
Cosa ti fa pensare il contrario? – Vidin gli appoggiò una mano sul torace. -
Io ti leggo nel cuore. – Girolamo non voleva più rivedere Thomas,
ma lo rivide, invece, sulla nave. -
Ti ho cercato, per salutarti. E invece parti anche tu. – gli disse,
sorridendo soddisfatto. -
Sono in servizio per il bailo. – si limitò a
spiegargli Girolamo. -
Questa coincidenza è incredibile. Ma mi rende davvero felice. – commentò
Thomas, con una pacca sulla spalla. Nessuno
dei due accennò all’ultima volta che si erano visti. -
Perché limitarsi ad amare uno solo, quando puoi amare molti? Sulla terra ama più che puoi. In cielo
ama solo l’Altissimo. – Osman non capiva. Come avrebbe potuto amare altri nello
stesso modo in cui amava Girolamo? Forse era proprio Vidin,
che non aveva capito nulla di quanto gli aveva raccontato. -
Capisco che tu possa essere incerto, ma vedrai che un giorno capirai che si
può amare in molti modi e moltissime persone. – Osman si aspettava che a quel punto Vidin
lo abbracciasse, come faceva sempre, invece non accadde. E ad Osman quell’abbraccio mancò. Prima di andarsene, fu lui
ad abbracciare Vidin, il quale lo ricambiò con un
sorriso soddisfatto, proprio come se avesse finalmente ottenuto il suo scopo. Osman si fermò. -
Era questo che aspettavi? – gli chiese. -
Non solo questo. Ma è già qualcosa. – rispose Vidin,
fissando il suo sguardo intenso negli occhi azzurri di Osman.
Osman sentì le sue ultime barriere cadere,
precipitandolo in un luogo senza confini, privo di densità, dove nulla aveva
nome o regole, dove ogni cosa era possibile. Vidin lo prese per mano e lo condusse con sé. Thomas approfittò della prima notte di
viaggio per liberarsi di una confessione che gli premeva. Nella stiva, dove tutti sembravano ormai
addormentati, gli parlò sussurrando. -
Ti ho pensato molto, Girolamo. Soffrivo al pensiero di non rivederti più,
senza poterti confidare quello che mi è accaduto. Per questo sono così felice
che tu sia qui. Adesso ho la possibilità di dirtelo e tu puoi prenderla come
vuoi, non mi importa. - -
Thomas… - -
Lasciami finire, ti prego. Non è facile, per me, ma devo dirtelo, fosse
l’ultima volta che mi permetti di avvicinarmi a te. L’altro giorno, quando
eravamo con Eirene… quad’ero
sopra di lei, io… io avrei voluto che al suo posto
ci fossi tu. E dopo, quando tu hai preso Eirene in
quel modo… al suo posto avrei voluto esserci io.
Non sai quanto l’ho desiderato. Non mi era mai accaduto nulla del genere.
Volevo dirtelo subito, ma eri così distratto e lontano. Me n’è mancato il
coraggio. Ecco, ora lo sai. Puoi fare quello che vuoi. Non m’importa. – -
Thomas, anch’io. Anch’io provavo lo stesso. – bisbigliò Girolamo. -
Ma è vero, è proprio vero? – -
Sì, Thomas. – Nascosti
da una montagna di merci e dal buio di quell’angolo della stiva, Thomas e
Girolamo si baciarono a lungo, per poi lasciarsi andare, in prudente
silenzio, a quell’amplesso che la presenza di Eirene
aveva ispirato eppure impedito. Neppure
per un momento, nella mente di Girolamo, si affacciò il ricordo di Andrea.
Solo molto più tardi, quando si svegliò nel cuore della notte, il suo
pensiero riprese a tormentarlo. Di nuovo fu afferrato dal rimorso, un senso di
colpa che alla luce del sole sarebbe svanito, ma in quel momento, costretto
nel buio della stiva, lo lacerava nell’incertezza. Cosa avrebbe fatto? Chi
contava di più per lui? L’amico Thomas, con cui aveva condiviso i mesi di
attesa di quel viaggio di ritorno, oppure Andrea, che non era neppure certo
di ritrovare e che in ogni caso lo avrebbe di sicuro respinto, giacché ne
aveva rifiutato persino l’amicizia? Thomas
dava per scontato che Girolamo lo seguisse ad Atene. Lui non aveva avuto il
coraggio di smentirlo. Ma considerava Thomas soltanto un amico, e quello che
avevano fatto, semplicemente un piacevole passatempo. Il suo cuore era
altrove. All’improvviso
comprese le ragioni di Andrea. Per Andrea, Girolamo era solo un amico, così
come Thomas era per lui. Nulla di più. Da parte di Andrea non c’era stato
amore in quel loro rapporto. Non c’era stato e non ci sarebbe stato mai.
Perché allora intestardirsi a cercarlo? Si sarebbe dunque convinto a seguire
Thomas ad Atene? Neppure questo avrebbe avuto senso. Non sapeva ancora cosa
avrebbe fatto. Non era sicuro di nulla. -
Cosa pensi ora? Nel tuo cuore c’è spazio per più d’uno? – chiese Vidin, tornando ad indossare le sue pelli. -
Io amo Girolamo in un modo diverso. – -
Tanto diverso da poter affermare che non ami anche me? – Osman era molto confuso. Il freddo che gli mordeva le
carni lo costrinse a rivestirsi in fretta. Non osava confessare a Vidin che per tutto il tempo aveva pensato a Girolamo. Vidin gli si era offerto come la prima volta aveva fatto
Girolamo, con la spontaneità di un desiderio che ha fretta di essere
esaudito. Ma in Vidin non aveva individuato la
stessa tenerezza, il medesimo timido slancio, l’incertezza di essere compreso
e approvato. Osman non aveva trovato le ragioni per
ricambiare quell’offerta. -
Perché hai voluto farlo? – gli chiese Osman,
ignorando la sua domanda. -
Perché ne avevi bisogno. Ed anch’io. – -
Mi pare che sia proprio tu a confondere le cose. Finora mi hai sempre parlato
dell’amore spirituale. Questo invece era un banale sfogo della carne. – -
L’amore ha mille sfaccettature e tutte concorrono in egual modo a renderlo
ciò che è. – -
Allora ho ancora molta strada da fare. – -
Questa sera ti sei limitato a partecipare soltanto con il corpo, la prossima
volta ti insegnerò ad usare anche il cuore. – Osman si chiese se ci sarebbe stata una prossima volta.
Vidin
aspettava che qualcosa cambiasse, che il suo amore facesse breccia nel cuore
di Osman. La sua pazienza era una delle virtù che
aveva alimentato sin dai suoi primi studi. Una volta il suo maestro lo aveva
fatto sedere davanti ad un albero e gli aveva indicato una foglia. -
Starai qui finchè quella foglia non sarà caduta.
Allora la raccoglierai e me la porterai. – gli aveva detto. Vidin aveva aspettato per quarantadue giorni. Nel
frattempo aveva imparato ad essere paziente, sotto il sole, sotto la pioggia,
sferzato dal vento, digiuno se nessuno gli portava del cibo, assetato se
nessuno gli portava dell’acqua. Quando la foglia era caduta, per un momento Vidin ne era stato dispiaciuto. Osman era simile a quella foglia. Il giorno che fosse
caduto, Vidin ne sarebbe stato felice non tanto per
sé, che stava comunque per proseguire il suo cammino, quanto per Osman, che finalmente avrebbe potuto iniziare il suo. Girolamo prese infine una decisione.
Avrebbe salutato Thomas a Salonicco. Le loro strade si sarebbero divise.
Thomas si arrese soltanto dopo la promessa che Girolamo, se un giorno avesse
potuto, sarebbe andato a trovarlo ad Appleby. Per
evitare strascichi penosi ed inutili emozioni, Girolamo gli disse addio sul
molo, appena sbarcati. Thomas lo avvolse in un abbraccio accorato, con le
lacrime agli occhi. Girolamo si dovette sciogliere da quell’abbraccio con una
certa forza, quasi brutalmente, dirigendosi poi a lunghi passi verso la
città. Per lui era una storia già chiusa. Tra
i tanti testimoni di quell’addio, uno, in particolare, ne provò un’emozione
profonda e sconvolgente, Osman, che osservando la
disperazione di Thomas, ebbe pietà di lui con la stessa intensità con cui
l’avrebbe provata per se stesso. E invece di rincorrere Girolamo, come
avrebbe fatto in qualunque altro momento, si diresse verso l’uomo rimasto
solo sul molo a fissare la figura che s’allontanava senza voltarsi indietro. Quando
gli fu vicino, si offrì di aiutarlo. -
Ti ringrazio, ma sono già atteso alla locanda vicino all’Arco di Galerio. – -
Posso aiutarti a portare i bagagli. – incalzò Osman,
senza spiegarsi il motivo di quell’insistenza. -
Ma certo. Ti ringrazio. – rispose Thomas, scambiandolo per un facchino. -
Mi chiamo Osman Deli. –
gli disse, mettendosi in spalla una delle sacche. -
Io sono Thomas Henry. – -
Poco fa ti ho visto con Girolamo Polidoro. – -
Lo conosci anche tu? – -
Ci siamo conosciuti a Costantinopoli, la scorsa primavera. Non sapevo che ci
fosse tornato. – -
È in viaggio per Ragusa. Anche qui si fermerà poco. – In
viaggio per Ragusa. Osman si sentì improvvisamente
euforico, come non gli accadeva da un tempo infinito. Perché
non aveva subito rincorso Girolamo? Perché stava perdendo il suo tempo con
lui? Poi guardò in volto Thomas, osservò le tracce delle lacrime che aveva
cancellato sommariamente e gli tornò quella stretta al cuore che lo aveva
mosso a compassione. Attraversarono
Osman lo lasciò alla locanda augurandogli ogni bene.
Quando Thomas, ringraziandolo, fece il gesto di por mano alla borsa, Osman si difese.
-
Gli amici di Girolamo sono miei amici. – -
Grazie. Se lo incontri, ricordagli che mi ha promesso di raggiungermi, quando
avrà completato il suo servizio per il bailo di
Venezia. – Osman si bloccò. -
Ma non è diretto a Ragusa? – -
Sì, ma poi verrà da me in Inghilterra. – Dunque
Girolamo non era affatto diretto a Ragusa per cercare lui. Non aveva alcuna
intenzione di fermarsi là. E magari vi era diretto soltanto dietro ordine del
bailo. Contarini sapeva.
Lo aveva forse spedito a Ragusa nella speranza che si incontrassero, dal
momento che Osman gli aveva confessato il suo
desiderio. Ma ciò non sarebbe accaduto. Lui sarebbe rimasto a Salonicco fino
alla fine dell’estate e per quell’epoca Girolamo avrebbe già raggiunto
Thomas. Osman si diresse alla Kassimi
Giami, temendo e sperando di incontrare Girolamo
lungo la strada. Doveva parlare con Vidin, subito. Ma
per la prima volta dacché si conoscevano, la panchina era vuota e di Vidin non v’era traccia. Osman andò a cercarlo nella capanna dove si rifugiava
di notte, fuori dal quartiere turco del Kastra,
abbarbicata ai primi contrafforti del monte Kissós.
Vi giunse in fretta, stremato, ma trovò Vidin
immerso nella meditazione, così non gli restò che aspettare. Osman si sedette in un angolo, appoggiando la fronte
alle ginocchia. Tremava. Finalmente l’onda della disperazione si abbattè su di lui. Aveva perduto la sua ultima speranza.
E questo avveniva proprio nel momento in cui Girolamo era a due passi da lui,
in quella stessa città, mentre respirava la stessa aria, vedeva lo stesso
cielo, udiva gli stessi richiami dei gabbiani. Accadeva nello stesso momento
in cui avrebbero potuto incontrarsi faccia a faccia ed Osman
avrebbe potuto finalmente confessargli i suoi sentimenti. Ma perché mai
avrebbe dovuto? Era chiaro che ormai era stato sostituito da qualcun altro,
che mostrava di amarlo molto meglio di lui, quel Thomas che piangeva, mentre
Girolamo si allontanava verso la città. Lo aveva colpito quel dolore, perché
era lo stesso che un giorno aveva provato lui. La sua preghiera era stata
esaudita, Girolamo era a Salonicco, ma questo non era sufficiente. Girolamo
non lo amava più. -
Osman. – La
voce dolce di Vidin lo riscosse dai suoi pensieri,
che si erano smarriti in un labirinto senza via d’uscita. Sollevando la
testa, gli disse: -
Vidin, Girolamo è qui. – -
E perché ne sei tanto sconvolto? – -
Ama un altro. L’ho visto, ci ho parlato. Lui lo sa amare meglio di me. – -
È Girolamo che te l’ha detto? – -
No, ho parlato con Thomas, il suo compagno. – -
Non sarebbe più giusto che lo sentissi dalla voce di Girolamo? – -
E a cosa servirebbe? Soffro già abbastanza così. – -
Ti fidi tanto di questo Thomas di cui conosci appena il nome? – -
Perché avrebbe dovuto mentirmi? Piangeva. – -
E perché mai? – -
Si erano appena detti addio, giù al molo. Girolamo proseguirà il viaggio
verso Ragusa e Thomas andrà in Inghilterra. Ma presto si ritroveranno. – -
Strano. Sono entrambi qui, eppure ognuno se n’è andato per la sua strada. Non
mi sembra che due compagni si comportino così. – Osman lo fissò. -
È vero. Hai ragione. Che senso ha? Avrebbero potuto restare insieme, almeno
fino alla partenza di uno dei due. – -
Già. Io avrei fatto così. E tu? – -
Anch’io. – disse Osman. -
Allora, appurato questo, perché ora non vai a cercarlo? – Osman uscì in fretta dalla casupola. Vidin lo vide correre giù per la collina, mentre sul
golfo si allungavano lievi nubi rosa bordate di viola. L’orizzonte
scintillava, ricordandogli che aveva indugiato fin troppo. Doveva riprendere
il suo cammino. Thomas gli aveva detto che Girolamo
aveva compiuto quel viaggio per conto del bailo. Cosa
avrebbe potuto volere Contarini, a Salonicco? O si
trattava soltanto di uno scalo? In quale locanda poteva cercarlo? Quella dei
veneziani era vicino alla sinagoga Katallan Yachan. Probabilmente si sarebbe fermato là. Osman vi si recò, chiedendo notizie, ma di Girolamo non
v’era l’ombra, né in quella, né in altre locande dov’era probabile che
potesse sostare. Alla
fine decise di informarsi anche in quella dell’Arco di Galerio,
pur rischiando di imbattersi nuovamente in Thomas, che in quel momento era
l’ultima persona al mondo che avrebbe voluto incontrare. Ma Girolamo non
c’era. Neppure
il giorno seguente riuscì a trovarlo, né a parlare con Vidin,
che era di nuovo sparito. Per
quattro giorni, finito il lavoro, se ne andò in cerca di Girolamo, ma
sembrava che la città lo avesse inghiottito nelle sue viscere, senza neppure
sputarne le ossa. Dedicò il sabato alla sua ricerca, dopo aver subito i
rimproveri affettuosi di Yoel che aveva notato la
sua distrazione e la svogliatezza con cui stava lavorando. Passò davanti alla
Kassimi Giami, ma Vidin non c’era, neppure all’interno del tempio. Andò
a chiedere se si aspettavano navi per Ragusa, ma nessuno ne sapeva nulla. Poi
qualcuno lo informò che era partita una carovana di sale e pellicce, proprio
per Ragusa, sulla via Egnazia. L’avrebbe seguita
anche lui, se non avesse promesso a Yoel di restare
fino alla fine dell’estate. E se Girolamo si fosse unito a quella carovana?
Nessuno gli seppe fornire informazioni certe. Sì, forse c’erano anche
genovesi e veneziani. No, non era sicuro.
Le
navi cominciarono a riempire i moli, ma di Girolamo non ebbe più notizie. Osman rimase sulle spine per molti giorni, ma infine si
rassegnò. Quello era il destino. Un destino beffardo, ma doveva accettarlo.
Anche Vidin era scomparso e gli mancava molto più
di quanto avrebbe creduto possibile. Ormai la neve era solo un ricordo.
Superata Pella, Girolamo cavalcava dietro l’ultima
soma, seguito dal dragomanno e da due giannizzeri armati fino ai denti.
Attraversando la pianura macedone, benché il vento continuasse spesso a
disturbarli, il calore del sole si faceva via via
più intenso. In alcuni momenti della giornata, era costretto a disfarsi del
pastrano. Cavalcando a quel ritmo ipnotico, aveva preso l’abitudine di sognare
ad occhi aperti. Tra meno di un mese, avrebbe raggiunto Ragusa e là sarebbe
andato in cerca di Andrea. Sognava il momento del loro incontro, in ogni
variante possibile. Lo avrebbe incontrato appena entrato in città. “Hai
bisogno di una guida?” gli avrebbe chiesto Andrea, ridendo. Oppure dopo
lunghe ricerche, in una piccola casa ai confini della periferia, affacciata
sulla verde distesa delle vigne. Andrea si sarebbe stupito di vederlo.
Girolamo gli avrebbe detto che la sua vita non aveva senso senza di lui. No,
non avrebbe potuto. Doveva andarci cauto, convincerlo un poco alla volta,
permettendogli di abituarsi all’idea. Ma il sogno più bello era quello in cui
Andrea gli correva incontro abbracciandolo e sussurrandogli in un orecchio
che lo stava aspettando, che ci aveva ripensato, che anche lui lo amava. A
volte Girolamo pregava che quel sogno potesse avverarsi. Altri giorni, forse
per la stanchezza, pensava che Andrea se ne fosse già andato, che Ragusa lo
avesse deluso, convincendolo a spostarsi altrove. Dove? Dove avrebbe potuto
ritrovarlo, se non era più lì? Non ne aveva idea. E questo pensiero lo
terrorizzava più di ogni altro, più di un temuto attacco di razziatori, più
di un incontro con i pirati, più di un naufragio per via della tempesta. Non
trovare Andrea a Ragusa sarebbe stata la fine. Osman aspettò Vidin nella sua baracca, per innumerevoli sere, ma il
derviscio non ritornò. Un sabato decise di trascorrervi l’intera giornata.
Non v’era ansia in lui. Non si trattava di una vera e propria attesa, ma
piuttosto di un puro esercizio di pazienza e di meditazione, che gli svuotava
la mente da ogni pensiero. Quando infine fu stanco, si distese sulla stuoia e
si addormentò. Lo
svegliò, sull’orlo dell’alba, l’impressione di essere osservato. Nel vago
chiarore della stanza scorse una presenza, accanto a lui. Un uomo nudo,
seduto con le gambe incrociate, il respiro tranquillo, uno scintillio negli
occhi, che ben conosceva. -
Perché sei qui? – -
Per te. – rispose Osman. -
Hai qualcosa da dirmi? – -
Solo che ti amo. – L’uomo
lo abbracciò. Ogni distanza era caduta. Nello
stesso modo caddero i dubbi di Osman, si sbriciolò
il tempo, si annientarono rimpianti, paure, confusioni, incertezze, oscuri
tormenti. Fu inghiottito in un vortice che lo sollevò nell’aria, lontano
dalla terra, in un cielo risplendente di nuvole vaporose e stelle cadenti. Quella
notte gli restituì la fiducia nell’amore. Al
suo risveglio non c’era nessuno. E in quella baracca non tornò mai più. Dopo aver superato i passi montani, la
carovana discese verso Lychnidòs, alla regione dei
laghi. Il paesaggio era splendido. Girolamo si scoprì a descriverlo ad
Andrea, nella sua mente. Avrebbe voluto averlo accanto, partecipe anche lui
di quello spettacolo. Per tutto il viaggio aveva rimuginato fantasie nella
sua testa, scambiando poche frasi con il dragomanno e con qualche
carovaniere, mai con i giannizzeri, che si tenevano accuratamente in
disparte, quando si fermavano per la notte nei caravanserragli. Verso
Clodiana incrociarono un’altra carovana diretta in
senso opposto, a Costantinopoli. Trasportava stoffe. Si informarono sulla
strada. L’anno precedente, avevano subito l’attacco di un gruppo agguerrito
di razziatori. Saputo che il loro viaggio era stato tranquillo, ripresero il
cammino con volti più rilassati. Giunti
a Durazzo, Girolamo si domandò se non fosse il caso di imbarcarsi per
raggiungere Ragusa più in fretta, ma il dragomanno lo sconsigliò. Ormai il
viaggio era quasi al termine. In
effetti, non solo quel viaggio finì in fretta, ma anche l’altro. Girolamo
infatti vagò a lungo ed inutilmente per la città, in cerca di Andrea. Infine si decise a chiedere notizie presso
il Palazzo del Rettore, dove dovette far registrare la sua presenza. Di Osman Deli non c’era traccia
nei loro registri, né come visitatore, né tantomeno come residente. Andrea
non vi era mai giunto. Dopo aver pagato una piccola tassa per la sua
permanenza in città, venne informato che vi era divieto assoluto di girare
armati e di circolare in strada dopo l’ora terza. Quindi fu libero di andare.
Andare
dove? Girolamo non ne aveva idea. Non a Venezia, di questo era sicuro. Cosa
poteva fare? Doveva ripetere il viaggio di Andrea. Fermarsi in ogni città, in
ogni villaggio, per chiedere di lui. Qualcuno doveva pur averlo visto. Da
Costantinopoli, dov’era andato? Quando lui era partito da Venezia, aveva
incontrato un tempo terribile. Andrea era partito solo due settimane dopo,
quindi aveva sicuramente dovuto interrompere il viaggio molto presto. A
Salonicco, forse. Il luogo in cui si era fermato, gli era piaciuto tanto che
aveva deciso di stabilircisi? Perché no? Era libero di decidere. Libero di
fare tutto quello che voleva. Forse aveva trovato un’occupazione che lo
attraeva. Forse aveva soltanto rimandato il viaggio. Girolamo decise di
tornare indietro. A Salonicco, prima di tutto, e poi a ritroso fino a
Costantinopoli. Se non avesse ritrovato le sue tracce, da Salonicco sarebbe
ridisceso fino ad Igoumenitsa, o magari fino ad
Atene. Nel frattempo i suoi denari stavano cominciando a scarseggiare.
Avrebbe trovato qualche piccolo lavoro per guadagnarsi la giornata o, meglio,
avrebbe ripreso a commerciare. All’improvviso un rumore che aveva già sentito
da qualche parte, lo bloccò. Il
plico che Contarini gli aveva affidato, da consegnare
a Salonicco, era diretto ad una stamperia. Non ve n’erano a Costantinopoli,
poiché era vietato dall’islam riprodurre gli scritti, se non a mano. Ma Pera
non era Costantinopoli. Mosheh ed Eliezel Soncino lo avevano
ospitato a Salonicco nella loro casa. Gli avevano mostrato il loro lavoro di
stampatori. Gli avevano parlato del loro sogno di aprire una nuova tipografia
a Costantinopoli. Girolamo immaginò di potervi trasportare una macchina da
stampa come quella che aveva visto a Salonicco, e come quella che ora aveva
davanti agli occhi e che intravedeva da un portoncino aperto sulla strada. Entrò. Yoel era molto
soddisfatto di Osman. La commessa per cui si era
tanto preoccupato, era stata portata a termine, anche grazie al suo
contributo. Osman vi si era impegnato senza
risparmio, senza un attimo di respiro. Adesso si trattava di imbarcare la
merce per farla giungere a Costantinopoli. L’estate stava finendo e Yoel era convinto che Osman
volesse proseguire il suo viaggio, come gli aveva annunciato mesi prima. -
Posso andare io a Costantinopoli. – lo stupì invece. -
Non volevi andare a Ragusa? – -
Ormai non è più necessario. – gli rispose Osman,
con quell’espressione triste e rassegnata che assumeva a volte. -
Se è così, allora va bene. Non te l’avrei mai chiesto, ma d’altra parte non
mi va di allontanarmi, anche se ho bisogno di far seguire la merce da
qualcuno di cui mi fidi. Tu sei la persona giusta. – -
Ci andrò volentieri. – Tornare
a casa per qualche giorno gli avrebbe fatto davvero piacere. Rivedere i
luoghi dove era stato con Girolamo, durante quei brevi splendidi giorni, come
in un pellegrinaggio. Dire addio a quella città da cui era fuggito senza
salutare e senza immaginare che gli sarebbe mancata, che avrebbe continuato a
portarsela dentro. Sarebbe andato a trovare il bailo,
per chiedergli notizie di Girolamo, pur sapendo quanto fosse inutile. Quel giorno due navi imboccarono
contemporaneamente il Corno d’oro, l’una diretta a Galata,
l’altra di fronte, ai moli di Costantinopoli. Ciò
che venne scaricato sul molo di Galata, sotto
l’attenta supervisione di Eliezel Soncino, di Girolamo Polidoro e
del bailo Paolo Contarini,
che mai gli era apparso tanto eccitato, fu caricato su un carretto e trainato
a Pera ben avvolto in un telone pesante, che lo nascondeva completamente ad
occhi indiscreti. Qualcuno se ne interessò, ma nessuno fu tanto curioso da
seguirne il percorso. I
nuovi tarbush dei giannizzeri adornarono le loro
teste già dal giorno seguente. Nessuno di loro immaginava che a crearli fosse
stato quello stesso uomo che guardava scaricare le grosse ceste dal ponte
della nave. Osman assaporava la città con un gusto ritrovato, con
uno sguardo nuovo, con una bizzarra sensazione di attesa. Incongrui versi gli
scaturivano dal cuore, come un tardivo omaggio al derviscio errante, che non
aveva più incontrato. Lenta
è l’attesa, come una barca controcorrente. Lenti i pensieri, come un gabbiano
sull’onda del vento. Lento a spegnersi l’amore, nell’ostinato avvampare del
cuore. Girolamo attraversò il Corno d’oro su una
barca a quattro remi. Il mare era liscio come una tavola. Sbarcò quasi con
timore. Ritrovarsi di nuovo su quella costa, a pochi passi dalla vecchia
dimora di Andrea, poteva soltanto rinnovare il suo dolore. Ma una forza più
potente di lui lo spingeva in quella direzione. Era come un richiamo
inesorabile, una voce che gli sussurrava all’orecchio un canto di sirena. La
porta era aperta. Chissà chi ci abitava ora? Girolamo
pensò che fosse meglio allontanarsi, evitando di essere indiscreto, eppure
non riuscì a muoversi. I suoi piedi erano come inchiodati al suolo. Un
usignolo si posò davanti all’uscio, cinguettando con passione. Anche il suo
sembrava un richiamo. Girolamo si domandò se non fosse uno di quelli a cui
aveva restituito la libertà. Poi, dall’ombra della casa uscì qualcuno.
Qualcuno che aveva lo stesso sorriso di Andrea, lo stesso sguardo azzurro, le
stesse braccia che si tendevano verso di lui, quelle del sogno, che non era
riuscito ad afferrare. -
Girolamo, hai bisogno di una guida anche per percorrere questi pochi metri? –
lo apostrofò la sua voce. -
Andrea, ma sei proprio tu? – Girolamo
non riusciva a credere ai propri occhi. Restò paralizzato dallo stupore e il
suo cuore esplose di una tale gioia che gli mancò il respiro. -
Dunque è vero. Mi hai già dimenticato. – commentò tristemente Osman, abbassando di colpo le braccia, come se gli
fossero cadute. Girolamo,
come liberato da un incantesimo, corse da lui, lo spinse dentro la stanza e
chiuse la porta, abbracciandolo tanto stretto da togliergli il fiato. Gli si
affollò nella mente una valanga di parole, da cui a stento riuscì a far
affiorare le prime a casaccio. -
Sono andato a Ragusa, ma tu non c’eri. Non sapevo dove cercarti, ma ero
deciso a rincorrerti fino in capo al mondo. – Con
la più incredibile calma che Osman fosse mai
riuscito ad imporsi, gli rispose: -
Ero a Salonicco. Ti ho visto salutare Thomas, al molo. Ho visto le sue
lacrime, mentre tu te ne andavi. – -
Ma come? Mi hai visto e non sei venuto da me? Perché? – chiese Girolamo,
amareggiato. -
Non so. Mi ha bloccato il suo dolore. Poi Thomas mi ha detto che dovevi
raggiungerlo in Inghilterra. -
Non ne ho mai avuta alcuna intenzione. Non so perchè
Thomas ti abbia detto una cosa del genere, ma il mio unico pensiero era
soltanto quello di ritrovarti. Ed ora che ti ho ritrovato, non voglio
lasciarti mai più. – -
Ma io non ti amo, Girolamo. – mentì Osman, per
metterlo alla prova. -
Lo so. Non m’importa. Il mio amore può bastare per tutti e due.– rispose lui
coraggiosamente, con la sua espressione più decisa. Osman restò senza fiato. Lo fissò seriamente, per
qualche istante, soppesando emozionato le incredibili parole di Girolamo. Poi
gli prese il volto tra le mani, sospirando. -
Non sarà necessario. Ti amo anch’io. Ti ho amato sempre, ma non ero capace di
riconoscerlo. Mi ha perseguitato il rimpianto di non avertelo detto quando
eri ancora qui. Mi sei mancato immensamente. Immensamente…
A Salonicco ti ho cercato disperatamente, ma non sono riuscito a trovarti.
Non ho fatto che pregare che tu ritornassi da me. – gli confessò, baciandolo
con una passione che assomigliava a una rivincita. Girolamo
si sentì stordito dalla felicità, enormemente grato che le loro preghiere
fossero state esaudite e pensò che in fondo Andrea si sbagliava. Anche in
terra ottomana accadevano miracoli. Fuori
il sole calò, colorando d’arancio la luce che colava dalle alte finestrelle.
Nella stanza nuda solo una stuoia copriva il pavimento di legno malridotto.
In una casupola come quella, a Salonicco, una notte in cui aspettava Vidin il derviscio, Osman aveva
sognato Girolamo, ritrovando intatto l’incredibile dono del suo amore, puro e
scevro da ogni dubbio, coraggioso ed incondizionato, l’unico che avrebbe mai
contato per lui. Ed
il destino, che si era divertito abbastanza, finalmente andò a cercarsi altre
vittime con cui giocare. |