Il Fenicio

 

 

- Hanno litigato, non so bene per quale motivo, credo per il giovane Livio, gli stanno dietro tutti e due. Mentre Resus si allontanava, il Fenicio gli è saltato addosso. Lo ha colpito a tradimento, mandandolo a terra, e poi lo ha ancora menato, mentre Resus non era in grado di difendersi.

Le cose non stanno così: Caio lo sa benissimo. Resus il Trace ha cercato di prendere Livio con la forza e il ragazzo ha gridato, chiedendo aiuto. Il Fenicio è intervenuto. Resus lo ha affrontato e ha avuto la peggio, nonostante la sua forza. Ma Resus è lo stallone di Caio, mentre il Fenicio ha finto di non cogliere l’interesse che il giovane dimostrava nei suoi confronti. Perciò Caio vuole che suo padre punisca il Fenicio, non Resus.

Publio Larcio scuote la testa.

- Il Fenicio è una testa calda. I Cartaginesi avrebbero dovuto ammazzarli tutti, non venderli come schiavi. Ho fatto un errore a comprarlo.

Publio riflette un momento, poi aggiunge:

- Lo faremo castrare: questo lo renderà più docile.

Caio non si aspettava la decisione di suo padre. Non gli spiace che al Fenicio taglino i coglioni: assiste molto volentieri all’operazione. Immagina il momento in cui dirà allo schiavo che verrà castrato, la rabbia e la disperazione dell’uomo. E poi la mano che afferra, il coltello che recide, il sangue che sgorga abbondante, l’urlo dello schiavo che non è più un maschio. Al solo pensiero a Caio già viene duro.

Questo però significa che dovrà rinunciare a ogni speranza di gustare il cazzo del Fenicio. È un peccato, perché è un gran maschio e a Caio piacerebbe farsi fottere da lui. Ormai è andata così e non c’è più niente da fare: Caio sa che quando suo padre si mette in testa un’idea, nulla può convincerlo a rinunciarci. Il Fenicio come maschio è fottuto. Però Caio conta di divertirsi un po’ con lo schiavo in altro modo, per cui annuisce, come se approvasse la decisione del padre, e dice:

- Io direi che comunque ci vuole una bella flagellazione.

Publio guarda il figlio. Sa benissimo che a Caio piace frustare gli schiavi. A Caio piacciono tutte le punizioni che provocano sofferenze fisiche, in particolare se a subirle sono uomini molto virili. A Publio non importa che il Fenicio venga fustigato: uno schiavo è un animale, ciò che conta è che possa svolgere il suo lavoro.

- Va bene. Ma non più di dieci frustate. Domani dev’essere in grado di affrontare l’operazione.

- Certo.

Caio è contento che suo padre abbia autorizzato la fustigazione.

 

Hanniba’al il Fenicio è seduto nella piccola cella in cui è stato rinchiuso. Sa benissimo che sarà lui a essere punito, anche se è intervenuto solo per salvare Livio dalla violenza: il giovane Caio ama farsi fottere da Resus e di sicuro non ha raccontato a suo padre la verità sull’accaduto. La parola di uno schiavo cartaginese non vale nulla di fronte a quella del figlio del padrone, per cui è inutile che Hanniba’al esponga la sua versione dei fatti. Il padrone non gliela chiederà e in ogni caso non l’ascolterebbe.

A Hanniba’al poco importa di essere punito: non ha paura del dolore fisico e il suo corpo porta le cicatrici delle ferite ricevute in guerra. Hanniba’al è un guerriero e gli è stato dato il nome del grande generale che inflisse una serie di sconfitte a Roma e fu sul punto di conquistarla. Ma questo successe molto tempo fa, quando suo padre era un bambino. Nella guerra che si è conclusa due anni fa, Cartagine è stata distrutta, nonostante la disperata resistenza dei suoi abitanti, e Hanniba’al è stato catturato e reso schiavo. Ora lavora nella proprietà di un ricco romano, ai confini settentrionali del dominio di Roma.

 

Caio entra nella cella, accompagnato da due schiavi.

- Alzati.

Hanniba’al obbedisce: a che servirebbe cercare di resistere?

Lo portano al palo nel cortile, dove avvengono le fustigazioni. Hanniba’al lascia che gli leghino le mani e fissino la corda in alto: così, anche quando non riuscirà più a reggersi in piedi, non cadrà a terra e Caio potrà continuare a frustarlo.

Hanniba’al conosce la ferocia del figlio del padrone, a cui piace infliggere dolore. Talvolta servitori e schiavi sono costretti ad assistere e in più di un’occasione Hanniba’al ha notato che fustigare eccita Caio. Hanniba’al disprezza Caio e quando il giovane gli ha fatto capire che era attratto da lui, lo ha ignorato, pur sapendo che per questo avrebbe pagato.

La prima frustata si abbatte sulla schiena di Hanniba’al, che sussulta appena. Sa che dovrebbe gemere e supplicare pietà: Caio non rinuncerebbe certo a frustarlo, ma se Hanniba’al si umiliasse, la punizione sarebbe meno feroce. Invece l’indifferenza dello schiavo eccita la furia del giovane padrone.

A Hanniba’al non importa. Quella che conduce da due anni non è vita. Che lo frusti fino a ucciderlo, se vuole. I colpi si susseguono. Hanniba’al pare insensibile e Caio è furente. La frusta si abbatte sulla schiena e sul culo dello schiavo, la pelle si lacera, il sangue scorre. Hanniba’al non è più in grado di reggersi e scivola, ma la corda che gli lega i polsi lo sostiene. Hanniba’al rimane in silenzio e Caio continua a frustare.

- Ti piegherò, bastardo, ti piegherò.

A un certo punto Hanniba’al vede il mondo svanire. Reclina la testa di lato e rimane immobile. Caio lo colpisce ancora tre volte, ma non c’è nessuna reazione. Caio ansima. Smette di frustare il Fenicio. Lentamente il suo respiro ritorna normale. Guarda la schiena e il culo di Hanniba’al, coperti di sangue. Quante frustate gli ha dato? Trenta? Quaranta? Suo padre sarà furente. Ma ormai è fatta.

Caio esce e chiama Aristides, uno schiavo greco. Gli ordina di liberare Hanniba’al e di prendersi cura di lui. Aristides scioglie la corda e depone il corpo a terra. Poi prepara acqua e sale per evitare che le ferite si infettino. Quando passa il liquido sulle ferite, Hanniba’al geme, più volte. Aristides si chiede se il Fenicio sopravvivrà: le ferite sono molte e le condizioni appaiono preoccupanti. Aristides cercherà di fare del suo meglio. Solo a sera riesce a far bere Hanniba’al, ma è impossibile fargli mangiare qualche cosa.

 

Il giorno dopo il castratore si presenta all’ora prevista. Publio Larcio lo accompagna nel locale che serve come cella per gli schiavi, dove è stato rinchiuso il Fenicio. Quando entra, Publio Larcio vede Hanniba’al, disteso a terra, incosciente, la schiena coperta di ferite. Publio Larcio ha uno scatto e guarda il figlio, furente.

- Avevo detto dieci frustate, Caio!

Caio abbassa lo sguardo.

- Mi ha provocato. Mi ha insultato.

Il castratore scuote la testa. Si china sul Fenicio, gli tocca la fronte. Poi si rialza e scrolla di nuovo il capo. È chiaro che è impossibile procedere all’operazione e non è il caso di perdere altro tempo. È venuto per niente e non sarà pagato.

- In queste condizioni, se lo castro lo uccido.

Publio Larcio annuisce.

- Ti manderò a chiamare quando sarà guarito.

Il castratore ghigna.

- Ci vorranno settimane, sempre che sopravviva. Ridotto com’è…

Alza le spalle e se ne va, irritato per aver perso tempo per niente.

 

Aristides si prende cura di Hanniba’al, che solo nel pomeriggio riprende coscienza e riesce a bere, ma non a mangiare. In serata Caio e Resus entrano nella cella.

Resus guarda Hanniba’al e ride.

Caio dice:

- Dai, Resus, fallo.

Resus si china e afferra i piedi del Fenicio, poi li sposta verso l’esterno, divaricando le gambe. Si inginocchia nello spazio che ha creato e poggia le mani sul culo di Hanniba’al, premendo sulle ferite. Il Fenicio sussulta. Resus ride di nuovo, una risata che cresce fino a diventare fragorosa.

- Adesso, stronzo, te lo prendi in culo.

Hanniba’al capisce, ma non ha la forza per opporsi. Resus gli divarica le natiche e si stende su di lui. Hanniba’al sente il cazzo di Resus, grosso e duro, premere contro il suo buco del culo. Si tende.

Hanniba’al è stato un guerriero e ha partecipato, come i suoi compagni, ai giochi virili dei soldati, dove la lotta era un preludio al piacere e il vincitore fotteva il vinto. Spesso ha goduto di altri maschi e talvolta altri hanno goduto di lui. Ma era il pegno da pagare per la sconfitta in una lotta liberamente affrontata. Hanniba’al si sottometteva senza remore al maschio che lo aveva vinto lealmente e talvolta ne godeva. Ha subito violenza dopo la sconfitta, ad opera dei soldati romani vincitori, ma almeno quelli erano guerrieri, come lui. Ora invece verrà stuprato da un vile che è stato battuto e che lo prende solo perché lui non è in grado di difendersi. 

Resus spinge con un movimento brusco, forzando l’apertura. Il suo cazzo entra dentro il culo di Hanniba’al e Resus prova un piacere intenso: questo figlio di puttana lo ha battuto e gli ha impedito di gustare il culo di Livio, ma ora se lo becca in culo lui. Resus preferisce i maschi molto giovani, come Livio o Caio, ma fottere il Fenicio gli procura una grossa soddisfazione.

Resus spinge con forza: vuole fare male, il più possibile. Hanniba’al non reagisce.

A un certo punto Caio dice:

- Ora basta.

Resus annuisce e si ritira. È soddisfatto di aver umiliato il Fenicio. Sarebbe venuto volentieri in culo a questo figlio di puttana, in segno di spregio, ma Caio vuole farsi fottere ora: non ha nessuna voglia di aspettare che a Resus venga di nuovo duro, dopo che ha svuotato i coglioni in culo al Fenicio. Il Trace guarda Hanniba’al e ride. Poi gli sputa in testa e si volta verso Caio.

Caio guarda il grosso cazzo di Resus, duro e teso in avanti. Ha la gola secca. Si mette a quattro zampe di fianco al Fenicio. Resus si avvicina, sputa sul buco del culo e sparge la saliva. Ripete l’operazione, poi spinge il cazzo in avanti, finché preme contro l’apertura. Scivola dentro, mentre Caio emette un gemito di piacere. Caio volta il capo di lato e guarda la schiena martoriata del Fenicio. Sorride, mentre il piacere cresce.

Resus incomincia a muovere il culo avanti e indietro, con spinte vigorose. Caio lo incoraggia:

- Dai, dai! Forza!

Resus fotte con energia e infine viene, spargendo il suo seme in culo a Caio, poi gli afferra il cazzo e muove la mano, finché anche Caio raggiunge il piacere. Il giovane si lascia scivolare a terra. Gli piace sentire il peso di Resus su di sé.

Dopo un po’ Resus esce. È soddisfatto della scopata e soprattutto di aver umiliato il Fenicio. Si avvicina a Hanniba’al e incomincia a pisciargli sulla testa. Poi Caio gli pulisce il cazzo con la lingua: gli piace sentire gli odori e i sapori forti che ha la cappella del Trace dopo essere entrata nel culo di due maschi. Lo schiavo sorride: il ragazzo è un vero maiale. In cuor suo Resus lo disprezza, ma avere il figlio del padrone dalla propria parte è un vantaggio: se non fosse il toro da monta di Caio, Resus si sarebbe preso le frustate che sono toccate al Fenicio. E la sua posizione gli assicura un notevole potere tra il personale della casa, compresi i servitori liberi.

Quando Caio ha ripulito per bene il cazzo di Resus, si alza ed entrambi lasciano la cella. Hanniba’al sprofonda in un sonno popolato di demoni.

 

Per una settimana è Aristides a occuparsi di Hanniba’al, portandogli da mangiare e dandogli da bere. Hanniba’al riesce a nutrirsi ma sembra non essere in grado di muoversi autonomamente. Aristides lo aiuta a camminare, ma dopo pochi passi Hanniba’al deve stendersi, esausto. Anche se le ferite lentamente si rimarginano, Hanniba’al appare ancora debolissimo.

Ogni sera Caio e Resus entrano nella cella. Resus fotte Caio, poi piscia sulla testa di Hanniba’al. A Caio piace guardare il Trace che umilia il Fenicio. A volte, mentre Resus lo fotte, immagina che il trace spacchi i coglioni a Hanniba’al e poi lo strangoli mentre lo incula. Gli piacerebbe che il Trace lo facesse davvero, ma è impossibile: suo padre farebbe castrare e ammazzare Resus e se venisse a sapere che l’idea è stata di Caio, punirebbe duramente anche lui.

Lo stato di prostrazione di Hanniba’al preoccupa Caio. Spera che si riprenda, perché suo padre è furente e più volte lo ha rimproverato: il Fenicio era uno schiavo forte e valeva parecchio. Se non recupererà le forze, occorrerà sopprimerlo.

Anche questa sera Caio e Resus hanno scopato nella cella di Hanniba’al. Quando escono, la luna splende alta in cielo, velata appena da alcune nubi leggere. Resus torna al dormitorio degli schiavi, Caio alla casa padronale. Le ore passano. La luna è tramontata da poco, quando un’ombra scivola fuori dalla cella dove Hanniba’al trascorre le sue giornate.

 

La sera seguente, Caio e Resus entrano nella cella, come hanno fatto tutti i giorni da quando Hanniba’al è stato fustigato. Caio si stende a terra. Resus gli stringe il culo con le mani vigorose, sparge la saliva intorno all’apertura, avvicina il cazzo al buco e con cautela infilza Caio. Sorride sentendo il gemito di piacere del giovane, poi si stende su di lui e incomincia a cavalcare.

Resus vede appena la corda che gli passa davanti agli occhi e che ora gli stringe il collo. Con le mani cerca di allentarla, ma è troppo tardi, non riesce a infilare le dita tra la corda e la pelle; la pressione sul collo aumenta velocemente, mentre il peso di un corpo lo blocca. Resus si rende conto di non poter più sfuggire alla morte. Emette un suono strozzato, ma la corda che gli mozza il respiro gli impedisce di parlare, di chiedere aiuto, di avvisare Caio.

Caio non si è accorto di nulla. Dentro di sé ha ancora il cazzo di Resus e non sa che ormai è il cazzo di un morto. L’ultimo verso di Resus gli è sembrato un gemito di piacere.

Solo quando è assolutamente sicuro che Resus sia morto, Hanniba’al scioglie la corda. Con un movimento rapido la passa intorno al collo di Caio e gli dice:

 - Resus è morto e adesso anche tu morirai.

Un’ondata di terrore puro travolge Caio. Come Resus cerca di liberarsi, ma è impossibile: le sue mani non riescono ad allentare la stretta, che a ogni secondo diventa più forte. Rapidamente il mondo svanisce nel fuoco che arde nei suoi polmoni.

 

Hanniba’al si alza e guarda i due cadaveri, uno sopra l’altro. Sa che non può fermarsi. Deve procurarsi un’arma e del cibo e cercare di allontanarsi. In questi giorni ha ripreso le forze, anche se ha finto di essere sempre debilitato.

Avrebbe potuto cercare il cibo e il coltello prima, ma la scomparsa del coltello sarebbe stata scoperta: probabilmente non avrebbero sospettato di lui, ma qualcuno sarebbe stato punito. Della corda invece nessuno si è accorto: in una grande proprietà agricola si usano continuamente corde e non c’è un controllo rigido.

Dopo essersi procurato ciò di cui ha bisogno, Hanniba’al attende che sia notte fonda. Lascia la cella e si dirige verso i boschi che si trovano a Nord. Sa di non avere quasi nessuna possibilità di sopravvivere: si metteranno alla sua ricerca con tutti i mezzi e con ogni probabilità lo troveranno. Se lo catturano lo aspettano le peggiori torture che Publio Larcio saprà inventare e poi la crocifissione, ma prima di essere preso Hanniba’al conta di darsi la morte. Se invece riuscirà a far perdere le sue tracce, si troverà in una foresta che non conosce, tra le tribù dei Galli, ostili a Roma e di certo poco inclini ad accogliere uno schiavo cartaginese.

Hanniba’al cammina, cercando di far perdere le sue tracce. Quando incontra un corso d’acqua, ne percorre un lungo tratto prima di uscire, in modo da rendere più difficile il compito dei cani che verranno sguinzagliati alla sua ricerca.

Il giorno spunta. Hanniba’al è stanco e vorrebbe fermarsi, ma non può farlo, non deve farlo. Continua a camminare in direzione Nord, nascondendosi se scorge qualcuno in lontananza. In mattinata vede alcuni contadini, poi entra nella grande foresta e non incontra più nessuno.

Quando arriva sera, è ormai lontano dalla fattoria. La stanchezza rende sempre più difficile proseguire. Hanniba’al cammina ancora, finché il buio diventa completo. Allora si stende a terra e si addormenta.

 

È una voce e svegliarlo. Non saprebbe dire quanto ha dormito, ma è giorno. Il sole è ancora basso all’orizzonte.

Sono in otto, le lance puntate contro di lui.

Uno di loro gli parla, ma Hanniba’al non capisce nulla di ciò che l’uomo dice. Scuote la testa e dice:

- Non capisco.

Allora un altro guerriero si rivolge a lui in latino. Non lo parla con sicurezza, ma riesce a farsi capire:

- Chi sei? Perché qui, nostro territorio?

- Mi chiamo Hanniba’al. Sono cartaginese. Ero schiavo di un romano e sono fuggito.

L’uomo dice qualche cosa agli altri, probabilmente traduce quello che ha capito. Discutono un momento. Poi l’uomo che gli ha parlato in latino, gli dice:

- Vieni.

- Va bene.

Hanniba’al sa di non avere nessuna scelta. Ormai la sua vita è nelle mani di questi uomini: che decidano di ucciderlo, di accoglierlo o di scacciarlo, non può certo opporsi.

Camminano oltre un’ora attraverso il bosco e infine arrivano a una zona di campi coltivati. Un po’ più lontano si vede un terrapieno, che probabilmente serve a difendere il villaggio. Alcuni uomini che lavorano nei campi guardano un momento lo straniero, poi riprendono la loro attività.

Nel villaggio si entra attraverso una porta, sul lato più lungo del terrapieno. L’area difesa è piuttosto grande e le abitazioni non l’occupano per intero: ci sono spazi liberi, che talvolta sembrano essere orti.

Hanniba’al nota che davanti ad alcune case ci sono dei pali piantati nel terreno, su cui sono stati messi dei teschi. Hanniba’al sa, dai discorsi sentiti nella fattoria di Publio Larcio, che i Galli decapitano il nemico ucciso e ne espongono la testa di fronte alla propria abitazione. Avere parecchie teste è segno di valore. Hanniba’al si chiede se anche la sua testa è destinata a finire su un palo. Meglio così che catturato dai Romani.

 

Hanniba’al viene condotto a un edificio più grande degli altri, che potrebbe essere la residenza del re o una sala di riunioni. Lo accoglie un uomo sui quarant’anni, vigoroso, con lunghi capelli neri. Uno dei guerrieri che hanno trovato Hanniba’al parla: sicuramente racconta ciò che è successo. A un certo punto interviene anche l’uomo che sa parlare latino.

Hanniba’al non può capire nulla di ciò che viene detto. Sente che il suo nome viene ripetuto più volte, un po’ deformato. Poiché nessuno si rivolge lui, rimane muto a guardare gli uomini che discutono.

Dopo un momento un uomo si mette di fianco a lui. Hanniba’al ne avverte il forte odore di sudore e volta la testa. L’uomo deve avere più o meno la sua età e indossa soltanto un tessuto attorno ai fianchi. Dev’essere un artigiano che ha appena interrotto il lavoro, perché sul petto scorrono piccoli rivoli e sulla fronte l’uomo ha una striscia completamente inzuppata, che evidentemente serve per impedire che il sudore gli coli negli occhi. Le dita delle mani sono nere.

L’uomo non è alto ed è massiccio, con braccia e gambe forti e il ventre prominente. I capelli, la barba e la fitta peluria che copre il corpo sono di un biondo rossiccio. Il viso è sfregiato da due cicatrici: una sulla guancia destra, dall’orecchio alla bocca, l’altra sulla sinistra, dall’occhio al mento. Il lobo dell’orecchio destro è stato reciso. Il volto deturpato, il forte odore, la sporcizia, tutto contribuisce a rendere quest’uomo repellente e Hanniba’al prova l’impulso di scostarsi, ma lo domina.

L’uomo scambia due parole con gli altri, poi si rivolge a lui, dicendogli:

- Oggi sarai ospitato qui. Avrai da bere e da mangiare, ma non potrai allontanarti dal villaggio. Questa sera gli uomini del villaggio si raduneranno e prenderanno una decisione, dopo averti sentito.

L’uomo parla un latino perfetto. Hanniba’al non se l’aspettava: gli sembra strano che quest’uomo dall’aspetto bestiale sappia esprimersi senza incertezze in una lingua che di certo non è la sua. Dopo un attimo di pausa l’uomo aggiunge:

- Io sono Lochlann.

- Io mi chiamo Hanniba’al.

Hanniba’al viene condotto in una stanza dell’edificio, dove c’è un giaciglio. Gli portano cibo e bevande. Hanniba’al è contento di potersi dissetare e nutrire. Dopo aver mangiato, si stende e riposa: ha bisogno di dormire e riprendere le forze. Quando si sveglia è ormai pomeriggio. Hanniba’al si sente bene. Non sa che cosa decideranno di fare di lui, ma almeno è sfuggito ai Romani. Spera che non decidano di riconsegnarlo, ma gli sembra difficile: i rapporti tra Galli e Romani non sono buoni.

Verso sera Hanniba’al viene portato in uno slargo tra le case, dove si è radunata la popolazione del villaggio. Sono tutti in piedi intorno a uno spazio vuoto e lo guardano: non sembrano ostili, ma neppure amichevoli. Si direbbero piuttosto curiosi.

Hanniba’al viene fatto entrare nello spazio. Vede allora davanti a sé alcuni sgabelli, su cui sono seduti diversi uomini, tutti avanti negli anni. Probabilmente sono i capifamiglia o i consiglieri del re. Tra loro vi è l’uomo davanti a cui l’hanno portato in mattinata.

C’è un unico sgabello libero, quello centrale, dove viene a sedersi un uomo che porta al collo un monile d’oro: dev’essere il re. Deve avere più di cinquant’anni e i capelli, che porta lunghi, sono quasi tutti bianchi, ma appare molto forte.

Lochlann arriva e si mette di fianco a Hanniba’al: zoppica vistosamente, trascinando una gamba. È vestito come gli altri, è pulito e non c’è traccia dell’odore di sudore che aveva colpito Hanniba’al: prima di partecipare all’assemblea si dev’essere lavato.

Lochlann si rivolge a lui e gli dice:

- Tradurrò le tue parole per gli altri e quelle degli altri per te.

Il re parla. Lochlann si rivolge a Hanniba’al e traduce. Hanniba’al nota di nuovo che parla molto bene il latino, senza incertezze e con grande precisione.

- Il re vuole sapere chi sei, da dove vieni e perché eri schiavo.

Hanniba’al risponde brevemente.

- Il mio nome è Hanniba’al. Sono di Cartagine, una grande città che i Romani hanno distrutto due anni fa. Ero un guerriero e sono stato catturato e poi venduto come schiavo.

Quando Lochlann ha riferito la risposta di Hanniba’al, il re chiede altro.

- Il re vuole sapere perché sei fuggito.

Hanniba’al si chiede se raccontare la verità. Sicuramente le autorità romane della provincia hanno avvisato le tribù oltre i confini che cercano un assassino. In questo caso, i galli devono aver capito che si tratta di lui. I romani hanno senz’altro minacciato rappresaglie contro chiunque accolga lo schiavo in fuga.

Hanniba’al decide di dire la verità.

- Qualche giorno fa ho difeso un giovane schiavo che un altro schiavo, un trace, voleva violentare. Ho battuto il trace. Il figlio del padrone, a cui il trace piaceva, mi ha accusato di essere il responsabile della rissa. Sono stato fustigato.

Con un gesto brusco, Hanniba’al abbassa la tunica che porta e si gira, in modo da mostrare al re la schiena.

Poi Hanniba’al si gira nuovamente, si risistema la tunica e continua:

- Il figlio del padrone si faceva montare dal trace nella cella dove ero prigioniero, per umiliarmi. Io li ho uccisi entrambi e sono fuggito.

Lochlann traduce e il re annuisce. Come Hanniba’al ha pensato, doveva già sospettare che Hanniba’al fosse lo schiavo ricercato dai soldati romani.

Il re si rivolge ai consiglieri. C’è una breve discussione, di cui Hanniba’al non può capire nulla, ma gli uomini sembrano trovare un accordo.

Il re si alza e dice qualche cosa rivolto al popolo.

C’è qualche mormorio, poi un giovane si avanza e parla, con un tono di sfida.

Il re fa un cenno a Lochlann, che spiega.

- Il Consiglio degli anziani ha proposto di accoglierti, ma Heddwyn, il guerriero che tu vedi, si oppone: dice che un soldato non si fa catturare e muore difendendo la sua terra. Dice che se i Romani ti hanno catturato, sei un vile e perciò non sei degno di rimanere tra noi.

Hanniba’al ha uno scatto di rabbia.

- Ho combattuto fino all’ultimo. Mi catturarono perché erano molti di più e riuscirono a farmi cadere la spada, poi si gettarono su di me.

Lochlann riferisce al re le parole di Hanniba’al, poi c’è un breve dialogo. Infine Lochlann parla di nuovo a Hanniba’al.

- Straniero, ci sono due possibilità per te. Noi non ti consegneremo ai Romani, che sono nostri nemici, ma per rimanere con noi dovrai batterti con Heddwyn e dimostrare che sei un guerriero valoroso. Se egli ti vincerà, ti ucciderà. Se lo vincerai, potrai fermarti tra noi. Se invece non vuoi accettare la sfida, potrai rimanere qui questa notte, ma te ne dovrai andare domani mattina.

Hanniba’al non ha nessun motivo per rimanere al villaggio, ma non vuole passare per vile. Lui e i suoi compagni non lo erano.

- Mi batterò.

Lochlann riferisce la decisione di Hanniba’al. Il guerriero sorride e si spoglia, rimanendo nudo. Ha un corpo vigoroso, ma snello, e un bel viso, dai tratti regolari, incorniciato dai capelli biondi: a Hanniba’al appare come un giovane dio guerriero, splendido nella sua virilità in fiore.

Anche Hanniba’al si spoglia. Un servitore porta due spade. Ne porge una a Heddwyn e una a Hanniba’al.

Hanniba’al non è nel pieno delle sue forze, perché non si è ancora rimesso completamente dalla fustigazione. Ma pensa ai suoi compagni, che hanno lottato fino all’ultimo, e sente una rabbia feroce crescere dentro di sé.

Hanniba’al era un guerriero valoroso. Aspetta che sia Heddwyn ad attaccare. Il giovane si getta contro di lui. Hanniba’al respinge l’attacco facilmente. Il suo avversario è forte e irruente, ma non è esperto. Hanniba’al contrattacca. I suoi movimenti rapidi e le sue finte mettono presto in difficoltà Heddwyn, che è costretto ad arretrare. Dalla folla si alzano grida di incoraggiamento e commenti. Hanniba’al non può capire nulla di quello che la gente dice, ma gli sembra che gli spettatori non gli siano ostili.

Heddwyn è chiaramente in difficoltà. Un attacco di Hanniba’al lo sbilancia e al cartaginese è facile vibrare un colpo violento, che fa cadere la spada di mano a Heddwyn. Prima che il giovane possa reagire, Hanniba’al lo colpisce con il braccio, mandandolo a terra.

C’è un boato tra la folla, che chiaramente apprezza il modo in cui Hanniba’al ha sconfitto l’avversario.

Il guerriero si mette a sedere. Guarda Hanniba’al, poi si solleva e si inginocchia davanti a lui, ma rivolto di lato. Hanniba’al non capisce perché ha assunto questa posizione. Il re parla, rivolgendosi a Hanniba’al, e le sue parole vengono tradotte:

- Hai lottato lealmente e hai sconfitto il tuo avversario: puoi tagliargli la testa e esporla come trofeo davanti alla casa dove ti stabilirai.

Hanniba’al guarda stupito il capo, poi il guerriero ai suoi piedi, che aspetta il colpo, senza tradire nessuna paura.

Hanniba’al scuote la testa.

- No, non lo ucciderò. Perché dovrei togliergli la vita? 

Lochlann riferisce la decisione di Hanniba’al. Heddwyn volge la testa verso di lui, stupito. La folla mormora.

Uno dei consiglieri si rivolge al re. C’è un breve scambio di battute e poi Lochlann dice:

- Gareth vorrebbe accoglierti nella sua casa. Se accetti, diventerai suo figlio. Egli ha perso i suoi due figli in guerra.

Hanniba’al è confuso, non sa che cosa significa la proposta.

- Ringrazialo. Io non so che cosa vuol dire che diventerò suo figlio, ma accetto la sua ospitalità.

Quando l’interprete traduce la risposta, Gareth si alza e abbraccia Hanniba’al.

Heddwyn è rimasto in ginocchio.

Lochlann dice:

- Vuoi lasciare che Heddwyn si alzi? In questo caso rinunci al tuo diritto di ucciderlo.

- Non intendo ucciderlo, l’ho già detto. Per me è libero di alzarsi.

Lochlann traduce e Heddwyn si alza. Si allontana, ma torna poco dopo e offre a Hanniba’al una spada.

Lochlann spiega:

- Egli ti offre questa spada in dono, per scusarsi delle sue parole avventate. Puoi rifiutarla e questo significa che non lo perdoni, oppure puoi prenderla e allora accetti le sue scuse.

Hanniba’al prende la spada. Il giovane sorride, fa un cenno di commiato e si allontana.

Gareth invita Hanniba’al e Lochlann a seguirlo.

Gareth abita in una casa ampia: dev’essere uno degli uomini più ricchi del villaggio. Dopo che sono entrati, Gareth presenta la nuora, vedova del suo figlio maggiore, e i due nipoti, che sono entrambi bambini.

Poi si siedono e Gareth racconta, mentre Lochlann traduce e spiega. Gareth aveva due figli, ma sono entrambi morti nell’ultima guerra che la tribù ha combattuto, cinque anni fa. Nella casa sono rimasti solo i due nipoti. Gareth è ormai anziano e non sa quanto a lungo vivrà. Sarebbe contento che Hanniba’al prendesse il posto del figlio minore: potrebbe affiancarlo nella direzione della casa e, quando lui sarà morto, vegliare sui nipoti fino a che non saranno adulti. In casa serve un maschio adulto, in grado di proteggere i bambini.

Hanniba’al non nasconde il suo stupore: Gareth non lo conosce e intende adottarlo. Ma Gareth sorride e osserva:

- Sei un uomo sincero, perché hai raccontato il motivo della tua fuga. Sei valoroso, perché hai affrontato chi ti sfidava, e sei un forte guerriero: questo l’ho visto con i miei occhi. Sei generoso, perché hai perdonato Heddwyn. Mi basta.

Lochlann traduce e aggiunge:

- Sarai il figlio minore di Gareth. Non erediterai questa casa, che andrà al nipote più grande, ma avrai diritto di rimanervi fino alla tua morte. E riceverai una parte dei beni di Gareth.

Hanniba’al non ha motivo per rifiutare: la proposta di Gareth è molto di più di quanto potesse sperare.

- Digli che accetto e che sono orgoglioso di diventare suo figlio.

 

Hanniba’al ha bisogno di imparare la lingua dei Galli di questa regione. A insegnargli è Lochlann, che è fabbro e orafo e possiede un’officina. Trascorrendo del tempo accanto a lui, Hanniba’al si rende conto di quanto fosse sbagliata la sua prima impressione. Lochlann non è rozzo come gli era apparso. Con Hanniba’al è molto paziente ed è un ottimo maestro. È molto spesso al fianco di Hanniba’al, nei momenti in cui non è impegnato nel lavoro: oltre a insegnargli la lingua, risponde ai suoi dubbi e lo aiuta a conoscere meglio la realtà in cui si sta inserendo. Hanniba’al passa spesso a trovarlo nella fucina. Teme di disturbare, ma Lochlann appare sempre contento di vederlo e lo accoglie calorosamente. Hanniba’al è affascinato dal lavoro di Lochlann, dell’abilità con cui forgia armi e monili: le sue grandi mani si rivelano capaci di piccoli miracoli di grazia e bellezza. Nella fucina fa sempre molto caldo e Lochlann suda abbondantemente. Si scusa, dicendo:

- Sono grasso, mi muovo e qui fa caldo: sudo sempre come un maiale.

Hanniba’al ride. All’odore di sudore di Lochlann ormai si è abituato e non gli dà più fastidio. Anche al viso sfregiato si è abituato.

Intanto Hanniba’al affianca e poi progressivamente sostituisce Gareth nella gestione delle proprietà. Gareth possiede diversi terreni e Hanniba’al partecipa ai lavori dei campi, guidando i numerosi servitori. Per lui non è difficile svolgere questo compito, in quanto i prodotti sono in buona parte gli stessi coltivati nella fattoria di Publio Larcio, dove Hanniba’al ha appreso le tecniche agricole. Hanniba’al sorveglia anche coloro che si occupano dell’allevamento degli animali della fattoria: i preziosi cavalli, che i guerrieri montano, le pecore, le mucche e i maiali.

Hanniba’al partecipa anche alle battute di caccia al cinghiale e al cervo. La carne viene consumata, ma, come gli spiega Lochlann, la caccia è soprattutto un’occasione per dare prova di coraggio e abilità. Essa ha anche un profondo significato religioso per questi galli che adorano il dio Cernunnos, egli stesso preda e cacciatore secondo gli antichi miti.

Grazie a Lochlann, Hanniba’al si ambienta in fretta nella nuova realtà e incomincia a stabilire rapporti con gli altri. Hanniba’al si accorge che gli uomini non sono diffidenti: molti appaiono ben disposti nei suoi confronti. Per un certo tempo la lingua rimane un ostacolo, ma Lochlann è un ottimo maestro e Hanniba’al impara in fretta.

 

Tra Hanniba’al e Lochlann nasce un’amicizia. Hanniba’al è contento di avere qualcuno con cui può parlare liberamente di sé, qualcuno che gli è affezionato: negli anni di schiavitù non aveva nessun amico.

Lochlann però non parla mai del proprio passato. Un giorno Hanniba’al gli chiede.

- Come mai conosci così bene il latino, Lochlann?

Lochlann guarda lontano e non risponde subito. Hanniba’al è stupito del suo silenzio.

- Se vuoi ti racconterò la mia storia, Hanniba’al.

- Se non ti pesa.

- Mi pesa, ma desidero che tu la conosca.

C’è di nuovo un momento di silenzio, poi Lochlann incomincia a narrare.

- Avevo undici anni. Guardavo le pecore della mia famiglia, ma ci fu un’incursione di una tribù nemica: gli uomini razziarono il bestiame  e anch’io venni catturato. L’uomo che mi aveva preso decise di vendermi ai romani. Così divenni anch’io schiavo.

Lochlann china la testa. Poi riprende a narrare:

- Un ricco romano mi prese come schiavo di piacere. Sai che cosa significa, vero? Lo sai, Hanniba’al?

- Sì, lo so.

- Per quattro anni fui al suo servizio. Poi si stufò di me, perché ormai avevo quindici anni, incominciavo ad avere un po’ di barba e per lui ero troppo grande. Decise di vendermi: altri ricchi erano interessati a me, ero ancora molto giovane. Non ci crederai a vedermi così, ma ero un bel ragazzo e il mio padrone contava di ricavare una bella cifra. Io cercai di scappare ed egli mi fece azzoppare: non voleva che perdessi valore, per cui non mi sfregiò. Cambiai padrone, ma ciò che mi veniva chiesto non cambiava. A diciott’anni però ero ormai troppo grande, le gambe e le braccia si coprivano di peli, la barba cresceva rigogliosa: non avevo più un grande valore. Il mio padrone decise di vendermi e io cercai di nuovo di fuggire. Questa volta il padrone mi aprì le guance con il suo coltello e mi tagliò il lobo dell’orecchio. Poi, quando fui guarito, venni venduto a un fabbro. Passavo le giornate al lavoro, ma la notte non era raro che alcuni degli schiavi mi prendessero a forza, nonostante fossi sfregiato. Ma a loro non interessava la mia faccia, gli bastava il mio culo.

Lochlann ride, una risata in cui c’è molta amarezza. Hanniba’al è pentito di aver chiesto, ma ormai è tardi.

- Lochlann, scusami, non volevo ridestare questi ricordi. Era solo una curiosità. Parli molto bene latino, meglio di me. Credevo che fossi rimasto sempre nel villaggio e non riuscivo a spiegarmi come avessi potuto imparare la lingua dei romani.

- Quattordici anni sono rimasto tra i romani. Divenni molto abile nel mio lavoro e il fabbro decise di vendermi al proprietario di una grande officina, che gli offriva un prezzo molto alto. Così cambiai ancora padrone. Per lui preparavo oggetti di pregio. Egli era anche un mercante, che viaggiava molto e talvolta si spingeva ai confini dell’Impero. Capitava che lo accompagnassi in viaggio, quando voleva fare affari con altre grandi officine: gli servivo per valutare la qualità del lavoro che veniva svolto e gli strumenti usati. Durante uno di questi viaggi, non lontano da qui, fummo assaliti da briganti di una tribù. Essi uccisero il mio padrone e i servitori, ma decisero di lasciarmi in vita, quando scoprirono che ero anch’io un gallo.

Lochlann fa una pausa, poi riprende:

- Riuscii a raggiungere il mio villaggio, camminando per quindici giorni. Adesso faccio da interprete quando abbiamo contatti con i romani e grazie a ciò che ho imparato ho potuto allestire una fucina. Vengono anche da villaggi lontani per procurarsi gli oggetti che produco. Questo è tutto.

Hanniba’al non sa che parole dire. Nel suo silenzio Lochlann sembra leggere una condanna, perché chiede:

- Mi disprezzi, Hanniba’al?

Hanniba’al scuote la testa.

- No, certamente. Anch’io subii violenza, più volte, Lochlann. Quando i Romani conquistarono Cartagine, essi si vendicarono di noi che avevamo disperatamente resistito fino all’ultimo. Fummo stuprati dai soldati e il nostro ufficiale…

Hanniba’al si interrompe, poi riprende:

- Fu stuprato da parecchi soldati e poi gli infilarono una lancia in culo… Morì così, una morte orribile per un uomo la cui unica colpa era aver difeso la sua patria. Fui stuprato anche dallo schiavo trace che poi uccisi: mi prese mentre giacevo inerme, prostrato dalla fustigazione, incapace di difendermi. Perché dovrei disprezzarti? Eri uno schiavo, nelle loro mani.

Lochlann annuisce.

- Grazie, Hanniba’al. Da noi non è raro che un uomo si dia a un altro. D’altronde il nostro nume tutelare, Cernunnos, ha un compagno e non una compagna. Ma subire violenza è considerato indegno di un guerriero. E…

Lochlann si interrompe. Poi aggiunge:

- Ma io non sono un guerriero e non potrò esserlo. Tu lo diventerai.

- In che senso, lo diventerò?

- Per diventare un guerriero dovrai uccidere un nemico. Se combatterai e ucciderai un nemico, sul tuo petto verrà apposto il segno dei guerrieri. Nel tuo caso, la testa del lupo, poiché tuo padre Gareth appartiene al clan del Lupo.

- Combattete spesso?

- No, non più. Negli ultimi anni siamo vissuti in pace con le tribù vicine. Il nostro re, Ramsay, è molto saggio e sa che Roma attende solo un’occasione per intervenire ed estendere i suoi domini: una guerra tra tribù sarebbe il pretesto che serve ai Romani. La minaccia di Roma ci aiuta a mantenere la pace. Ma Ramsay non vivrà più a lungo e non so se il suo successore sarà altrettanto saggio.

- Perché dici che il re non vivrà più a lungo? Mi sembra un uomo vigoroso, in grado di vivere ancora molti anni.

Lochlann scuote la testa.

- Da noi il re viene ucciso quando incomincia a invecchiare, prima che dia segno di debolezza. I giorni di Ramsay sono contati.

Hanniba’al è perplesso. Non conosceva questi usi.

C’è un lungo momento di silenzio, poi Hanniba’al dice:

- Sono contento di averti incontrato, Lochlann. E grazie per tutto il tempo che mi dedichi.

- Lo faccio volentieri. Mi fa piacere stare con te, Hanniba’al.

- Anche a me fa piacere stare con te.

Ora che ne conosce il passato, Hanniba’al si sente più vicino a Lochlann.

 

È passato un anno da quando Hanniba’al ha raggiunto il villaggio dove vive. Ormai parla bene la lingua, conosce gli usi della tribù, caccia con gli altri uomini, che ne apprezzano il valore e l’abilità, si prende cura delle proprietà del padre adottivo e dei due nipoti. Non ha mai avuto a che fare con bambini e spesso non sa come muoversi con loro, ma i piccoli si sono affezionati a lui, anche se a volte appaiono un po’ intimiditi, e Hanniba’al è felice di insegnare loro ciò che sa. Essi vedono in lui il padre che il più giovane non ha mai conosciuto e di cui il più vecchio conserva appena un vago ricordo.

Hanniba’al non ha più bisogno che Lochlann gli spieghi che cosa deve fare e che cosa è meglio evitare. Ma Hanniba’al è curioso di conoscere meglio il mondo di cui ormai si sente parte e Lochlann gli racconta i miti della sua gente.

Una notte di primavera raggiungono lo spazio sacro ai limiti del villaggio, un’area riservata ai maschi adulti e delimitata da un cerchio di grandi pietre poste in verticale. Si siedono all’esterno del cerchio: entrarvi non è proibito, ma gli uomini lo fanno soltanto in occasione di feste e cerimonie. Il cielo è limpido e la luna non è ancora sorta; il buio della notte è acceso di migliaia di stelle. Sopra di loro la Via Lattea è perfettamente visibile.

Lochlann racconta:

- Il mito dice che Cernunnos liberò il suo compagno Doche dal mondo dei morti, come Doche aveva liberato lui. Ma quando risalirono alla luce, il desiderio li prese e Doche possedette il dio, che mai si era offerto a nessuno. Vennero insieme e il seme di Doche fecondò il dio, che generò due figli. Invece il seme di Cernunnos schizzò fino in cielo e formò la striscia che vediamo.

Hanniba’al è disorientato. Questo accoppiamento tra due divinità maschili gli appare strano. Non sa che cosa dire. Mormora:

- Strano mito. Un dio maschio che genera dal suo corpo due figli.

- Un dio che ama un uomo semidivino e lo innalza a lui, donandogli l’immortalità.

Hanniba’al scuote la testa.

- I Greci dicono che dalla testa di Zeus nacque la dea Atena, armata di tutto punto.

- I miti raccontano storie che ci appaiono incredibili. Come sono i miti dei Cartaginesi?

Hanniba’al china la testa, oppresso dall’angoscia.

- I cartaginesi non esistono più. I Romani li hanno cancellati dalla faccia della Terra.

Lochlann gli mette una mano sulla spalla. A Hanniba’al questo contatto fa piacere, perché sente l’affetto di Lochlann.

 

Qualche giorno dopo, Lochlann gli porge un pugnale.

- Ti prego di accettare questo dono, Hanniba’al, l’ho fatto per te.

Hanniba’al guarda il pugnale. La lama è affilatissima e il manico è un vero gioiello, con un’elegante decorazione geometrica che racchiude la testa di un lupo: Hanniba’al non ha mai visto un’arma come questa, tanto raffinata quanto temibile.

- È bellissimo, Lochlann. Non ho mai posseduto un’arma così bella. Troppo bella per usarla.

Lochlann sorride:

- Ti assicuro che è un’ottima lama. Non ne ho mai fusa una migliore.

- Non ne dubito, Lochlann.

 

Un giorno Hanniba’al partecipa a una caccia al cinghiale. I cacciatori sono divisi in gruppi, che si muovono alla ricerca delle prede. A un certo punto Hanniba’al e i suoi compagni giungono a una radura, dove trovano il corpo di Trefor, uno dei cacciatori, con una ferita al petto. Degli altri tre cacciatori del suo gruppo non c’è traccia.

I compagni di Hanniba’al sanno che cosa è successo:

- Il mercante di schiavi li ha catturati.

- Li venderanno nelle terre romane.

Alla fattoria di Publio Larcio Hanniba’al ha sentito parlare di mercanti che catturano uomini oltre la frontiera e li portano in territorio romano per venderli come schiavi. La pratica non è permessa, perché provoca tensioni con le popolazioni ai confini, ma molti comandanti militari fingono di non vedere, perché vengono ricompensati dai mercanti.

Hanniba’al dice:

- Il corpo di Trefor non è ancora freddo. Questi assassini non hanno avuto il tempo di allontanarsi molto. Seguiamoli e cerchiamo di liberare i prigionieri e vendicare il nostro compagno.

Gli uomini sanno che è pericoloso: sono solo in quattro e il mercante di schiavi deve avere con sé diversi uomini, per essere riuscito a uccidere Trefor e catturare gli altri tre. Ma nessuno di loro vuole abbandonare al proprio destino i compagni e non c’è tempo di andare a chiamare gli altri.

Hanniba’al è quello che rischia più di tutti: avvicinandosi al confine con i territori di Roma, potrebbe essere riconosciuto come uno schiavo fuggitivo e un assassino. Ma non gli importa.

Si mettono alla ricerca delle tracce, che seguono a lungo: il mercante di schiavi si muove in fretta, sapendo di essere in pericolo in territorio celtico. È ormai notte fonda quando raggiungono il luogo dove si sono accampati i fuggitivi, non lontano dal confine. La luna è sorta, ma nel bosco l’ombra è fitta.

C’è una sentinella che veglia.

Hanniba’al si rivolge ai compagni e dice:

- Ucciderò la sentinella. Poi studierò la situazione.

Hanniba’al si avvicina alla sentinella, mantenendosi nelle zone d’ombra. Quando è alle sue spalle, mette una mano sulla bocca dell’uomo, per impedirgli di gridare, e gli recide la gola. L’uomo si dibatte solo un attimo, poi si affloscia. Hanniba’al lascia cadere il corpo per terra.

Poi si avvicina all’accampamento. Individua facilmente i tre prigionieri. Accanto a loro ci sono altri sette uomini, che paiono dormire. Uno di loro però si alza, toglie la coperta che lo copre e si sposta vicino a un albero. Incomincia a pisciare. Hanniba’al gli si avvicina alle spalle e lo sgozza come ha fatto con la sentinella. Ora gli uomini sono solo sei. Hanniba’al si chiede se liberare i compagni e poi insieme attaccare gli altri, ma c’è il rischio che i prigionieri facciano rumore o che vedendoli si lascino scappare un’esclamazione.

Hanniba’al torna dai compagni e spiega loro la situazione. In silenzio si avvicinano agli uomini che dormono. A un segnale di Hanniba’al, si scagliano sugli uomini addormentati e li colpiscono. Uno si sveglia per il gemito di un compagno sgozzato e lancia un grido. Hanniba’al ha ucciso due degli uomini addormentati quando vede un uomo corpulento scattare in piedi, la spada già in mano. Hanniba’al si getta su di lui e rotolano a terra. L’uomo cerca di colpirlo, ma Hanniba’al vibra un pugno violento, che intontisce l’uomo. Un secondo pugno lo stordisce e l’uomo rimane immobile al suolo.

I prigionieri vengono liberati. Sette romani sono morti e l’ottavo è privo di sensi. I prigionieri dicono che è Rubio, il mercante di schiavi. Verrà portato al villaggio. Gli legano le mani dietro la schiena e gli bloccano le braccia con la stessa corda usata per i prigionieri. L’uomo riprende i sensi mentre finiscono di legarlo.

- Non è il caso di rimanere qui. Dobbiamo allontanarci.

Tutti concordano.

I compagni di Hanniba’al incominciano a tagliare la testa ai romani che hanno ucciso. Hanniba’al li guarda, perplesso.

Meurig, uno degli uomini che sono stati liberati, gli dice:

- Anche tu, Hanniba’al, devi tagliare la testa a quelli che hai ucciso.

Hanniba’al è abituato a combattere e ha più volte ucciso, ma non ha mai reciso il capo di un nemico. Meurig gli spiega come fare per separare le vertebre e poter staccare la testa dal corpo.

Il gruppo ritorna al villaggio con il prigioniero e le teste degli uomini uccisi. Strada facendo incontrano altri uomini, che sono venuti a cercarli dopo aver trovato il corpo di Trefor.

Al villaggio giungono che è già giorno. Dopo aver narrato l’accaduto, si ritirano tutti nelle loro case per riposare.

Nel pomeriggio Hanniba’al prepara quattro pali acuminati, che pianta nel terreno davanti alla casa. Poi colloca le teste sulle punte dei pali, adeguandosi all’usanza della tribù. Questa ormai è la sua gente e Hanniba’al ne segue i rituali. Mentre lavora, molti guerrieri gli si avvicinano per fargli i complimenti.

Hanniba’al ora può entrare a far parte a pieno titolo dei guerrieri. Gareth è felice, sapendo che quando morrà, Hanniba’al potrà prendere il suo posto nel consiglio del re.

Il giorno seguente  Lochlann viene a cercare Hanniba’al, per prepararlo al rituale. Gli spiega:

- Questa sera, il sacerdote disegnerà il tatuaggio sul tuo petto. È una cerimonia dolorosa, in cui il guerriero deve mostrarsi insensibile alla sofferenza.

Hanniba’al annuisce.

- Capisco, anche a Cartagine i guerrieri dovevano dimostrare di saper sopportare il dolore. Credo che sia così ovunque.

- Sì, senz’altro. Un guerriero che ha paura del dolore… non potrebbe combattere.

- Il tatuaggio sarà come quello degli altri?

Hanniba’al ha avuto modo di vedere i tatuaggi degli altri guerrieri, che d’estate si aggirano spesso a torso nudo e con cui si è bagnato più volte al torrente.

- Sì, sarà la testa del lupo, perché questo è il clan a cui tu appartieni, come sai.

Hanniba’al sorride e dice:

- Li ho uccisi con il tuo pugnale, Lochlann, quello che ha la testa di lupo. È davvero una splendida arma.

- Degna di un valoroso guerriero come te.

 

La cerimonia si svolge nello stesso spiazzo dove Hanniba’al è stato ascoltato la sera del suo arrivo.

Seguendo le istruzioni del sacerdote, Hanniba’al si spoglia e rimane nudo davanti alla gente che assiste. Il sacerdote ha in una mano un recipiente in cui si trova un impasto viscoso di colore blu. Porge il recipiente a un assistente e prende degli aghi. Intinge la punta dell’ago della sostanza e immerge l’ago nel pettorale di Hanniba’al, sotto la pelle. L’operazione viene ripetuta più volte. È un processo lungo e, come gli ha detto Lochlann, piuttosto doloroso, ma Hanniba’al è abituato a sopportare il dolore e il suo viso rimane impassibile. La folla assiste muta: altre cerimonie sono accompagnate dal canto o da strumenti musicali come i tamburi e i flauti, ma l’incisione del tatuaggio deve avvenire in assoluto silenzio.

Quando il sacerdote ha finito, sul torace di Hanniba’al si staglia la testa di un lupo, simbolo del clan a cui ormai appartiene a pieno titolo. Solo in questo momento i tamburi incominciano a battere e gli uomini cantano: un coro maschile per l’ingresso di un membro della tribù nella cerchia dei guerrieri.

Conclusa la cerimonia, vi è un grande banchetto, in cui Hanniba’al prende posto di fianco al re. Gareth, i nipoti e la nuora siedono accanto a lui: l’onore di Hanniba’al ricade su tutta la famiglia.

Il cibo è abbondante e l’idromele riempie i calici, mentre flauti e tamburi accompagnano la festa.

Dopo che le portate principali sono state servite, diversi partecipanti si alzano e si spostano per parlare con i loro amici. Hanniba’al si ritrova al centro dell’attenzione Molti gli si avvicinano e lo lodano, esprimendo ammirazione e riconoscenza per aver salvato i guerrieri catturati ed eliminato la minaccia costituita dal mercante di schiavi.

Hanniba’al è felice: ora che è entrato a far parte dei guerrieri, sente davvero trovato una nuova patria e una nuova famiglia.

Solo alla fine del banchetto Hanniba’al nota che Lochlann è un po’ in disparte e non sembra allegro. Vorrebbe avvicinarglisi, ma intorno a lui ci sono altri guerrieri e Hanniba’al non vuole apparire scortese lasciandoli. Quando infine la festa si sta spegnendo, Hanniba’al cerca nuovamente Lochlann con lo sguardo, ma non lo trova. Il fabbro se n’è andato, come hanno fatto alcuni anziani e molte donne con i bambini. A Hanniba’al spiace non aver scambiato nemmeno due parole con lui in questa sera di festa. Sa che se ha potuto inserirsi nella tribù, è stato anche grazie a Lochlann.

 

Il giorno dopo il Consiglio si riunisce per stabilire che cosa fare del mercante di schiavi, Rubio. I guerrieri assistono e possono intervenire. Hanniba’al preferisce non dire nulla, anche se è stato lui a catturare il mercante: ritiene che debbano essere gli altri a proporre, in base agli usi della tribù.

Uno dei consiglieri suggerisce:

- Facciamo una grande caccia in onore del dio Cernunnos.

La proposta suscita immediatamente un ampio consenso, espresso da numerose voci. Anche gli altri consiglieri che intervengono appoggiano l’idea della caccia, che viene fissata per il giorno dopo.

Lochlann ha parlato a Hanniba’al delle cacce sacre al dio, ma ora il guerriero ha bisogno di avere maggior informazioni. Hanniba’al non ha visto Lochlann in tutta la giornata e non ha avuto il tempo di cercarlo: nei giorni passati i ritmi sono stati stravolti dalla caccia, dall’inseguimento del mercante di schiavi, dalla liberazione dei compagni, dall’ingresso tra i guerrieri e infine dalla partecipazione alla festa e al rito. Hanniba’al ha trascurato la proprietà del padre e in giornata ha dovuto controllare ciò che è stato fatto e dare le istruzioni per i nuovi lavori.

Lochlann non è al villaggio e torna solo a sera. Hanniba’al si reca da lui.

- Scusa, Lochlann, se ti disturbo quando sei appena tornato, ma vorrei chiederti alcune informazioni. Hai tempo per me?

Lochlann sorride, ma non è un sorriso gioioso come in altre occasioni.

- Ben volentieri, Hanniba’al. Siediti.

Dopo che si sono seduti e Lochlann gli ha versato da bere, Hanniba’al parla:

- Sai che dopodomani ci sarà una grande caccia sacra e il mercante di schiavi sarà la preda?

- Certo, Hanniba’al. È la prima cosa che mi hanno detto quando sono tornato.

- Mi hai parlato delle cacce in onore del dio, ma non pensavo che si potesse cacciare un uomo.

Lochlann annuisce.

- A volte succede. Si tratta di un uomo condannato a morte. Il prigioniero viene liberato e riceve un pugnale, perché possa difendersi. Gli si permette di allontanarsi, poi tutti i guerrieri si mettono alla sua ricerca. Il prigioniero diventa uno degli animali sacri al dio Cernunnos e ucciderlo è un grandissimo onore.

Hanniba’al è stupito.

- È strano… che gli si dia un’arma, intendo.

- Il prigioniero è un’incarnazione del dio che nelle sue forme animali è preda, ma spesso uccide. Domani qualche guerriero potrebbe morire per mano del prigioniero, ma sarà sepolto tributandogli grandi onori, proprio perché il prigioniero è il dio stesso. Gli onori più grandi però sono per colui che colpirà la preda, ne reciderà la virilità e poi ne spegnerà la vita. Egli potrà infilzare la sua testa davanti alla propria casa.

Hanniba’al annuisce. Lochlann prosegue:

- In onore del cacciatore si terrà una grande festa, a cui parteciperanno solo gli uomini del villaggio. La vittima verrà infilzata su uno spiedo e cotta, poi la sua carne sarà distribuita e tutti se ne ciberanno, perché è la carne del dio.

- Cibarsi… della carne di un uomo?

Hanniba’al sa bene che ci sono popolazioni che praticano il cannibalismo, ma l’idea lo disturba.

- Non è più un uomo, Hanniba’al. È un cinghiale, sacro al dio Cernunnos. O un cervo, un orso, un lupo, come preferisci. È un’incarnazione del dio stesso.

Hanniba’al annuisce. Lochlann riprende:

- Al termine del banchetto, il guerriero che ha abbattuto l’animale sacro, perché tale è ormai quello che tu ancora chiami uomo, offrirà la sua coppa a colui con cui vuole giacere per la notte.

Hanniba’al guarda Lochlann stupito. Questi spiega:

- Cernunnos è un dio virile, che giace con il suo compagno Doche.

- Ma, Lochlann, uno deve accettare… voglio dire, se non vuole, è obbligato ad accettare l’offerta?

- Nessuno è obbligato, ma nessuno dirà di no al guerriero scelto dal dio. Gli altri, se vorranno, cercheranno un altro maschio da stringere, poiché nella notte della caccia sacra nessuno può congiungersi con una donna.

A Hanniba’al non piace l’idea di dover accettare un rapporto con un uomo che non desidera. Da quando è al villaggio, non ha mai avuto rapporti. Vive in castità e solo nel sonno a volte la tensione sessuale si trasforma in un sogno ardente che lo porta al piacere. Ci sono molti guerrieri forti e virili, di cui Hanniba’al apprezza la maschia bellezza. Ma non gli piace pensare che uno di loro gli offra la coppa. Vorrebbe scegliere con chi giacere, non farlo per rendere omaggio al cacciatore scelto dal dio.

 

Il giorno della grande caccia è giunto. Piove, una pioggia continua, persistente, e in lontananza il paesaggio è avvolto da una nebbia leggera. Una giornata autunnale, anche se non è ancora autunno.

I guerrieri sono tutti a torso nudo e i pantaloni che indossano sono già fradici.

Il prigioniero è nudo. Hanniba’al lo osserva. Rubio è un uomo massiccio, con un ampio torace e un ventre sporgente, coperti da un pelame rossiccio molto fitto, che la pioggia battente attacca alla pelle.  Le mani e le braccia sono possenti: quest’uomo è molto forte, benché sia grasso. Hanniba’al pensa che Rubio assomiglia a Lochlann, ma c’è nel viso sfregiato di Lochlann un’umanità che non c’è in quello intatto di Rubio.

Rubio non tradisce paura, solo rabbia. Quando il sacerdote gli porge il pugnale, Rubio ghigna: se ne servirà per uccidere, il più possibile.

A un segnale del sacerdote, Rubio si muove rapidamente. Le gambe robuste gli permetteranno di correre a lungo per sfuggire ai suoi inseguitori.  E quando sarà raggiunto, venderà cara la sua pelle.

Hanniba’al lo guarda correre. C’è qualche cosa di animale in questa figura che si allontana rapidamente. Visto in lontananza, nella nebbia, appare un orso. O forse…ora sembra un cinghiale dal pelo rosso. No… un cervo… un lupo. Hanniba’al guarda stupito, senza capire. Vicino a lui Uilleac commenta:

- Il dio è entrato in lui. Grande onore per chi abbatterà la preda.

Un altro cacciatore commenta:

- Davvero. Spero che tocchi a me.

Uilleac scuote la testa e risponde:

- Ognuno di noi vorrebbe abbatterlo, ma sarà il dio a scegliere.

Rubio scompare nella nebbia che avvolge la foresta. Si è diretto verso sud, verso i territori sotto dominio romano.

I guerrieri si guardano l’un l’altro, impazienti di lanciarsi nella caccia. Qualcuno si vanta che sarà lui a uccidere la preda, qualcun altro fa delle ipotesi sui luoghi in cui Rubio potrebbe nascondersi.

Hanniba’al non dice nulla, immerso nei suoi pensieri. Gli ultimi giorni sono stati intensi. Per Hanniba’al si è aperta una nuova fase della vita. Ora si pone domande che a lungo ha accantonato.

Il tamburo batte veloce e i cacciatori si lanciano di corsa nella direzione in cui è scomparsa la preda. Hanniba’al si riscuote e segue gli altri. I cacciatori si sparpagliano. Conoscono i sentieri, i possibili nascondigli, gli ostacoli. Anche Hanniba’al ormai ha imparato a conoscere il territorio e si muove con sicurezza, ma rimane indietro.

Adesso piove di meno, ma la nebbia avvolge ancora il bosco. Hanniba’al si guarda intorno; la sua mente però è altrove. Il cacciatore non sta cercando tracce, non sta scrutando in lontananza per scorgere nella nebbia la preda in fuga. Hanniba’al torna indietro, in direzione del villaggio, disertando la caccia, ma rimane nei boschi: non vuole rientrare ora, perché darebbe l’impressione di disprezzare il rito. Le parole di Lochlann sulla festa che seguirà la conclusione della caccia lo hanno turbato. E cercando di capire le ragioni del proprio turbamento, Hanniba’al sta dando forma precisa a emozioni e sensazioni, che fino a ora non ha analizzato. Spera di non essere scelto dal cacciatore che abbatterà la preda: gli spiacerebbe dire di no all’uomo designato dal dio, ma Hanniba’al sa che il suo cuore vuole altro.

Hanniba’al cammina in silenzio. Ormai la pioggia è cessata, ma dalle foglie scendono ancora gocce. Hanniba’al è fradicio, ma non ci bada, assorto nei suoi pensieri. D’improvviso un urlo lo riscuote. Hanniba’al scatta correndo nella direzione da cui è arrivato l’urlo. Scorge due figure in lontananza, che sembrano lottare tra gli alberi. Quando Hanniba’al arriva sul posto, Heddwyn è a terra, mentre Rubio è in ginocchio sopra di lui e ha alzato il pugnale per colpirlo.

Hanniba’al scaglia la lancia con forza. L’arma colpisce Rubio al petto, facendolo cadere all’indietro. La lancia oscilla, mentre Rubio cerca di alzarsi, senza riuscirci. Heddwyn si solleva: è sporco di fango, ma non sembra perdere sangue.

- Tutto bene? Non sei ferito?

- No, non ha fatto in tempo a colpirmi. Grazie a te.

Hanniba’al guarda Rubio, steso a terra, le mani intorno alla lancia che lo ha trafitto.

Heddwyn dice:

- Ora suona il corno, Hanniba’al.

I cacciatori hanno ricevuto un corno con cui annunciare la fine della caccia. Hanniba’al soffia nello strumento e il suono si diffonde.

In lontananza si sentono altri suoni: il segnale della fine della caccia viene ripetuto.

Hanniba’al guarda il corpo del romano. Rubio respira affannosamente. Dalla bocca gli cola del sangue.

Hanniba’al non ha cercato la preda, ma è stato lui ad abbatterla. È davvero il dio che lo ha scelto? O è solo un caso?

Hanniba’al ha sguainato la spada e si appresta a finire il ferito, ma Heddwyn gli dice:

- Devi castrarlo, Hanniba’al, prima di ucciderlo. Questo richiede il rito della caccia sacra.

Hanniba’al guarda Heddwyn. Sa che non mente: Lochlann gli ha descritto il rituale, ma Hanniba’al non pensava che sarebbe stato lui ad abbattere Rubio, per cui non ha badato a questo elemento. Non gli piace l’idea di castrare un uomo, ma questo prevede il rituale. Prende il coltello che porta al fianco, il dono di Lochlann, e afferra i genitali di Rubio. Questi sgrana gli occhi, il viso deformato dal terrore, e urla:

- No. No!

Hanniba’al stringe e muove la lama con un gesto deciso. Il pugnale recide e il sangue schizza sulle mani di Hanniba’al, mentre Rubio lancia un grido acutissimo. Subito dopo Hanniba’al immerge il pugnale nel cuore di Rubio.

Heddwyn suona di nuovo il corno, per segnalare agli altri dove è stata abbattuta la preda. I guerrieri arrivano, da soli o a piccoli gruppi. Osservano la preda abbattuta e lodano il cacciatore che il dio ha scelto.

Il corpo viene legato per le mani e i piedi a una lancia, che due degli uomini più forti si mettono in spalla: non è un peso leggero, quello che trasportano. Il corpo di Rubio ora pende dalla lancia come quello di un animale e, come i cervi o i cinghiali catturati, diverrà cibo per i cacciatori.

Hanniba’al guida il gruppo degli uomini che tornano al villaggio: è stato lui ad abbattere la preda e a reciderne la virilità, è lui il cacciatore che il dio Cernunnos ha scelto.

Al villaggio, Hanniba’al recide la testa di Rubio e prepara il palo, che infigge nel terreno accanto agli altri quattro. Poi viene preparata la grande festa serale.

Gli uomini si riuniscono nel terreno sacro, posto a una certa distanza dal villaggio. Hanniba’al ha avuto modo di vederlo molte volte, ma non vi è mai entrato: gli uomini vi accedono in occasione di cerimonie religiose o per rivolgersi al dio.

Ora che vi entra, Hanniba’al si rende conto che lo spazio delimitato dalle pietre racchiude all’estremità settentrionale un cerchio di pali piantati uno vicino all’altro: è il recinto divino, a cui solo i sacerdoti possono accedere. Questa sera vi entrerà Hanniba’al, con l’uomo che sceglierà, perché questa sera Hanniba’al è l’incarnazione di Cernunnos.

Nel cerchio di pietre viene acceso il fuoco, su cui sarà cotta la carne della preda. Il corpo di Rubio è stato preparato per il grande banchetto: vuotato delle interiora e trafitto da un lungo spiedo che viene girato lentamente, cuoce sul fuoco mentre viene unto di grasso. Hanniba’al non ha mai mangiato carne umana, ma questa sera dovrà farlo. Altre pietanze sono state preparate, ma non è un pasto abbondante: il banchetto è una cerimonia in onore del dio e anche se birra e idromele vengono versati nei calici, nessuno si ubriaca. Nessuno vuole suscitare l’ira del dio terribile, Cernunnos.

Entrando nel terreno sacro gli uomini si spogliano. Ora sono tutti nudi e con il passare del tempo il desiderio che arde in loro appare evidente. Ma finché Hanniba’al non sceglierà colui con cui giacere, nessuno di loro si apparterà con un altro. Molti in cuor loro sperano di essere scelti dal grande guerriero che ha abbattuto il dio in forma animale. Hanniba’al legge nei loro occhi ciò che le labbra non esprimono: non tocca a loro proporsi, è il prescelto del dio che sceglierà.

Heddwyn gli porge una coppa, sorridendo  È bello Heddwyn. È giovane. Anche nei suoi occhi brilla il desiderio. Heddwyn spera che Hanniba’al gli offra la coppa d’oro che ha davanti a sé e che non ha ancora riempito, la coppa che porgerà al maschio prescelto.

Hanniba’al sa che è giunto il momento. Cerca con lo sguardo Lochlann. È seduto in disparte e sembra assorto nei suoi pensieri. Non è allegro come gli altri.

Hanniba’al si avvicina a Lochlann.

- Mi sembri triste, fratello.

Lochlann alza la testa e sorride, ma non c’è allegria nel suo sorriso.

- Scusami, Hanniba’al. Sono felice delle tue imprese

- E allora che cos’è che ti rende triste? Perché non c’è gioia in te questa notte, lo vedo.

Lochlann alza le spalle

- Non preoccuparti per me, Hanniba’al. La tristezza passerà. Godi il tuo trionfo, perché questa è la tua festa.

Hanniba’al annuisce.

- Sì, questa notte è la mia festa. Vieni con me.

Hanniba’al torna al proprio posto. Lochlann lo segue, tenendosi a qualche passo di distanza. Hanniba’al prende la coppa d’oro e vi versa l’idromele. Poi la porge a Lochlann. Questi lo fissa, incredulo.

- Hanniba’al… la coppa che mi offri…

Hanniba’al sorride:

- Mi hai detto che nessuno mi avrebbe detto di no. Ma se non lo desideri anche tu, preferisco che tu me lo dica sinceramente.

- Pensi che esista al mondo qualche cosa che desidero di più?

Hanniba’al sorride.

- Anch’io, Lochlann, lo desidero. E non solo per questa notte.

Hanniba’al e Lochlann si dirigono al cerchio di pali: il loro amplesso è un’immagine di quello del dio Cernunnos con il compagno Doche, una cerimonia sacra e come tale deve svolgersi nel recinto consacrato. L’ingresso del cerchio fronteggia la pietra che segna l’estremità settentrionale del terreno: dall’esterno si può appena intravedere ciò che avviene all’interno e ora che è scesa la notte, solo le fiamme del fuoco acceso per cuocere la preda diffondono un vago chiarore anche all’interno del cerchio di pali.

Hanniba’al prende tra le mani il viso di Lochlann e lo bacia.

Quando Hanniba’al interrompe il bacio, Lochlann chiede:

- Come è possibile, Hanniba’al? Ci sono tanti guerrieri, giovani, forti, belli. Io…

Hanniba’al gli pone una mano sulla bocca.

- Io voglio te. Basta con le parole inutili. Ora io sono un’immagine del dio e tu quella del suo compagno. Il dio ti desidera.

Hanniba’al ride e guida la mano di Lochlann al proprio ventre.

- Vedi quanto ti desidera.

Lochlann stringe il membro eretto di Hanniba’al tra le dita forti.

- Io non ti desidero di meno, Hanniba’al, ma mi sembrava un sogno irrealizzabile…

Lochlann tace, sa che non è più tempo per le parole di dubbio. Ora, se c’è spazio per le parole, sono quelle ardenti che detta il desiderio.

Si baciano ancora, si stringono, si abbracciano, scivolano a terra. Il gioco delle mani, delle bocche, delle braccia, alimenta la fiamma che arde in loro. Contro il ventre ognuno avverte la pressione del membro dell’altro.

Il desiderio preme, troppo violento ormai per accettare altri indugi. Per le carezze ci sarà tempo dopo. Hanniba’al guida Lochlann a stendersi a pancia in giù. Lochlann allarga le gambe. Hanniba’al sputa sul solco e sparge la saliva, poi inumidisce con cura la cappella.

Sussurra ancora:

- Tu non sai quanto lo desidero, Lochlann.

- L’ho desiderato ogni notte, Hanniba’al, prima di addormentarmi e poi nei miei sogni. Quante volte ho sognato di stare con te! Ti vedevo nudo, ti…

E mentre Lochlann parla, Hanniba’al gli morde una spalla e spinge. La carne cede e Hanniba’al è sopraffatto dal piacere. Da molto tempo non ha rapporti e deve tornare indietro nel tempo, a quando Cartagine non era ancora stata distrutta, per ricordare l’ultima volta che ha avuto un rapporto con un uomo a cui voleva bene. Ma ora c’è molto di più: ciò che lo attrae verso Lochlann va ben oltre l’attrazione fisica che ha più volte provato nei confronti di altri soldati, è molto di più dell’affetto cameratesco per un compagno. Lochlann ha preso il suo cuore e ora possederlo gli trasmette una sensazione fortissima.

Hanniba’al si muove con lentezza, lasciando che il desiderio cresca e il piacere lo avvolga completamente. A lungo cavalca, senza stancarsi. Le sue mani percorrono il corpo del fabbro, si perdono tra i peli, le dita si infilano tra i capelli. Le labbra di Hanniba’al baciano la nuca di Lochlann, i suoi denti gli mordono una spalla, il lobo dell’orecchio integro. E il suo cazzo si spinge a fondo e poi si ritrae, in un movimento continuo che dilata il piacere oltre ogni limite. Gli sembra di non aver mai goduto tanto, perché per la prima volta il corpo che possiede è quello dell’uomo che ama. Infine il piacere deborda e il seme si spande nelle viscere di Lochlann.

- Lochlann, amore mio.

- Grazie, Hanniba’al.

- Grazie a te.

Hanniba’al si abbandona sul corpo di Lochlann. Gli accarezza il capo, con dolcezza. È così bello rimanere distesi su Lochlann, sentirne il calore, far scivolare le dita sulla pelle. Rimane così a lungo.

Poi gli sussurra:

- Lochlann… vuoi prendermi?

Lochlann rimane un momento in silenzio, poi dice:

- Lo desidero con tutto me stesso, ma… Hanniba’al, io non…

- Lo desidero anch’io. Ti ho detto che fui stuprato dai soldati romani e poi da Resus. Ma prima, quando tra soldati ci dedicavamo alla lotta, dividevamo spesso anche il giaciglio e a qualcuno che mi aveva vinto mi offrii.

- Io non ti ho vinto.

- Tu hai vinto il mio cuore e sei stato davvero il primo a farlo. Non sarai il primo a possedere i miei fianchi, ma sei il primo a possedere il mio cuore.

Lochlann esita ancora. Hanniba’al aggiunge:

- Se io sono l’immagine di Cernunnos e tu quella di Doche, mi hai insegnato che Doche possedette Cernunnos. Io non genererò dei figli, ma voglio sentirti dentro di me. Voglio che tu mi prenda.

Lochlann bacia Hanniba’al, poi si separano. Hanniba’al si mette a quattro zampe e Lochlann gli accarezza il culo, poi lo stringe, forte.

Lochlann si sputa nel palmo della mano e si inumidisce la cappella, poi sparge altra saliva sull’apertura. Morde il culo di Hanniba’al, più volte, poi fa scivolare la sua lingua sul solco, una carezza umida che trasmette un brivido a Hanniba’al. Lochlann ripete l’operazione, mentre le sue dita vigorose stringono il culo del fenicio. Poi Lochlann avvicina il membro robusto all’apertura e penetra Hanniba’al, prendendo possesso del suo corpo.

Hanniba’al sente un po’ di dolore: da tempo nessuno l’ha più preso e Lochlann è ben dotato. Ma il piacere è più forte ed è bellissimo sentire le sue mani che lo accarezzano, lo stringono, gli tormentano i capezzoli e i coglioni. Essere tra le braccia di Lochlann, sentire dentro di sé lo spiedo che lo trafigge, sentire le parole oscene che Lochlann gli sussurra, mescolate a parole d’amore: questo è davvero il paradiso.

Anche Lochlann è un buon cavaliere e cavalca a lungo, finché il piacere non diviene tropo forte e il seme si sparge.

Ora sono distesi uno accanto all’altro, mano nella mano.

- Sono felice, Hanniba’al. Non credevo che lo sarei mai più stato nella mia vita.

Hanniba’al sorride.

- Anch’io pensavo che non sarei mai più stato felice.

 

Il cielo si sta rischiarando. Per gli uomini è ora di tornare alle proprie case. Prima di uscire dal cerchio, Hanniba’al dice:

- Lochlann, vorrei che tu rimanessi al mio fianco.

- Che cosa intendi, Hanniba’al?

- Vivere con me, Lochlann. È possibile o verremmo criticati? Il dio Cernunnos ha un compagno.

- Sì, Hanniba’al, e un uomo può decidere di condividere la vita con un altro uomo, ma è davvero un matrimonio, con tutti gli obblighi di fedeltà e di condivisione. Chi lo sceglie, non potrà mai sposare una donna, né generare figli.

- Non mi interessa. Quello che voglio è vivere con te.

Lochlann stringe più forte la mano di Hanniba’al.

- Anch’io voglio che viviamo insieme.

Hanniba’al e Lochlann comunicano al grande sacerdote la loro decisione. Il rito viene fissato per il primo plenilunio.

La cerimonia si svolge la sera ed è molto semplice. Il sacerdote chiede a Hanniba’al e a Lochlann se essi confermano la loro decisione di unire le loro vite. Dopo aver ricevuto risposta positiva, incide il braccio di Hanniba’al, con due tagli verticali. Raccoglie un po’ del sangue che esce in una coppa. Poi sparge sulle ferite una sostanza che impedirà ai margini di saldarsi: quando le ferite saranno guarite, vi sarà una doppia cicatrice.

Il sacerdote esegue le stesse operazioni su Lochlann e raccoglie il sangue nella stessa coppa. Poi aggiunge idromele e la porge prima a Hanniba’al, poi a Lochlann. I due uomini bevono il loro sangue mescolato all’idromele.

Ora Hanniba’al e Lochlann sono fratelli di sangue e compagni di vita. Lochlann si trasferisce nella casa di Gareth.

Hanniba’al scopre la gioia di svegliarsi ogni giorno accanto all’uomo amato, di stringersi a lui nelle lunghe notti d’inverno, di abbracciarsi prima di separarsi per dedicarsi alle attività della giornata, di aspettarne il ritorno o di trovarlo a casa ad accoglierlo. Hanniba’al impara i gesti della tenerezza, che non trovava spazio nei giochi rudi dei soldati a Cartagine o tra gli schiavi di Publio Larcio.

 

Quando arriva la primavera, il cielo è sempre coperto e le piogge si susseguono ininterrotte. Il sole sembra volersi nascondere e gli uomini sono preoccupati per i raccolti.

Un mattino i sacerdoti si riuniscono nella sala del tempio. Quando la riunione si scioglie, si diffonde la notizia che gli abitanti del villaggio sono stati convocati per la sera. 

Al tramonto, tutti si riuniscono nello spiazzo al centro del villaggio, sotto la pioggia che continua a scendere, implacabile. C’è un silenzio innaturale nella folla che si accalca: tutti intuiscono che è un momento grave. Quando il gran sacerdote si alza, nell’aria c’è una forte tensione. L’uomo comunica:

- Il tempo del nostro re è concluso. Il Consiglio degli anziani deve designare il nuovo re.

Ramsay non sembra turbato dalle parole del sacerdote, che segnano la sua condanna a morte. Sapeva che il giorno non era lontano e anche lui ha letto nelle piogge incessanti un messaggio della divinità. Accetta il suo destino.

 

La sera seguente il Consiglio si riunisce nello spiazzo al centro del villaggio. Tutti gli uomini sono presenti, in piedi, e assistono, muti. Il Consiglio dovrà proporre un nome, ma esso dovrà essere approvato dai guerrieri e da tutti gli altri uomini. Fino a che il Consiglio non si sarà pronunciato, nessuno degli uomini del villaggio parlerà.

Lochlann ha detto a Hanniba’al che prima ci saranno alcune proposte prive di importanza, poi verranno fatti nomi di coloro che davvero vengono presi in considerazione.

E in effetti i primi consiglieri che parlano propongono alcuni nomi: un guerriero valoroso, un cacciatore esperto, un uomo saggio. Ma nessuno dei consiglieri riprende queste proposte: sono solo attestati di stima, che onorano chi li riceve, ma non corrispondono a una reale intenzione di scelta. Ai nomi si mescolano osservazioni sulle caratteristiche che deve avere il nuovo re e lodi per Ramsay, il cui valore viene riconosciuto da tutti.

Poi parla un consigliere che fino a ora ha taciuto. Hanniba’al coglie un’attenzione nuova nei visi delle persone attorno a lui: probabilmente ora verrà davvero proposto un nome.

L’uomo dice:

- Il dio ha portato da noi Hanniba’al quando ormai il giorno di Ramsay volgeva al tramonto. Il dio lo ha guidato a liberare i nostri guerrieri che erano stati catturati dai romani e il dio lo ha scelto nella caccia sacra. Io credo che il dio abbia manifestato la sua volontà.

Hanniba’al non crede a ciò che sente. Se ormai non conoscesse bene la lingua della tribù, penserebbe di aver capito male: davvero qualcuno lo propone come nuovo re? Forse anche il suo è un nome gettato al vento, prima dei nomi che contano, ma è comunque un onore inatteso.

Lo stupore di Hanniba’al è destinato a crescere, quando, uno dopo l’altro, i consiglieri esprimono il loro parere:

- Sì, ciò che Mauran dice è giusto. Il dio ha guidato i suoi passi e non è giunto per caso qui.

- Il dio ha scelto e noi possiamo solo inchinarci alla scelta del dio.

- Il dio ha designato un uomo che unisce valore e coraggio, un forte guerriero e un valente cacciatore.

I consiglieri si esprimono, tutti a favore. Solo Gareth non dice nulla: non spetta a lui sostenere la candidatura del figlio.

Quando i consiglieri si sono espressi, il consigliere anziano si rivolge agli uomini del villaggio:

- Il Consiglio propone di scegliere il guerriero Hanniba’al come re. Che cosa dicono i guerrieri della scelta?

Dalla folla degli uomini si leva un grido:

- Hanniba’al re!

Il grido viene ripetuto molte volte. Il popolo ha approvato la decisione del Consiglio degli anziani.

Hanniba’al è completamente frastornato. Gli sembra che sia tutto un sogno. Non è possibile. Hanniba’al è preoccupato: non può sottrarsi alla decisione del villaggio, ma non si sente all’altezza del compito. Lochlann gli stringe la mano e Hanniba’al sente la tensione allentarsi. Sì, non sarà facile, ma Lochlann sarà al suo fianco.

 

Ramsay ha chiesto di parlargli prima del sacrificio rituale.

Hanniba’al si reca da lui. È turbato, quasi prova vergogna, anche se sa che la morte del re in carica non dipende certo da lui.

Ramsay sorride. Appare sereno, ma Hanniba’al coglie una certa tensione.

- Hanniba’al, il Consiglio ha scelto te come mio successore.

- Una scelta che mi ha sorpreso e mi carica di grandi responsabilità.

- Hanniba’al, tu prenderai le decisioni, insieme al Consiglio degli anziani e ai guerrieri. Non spetta a me cercare di influenzarti, ma ho piacere di parlarti. Tu vieni da Cartagine, che i Romani hanno distrutto, e sei stato loro schiavo per anni, subendo punizioni di ogni genere.

- Sì, ciò che dici è vero.

- Hanniba’al, pensi di attaccare i Romani?

Hanniba’al scuote la testa.

- Vorrei che Roma venisse distrutta, ma so bene che non sarebbe possibile neanche unendo tutte le tribù che vivono di qui fino alla Britannia. No, credo che vivere in pace con Roma e con le altre tribù sia l’unica scelta possibile. La pace è necessaria.

- Sei saggio, Hanniba’al. Temevo che tu potessi cercare vendetta. Scontrarsi con i Romani sarebbe la nostra fine. Affronto la morte sereno, sapendo che sarai tu a guidare il villaggio. Sarai un buon re.

Hanniba’al sorride e scuote la testa. Quasi gli sfugge un sorriso.

- Vorrei esserne altrettanto sicuro, ma non lo sono.

Ramsay sorride.

- Lo sarai, Hanniba’al. Credo anch’io che sia stato il dio a guidare i tuoi passi da noi.

Dopo un attimo di silenzio, Ramsay aggiunge:

- Assisterai alla cerimonia, è tuo dovere. Ed è la sorte che attende anche te, se non morirai prima del tempo.

Hanniba’al annuisce.

- Vorrei che tu potessi continuare a regnare. O che almeno tu non dovessi morire.

- Altri sono i nostri usi. Non mi spaventa la morte.

Ramsay porge le sue mani e Hanniba’al le stringe.

 

Piove ancora, una pioggia fitta che cade ininterrotta. Nel cerchio dei pali uno dei sacerdoti attende: è nudo e solo i tatuaggi e i monili d’oro indicano il suo rango. Al collo porta un corno, nella mano un lungo pugnale acuminato.

Fuori dal cerchio, nello spazio sacro, sono riuniti i sacerdoti, i guerrieri e tutti i maschi della tribù. Gli uomini intonano un canto di morte, mentre i tamburi rullano piano.

Il ritmo dei tamburi accelera. Da ovest giunge Ramsay. Indossa solo il mantello regale e il monile che i re portano al collo. Da est entra nel terreno sacro Hanniba’al. È completamente nudo.

I due uomini si dirigono al cerchio di pali. Ramsay vi entra, deponendo il mantello su uno dei pali che segnano l’ingresso.

Hanniba’al si mette sulla soglia. Sarà l’unico a poter assistere a tutta la cerimonia, a parte il sacerdote e la sua vittima.

Ramsay avanza senza paura fino al centro del cerchio. Il sacerdote si stacca dal palo davanti a cui stava, avvicinandosi a Ramsay. È un movimento lento e fluido, come lento e fluido è il gesto con cui immerge la lama del lungo pugnale nel ventre del re.

Ramsay apre la bocca, ma non emette suono. Barcolla e porta le mani alla ferita, da cui il sangue esce abbondante. Quando il sacerdote estrae il pugnale, Ramsay cade a terra.

Ramsay si contorce negli spasimi dell’agonia, mentre il canto degli uomini e il suono dei tamburi riempie l’aria.

Hanniba’al guarda l’agonia di Ramsay, il tremito del corpo, il sangue che si sparge sul terreno bagnato. Sa che un giorno questa sarà la sua morte, se il suo destino non lo porterà a morire prima del tempo, ma non ha paura. Adesso vorrebbe mettere fine alla sofferenza di Ramsay, ma non può fare nulla.

Anche il sacerdote osserva il re morente, traendone auspici per il futuro.

Ramsay muove tre volte il capo, poi il corpo rimane inerte, steso a terra. Il sacerdote fa un cenno a Hanniba’al, che entra nel cerchio, poi soffia nel corno. Il suono dei tamburi cessa, il canto degli uomini si interrompe.

Il sacerdote si china su Ramsay e toglie il monile d’oro che il re portava al collo. Raggiunge Hanniba’al e glielo mette.

Quattro uomini entrano nel cerchio e sollevano il corpo del morto. Lo portano in alto, sulle braccia tese.

Quando escono dal recinto, gli uomini intonano un canto funebre.

Hanniba’al si stende al centro del cerchio, come gli è stato detto di fare. Sotto di lui, il suolo intriso di pioggia e sangue, sopra la pioggia che scende, ma che va scemando.

Hanniba’al non assisterà ai riti funebri per Ramsay: non gli è permesso. Deve attendere nel cerchio che essi si compiano.

Le nuvole si diradano, la pioggia cessa. Quando infine i sacerdoti tornano, dopo che Ramsay è stato sepolto, il sole si affaccia tra le nubi. Hanniba’al segue i sacerdoti. Una piccola capanna è stata preparata nello spazio sacro, per i riti di purificazione. Nella capanna l’aria è satura del vapore ottenuto gettando acqua sulle rocce calde. Hanniba’al vi rimane a lungo. Quando un sacerdote gli comunica che può uscire, il sole splende in cielo. È Lochlann a versare due secchi d’acqua su Hanniba’al e a dargli un telo per asciugarsi. Hanniba’al gli sorride: la presenza di Lochlann al suo fianco lo rassicura.

Quando Hanniba’al è pronto, un sacerdote gli mette sulle spalle il mantello regale.

I sacerdoti guidano la processione che accompagna il nuovo re al villaggio.

 

2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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