Corso estivo

 

Laigueglia5

 

      Quell'estate più niente funzionava. Con i miei amici di sempre, quelli che ritrovavo anno dopo anno sulla spiaggia, mi sembrava di non avere più niente da dire. La mattina in qualche modo riuscivo a farla passare: il bagno, le nuotate, la pallavolo in acqua. Ma il pomeriggio era insopportabile. Loro si trovavano al Moka, un bar vicino a casa mia, e rimanevano lì magari un'ora, senza riuscire a decidere che cosa fare, persi nel vuoto di chiacchiere insulse. Di rado qualcuno ordinava da bere: eravamo tutti senza soldi, mica come i ragazzi di oggi. I camerieri ci trattavano malissimo, perché occupavamo i tavoli, dando solo fastidio. Io, che ero abituato ad andare al Moka a mangiare la pizza con i miei, mi vergognavo. I soliti discorsi avvitati su se stessi e poi, dopo un'ora per decidere dove andare, ci si spostava a un altro bar o si andava al minigolf, dove ogni pretesto era buono per litigare.

      Non sopportavo quei pomeriggi vacui. Avevo voglia di parlare di qualche cosa, anche solo del colore della sabbia. Avevo voglia di fare qualche cosa, qualsiasi cosa, nuotare, giocare a pallavolo, camminare, discutere su un libro letto, su una trasmissione, magari anche di politica, di cui non capivo niente. Qualsiasi cosa, ma non quel vuoto assurdo.

      E non era solo quello. Eravamo cambiati tutti, non eravamo più i bambini che giocavano sulla spiaggia ore e ore. E soprattutto ero cambiato io.

Ero sempre stato alto per la mia età e nell'inverno ero cresciuto in modo inverosimile. Ora avevo la statura di un adulto. Non quella di mio padre, che dai monti del Veneto aveva portato a Milano il suo metro e novanta: io non c'ero ancora arrivato. Ma il mio metro e ottanta era già troppo per i miei quattordici anni. Al metro e novanta sarei arrivato solo tre anni dopo.

      Nella compagnia ero sempre stato uno dei più giovani, ma questo non contava molto. Almeno, non contava prima. Ero alto e nelle attività sportive riuscivo bene: anche tra quelli che avevano due o tre anni di più, pochi avevano la mia resistenza nel nuoto; con la palla me la cavavo benissimo.

      Quell’estate era diverso. Quell’estate li sentivo più grandi, anche se nessuno mi superava di statura. E loro per certi versi mi vedevano come il piccolo. Qualche ragazza mi prendeva in giro, mi stuzzicava. Io mi sentivo ridicolo, ero convinto di essere brutto e goffo. Mia madre lo diceva sempre e se a qualcuno scappava un - Che bel ragazzo! -, immancabilmente interveniva per smentire:

      - È cresciuto tanto, è così goffo, troppo alto, sproporzionato.

      Non lo diceva per farmi male e neppure perché lo pensasse. Era la stessa cosa anche con mia sorella, che era la classica bella ragazza (una gran figa, si sarebbe detto anni dopo, ma allora erano solo gli anni '60 e a casa mia negli anni '60 la parola figa non era registrata dal vocabolario). Semplicemente non voleva che ci montassimo la testa. Io non lo capivo e vivevo solo l'ennesima conferma della mia bruttezza. Adesso, guardando le foto di allora, mi scopro tutt'altro che brutto. Non ero certo un efebo, ma neppure uno spaventapasseri.

      Nella compagnia i ragazzi più grandi mi squadravano dall'alto in basso e se parlavo o anche solo mi avvicinavo a una ragazza, erano battutine ironiche. Avrei potuto facilmente farmi valere, almeno a livello fisico, ma non mi passava neanche per la testa. Io non ero abituato a fare a cazzotti, a casa mia valeva ancora il buon vecchio proverbio: “Gioco di mani, gioco di villani”.

      Forse non mi importava neppure di farmi valere. Ormai mi sentivo di troppo tra di loro e loro me lo confermavano in tutti i modi. Ricordo che talvolta il pomeriggio si ballava. Io ero una frana nei balli, non riuscivo a prendere le misure dei miei piedi, per altro dovevo portare già il 45, e a trovare i movimenti giusti, figuriamoci che disastro nei balli di coppia. Ballando facevamo il gioco della scopa. Un pomeriggio su sette balli la scopa mi toccò sei volte. Alla seconda penitenza decisi che ne avevo abbastanza. C'era da andare a chiamare Mario, che non sapeva dove ci saremmo trovati. Dissi che sarei andato io. Andai da Mario, ma non tornai con lui. Il giorno dopo Lella mi disse che Carlo, il più grande, quello che ormai faceva da capo, se l'era presa, ma non mi importava niente di loro.

      Non tornai più con la compagnia. Al massimo il mattino giocavo a pallavolo con loro, se qualcuno mi invitava. Se no, neanche quello. Nuotavo. Nuotavo per ore, spingendomi al largo. Guardavo la spiaggia da lontano, schiacciata dai monti alle spalle. Stavo bene in acqua, mi sentivo in pace. Ogni tanto passava un moscone o arrivava un altro nuotatore. Ci si salutava, poi ognuno continuava per la sua strada. Quando tornavo a riva, mia madre mi rimproverava, perché mi ero spinto troppo al largo, perché ero rimasto troppo a lungo in acqua: era apprensiva, temeva sempre che mi succedesse qualche cosa.

     I pomeriggi però erano lunghi e mia madre non voleva che stessi sempre in casa a leggere. Passavo ore e ore a leggere d'inverno, ma questo a mia madre andava bene: era restia a farmi uscire, temeva i pericoli di Milano. Al mare era un’altra cosa: dovevo andare fuori di casa, respirare l’aria di mare, divertirmi. Quel rimanere a leggere che in inverno la tranquillizzava, in estate le sembrava dannoso.

     Così incominciai a camminare per il paese, andavo a piedi fino ad Alassio, poi tornavo. Ma quelle passeggiate mi annoiarono in fretta. Allora cominciai a salire sulle colline che stringevano il paese a ridosso del mare.

      Non ero abituato ad andare in montagna e non conoscevo i sentieri. Cercavo stradine che salissero, in qualsiasi direzione. Talvolta finivano nel nulla e dovevo tornare indietro, talvolta si trasformavano in sentieri che si arrampicavano. Allora li percorrevo, senza fermarmi, fino a quando arrivava l'ora di ritornare.

 

      Scoprii una Liguria che non avevo mai conosciuto, di cui ignoravo l'esistenza. Una Liguria di ulivi e di boschi, di terrazze e di muretti di pietra, di case isolate e di borgate. Una Liguria di silenzi, in cui la vita aveva un ritmo tutto diverso da quello della costa. Un paesaggio di colline con la presenza costante del mare. Ma quel mare, lontano, disperatamente azzurro e blu, non era lo stesso mare in cui mi immergevo ogni giorno. Così lontano, aveva una purezza che non ritrovavo neppure quando mi spingevo al largo.

      Tendevo a partire sempre prima, con grande irritazione di mia sorella: lei avrebbe voluto rimanere in spiaggia fino alle due, perché le ore centrali erano le più tranquille. Io invece mi annoiavo e quando mia madre diceva che era ora di andare, scattavo come una molla per andare a cambiarmi. Così lei era costretta a seguirci.

 

      Avevo cominciato i miei giri la seconda settimana di vacanze, all'inizio di luglio. Acquisii in fretta un passo rapido e sicuro, che mi permetteva di spingermi sempre più lontano. Esploravo, ma badavo a non perdere i punti di riferimento: se fossi tornato a casa tardi, mia madre si sarebbe spaventata e mi avrebbe proibito di continuare le mie passeggiate. Finché ero puntuale, mia madre non si preoccupava di come passavo il pomeriggio: tutto il contrario di quanto succedeva a Milano, dove era sempre in ansia e voleva essere informata su ogni mio movimento.

      Un pomeriggio mi persi del tutto. Mi ritrovai in un bosco che sembrava non finire più e che sicuramente non avevo percorso all'andata. Ero convinto di sapere più o meno dov'ero, con il sole e la pendenza del terreno di solito riuscivo abbastanza a orientarmi e fino ad allora avevo sempre ritrovato il sentiero perduto. Quella volta però non fu così, perché andando avanti, invece di ritrovare luoghi familiari, continuavo a scoprire paesaggi del tutto nuovi. A un certo punto arrivai su una cresta, da cui potevo vedere un ampio panorama: scoprii di aver superato il promontorio, percorrendo una notevole distanza nella direzione sbagliata. 

      Ero ormai in ansia per il ritardo accumulato: mancavano neppure trenta minuti alle sette, l'ora in cui avrei dovuto essere a casa, e sicuramente mi sarebbe stato impossibile arrivare per tempo. La mia unica speranza era trovare un paese dove ci fosse un telefono pubblico, per avvisare mia madre: avvertendola, non si sarebbe preoccupata ed io me la sarei cavata più a buon mercato, anche se avrei comunque dovuto pagare lo scotto.

      Non trovai il telefono, ma mi andò bene lo stesso: sbucai su una strada che non conoscevo e, mentre scendevo, sperando di trovare un paese, passò un'auto. Alzai la mano per chiedere un passaggio. Se mia madre l'avesse saputo, mi avrebbe pelato vivo: l’autostop era una cosa assolutamente proibita, perché pericolosa.

      Per mia fortuna l'uomo che mi aveva caricato andava ad Albenga e passando da Laigueglia mi lasciò vicino a casa mia. Arrivai puntualissimo, ma giurai che in futuro sarei stato più attento.  

      Nelle prime due settimane mi ero diretto verso l'interno, ma in seguito a quell'episodio cominciai ad esplorare il lungo promontorio alla cui base sorgeva Laigueglia: non si perdeva di vista il mare ed era più facile orientarsi. Scoprii che vi erano numerosi sentieri e li percorsi l'uno dopo l'altro. L'allenamento e la conoscenza del territorio mi permettevano di spingermi sempre più lontano.

 

      Un giorno mi fermai a bere alla fontana di un piccolo borgo, dove ero già passato due volte, non molto lontano da Laigueglia. Di lì, alla ricerca di qualche nuovo sentiero, presi una stradina che scendeva, ma dopo poche centinaia di metri scoprii che finiva davanti al cancello di una casa con giardino.

      Nel giardino c'era un grande cane da pastore tedesco. Io amavo molto i cani di quella razza, perché mio padre ne aveva uno e da bambino Brik era stato il mio compagno di giochi, paziente ed affettuoso. Avevo otto anni quando Brik era morto e mio padre non aveva voluto comprare un altro cane: come me, aveva sofferto moltissimo per la sua morte.

      Da quando Brik era morto, non avevo più visto cani di quella razza. Mi faceva piacere ritrovarne uno e rimasi a fissarlo. Era un bell’esemplare, con un magnifico pelame scuro. Sembrava piuttosto giovane. Sonnecchiava tranquillo, disteso sull’erba.

          Mentre lo guardavo, sentii una voce:

      - Cerchi qualcuno, ragazzo?

      Sobbalzai. Non mi ero accorto che ci fosse qualcuno nel giardino.

      - No, no. Guardavo solo il cane.

      A parlare era stato un uomo seduto in un angolo del giardino, all'ombra di un grande oleandro. Si alzò e venne ad aprirmi. Era alto quasi quanto me. Non saprei dire quanti anni avesse. Allora non ero in grado di capire l’età di una persona. Aveva folti capelli neri e un naso aquilino che mi colpì.

      - Vieni dentro.

      Non avevo nessuna voglia di entrare, ma non sapevo come rifiutare: i miei genitori insistevano sempre sulle buone maniere ed il risultato dei loro insegnamenti, e dei continui rimbrotti, era stato quello di rendermi impacciato nei rapporti con gli adulti. Entrai, ma mi fermai subito.

      - Come mai da queste parti? Sei in vacanza qui?

      - A Laigueglia.      

      - E come sei venuto fin quassù?

      - A piedi.

      - A piedi?

      - Sì, mi piace camminare.

      L'uomo aveva scosso la testa, forse incredulo.

      - Se hai camminato tanto, avrai sete. Ti porto da bere.

      - No, non è il caso.

      Mia madre mi diceva sempre di non accettare nulla da sconosciuti e in ogni caso ero troppo timido per accettare o anche solo per dirgli che avevo già bevuto alla fontana. L'uomo ignorò la mia risposta.

      - Siediti, vado a prendere da bere.

      Entrò nella casa ed io rimasi in piedi nel giardino. Per un attimo pensai di andarmene mentre l’uomo era in casa, ma non volevo apparire maleducato. Non sapevo che cosa fare, quando il cane venne ad annusarmi i piedi. Io mi chinai per accarezzargli la testa e per un momento dimenticai dov’ero.

         L’uomo ritornò con una bottiglia di Coca-Cola in una mano e un bicchiere nell'altra.

      - Sei ancora in piedi? Siediti!

      Mi lasciai andare su una sedia a sdraio, ma senza appoggiare la schiena: rimasi diritto come se avessi ingoiato una scopa.

      - Ti piace la Coca-Cola?

      - Sì, certo.

      In realtà preferivo la gassosa, ma gli insegnamenti di mia madre e la mia timidezza mi impedivano di dirlo liberamente.

      - E così te ne sei venuto tutto solo fin qui?

      - Sì, il pomeriggio cammino.

      - E dove vai?

      - Salgo, da Laigueglia. Giro.

      - Sempre in posti diversi?

      - Sì.

      Ero sempre più a disagio, non osavo neppure bere. Mi sembrava scortese mettermi a bere mentre stavamo parlando.

      - E non ti perdi?

      - Mi è successo solo una volta.

      - E perché te ne vai così in giro?

      Alzai le spalle. Non sapevo che cosa dire.

      - Mi piace.

      Ci fu un attimo di silenzio. Io guardavo i miei piedi, ma mi rendevo conto che mi stava fissando.

      - Sei tutto sudato. Forse è meglio che ti faccia una doccia. Ti preparo l'accappatoio. Vieni dentro.

      Non attese una mia risposta. Non mi sembrava il caso di fare una doccia da uno che non conoscevo, ma non sapevo come dirglielo. Pensai di nuovo di andarmene non appena lui fosse entrato in casa, ma questa volta lui si fermò sulla soglia e si voltò verso di me.

      - Su, muoviti!

     Mi alzai e lo seguii, cercando una scusa. Non potevo dirgli: “Mia madre mi dice sempre di diffidare degli sconosciuti”! E poi gli avvertimenti di mia madre erano troppo vaghi per essere efficaci: che cosa poteva farmi, uno sconosciuto? Ammazzarmi? E perché mai? I serial killer non andavano ancora di moda. Rapirmi per chiedere un riscatto? Non eravamo così ricchi. Derubarmi? Non avevo una lira: che cosa poteva togliermi? I pantaloni? 

         Più o meno quello che fece o, per essere più esatti, quello che mi fece fare.

      Entrato in casa, mi trovai in un corridoio, con due porte a destra, una a sinistra e la scala in fondo. La sua voce mi arrivò dalle scale.

      - Da questa parte, al piano di sopra.

      Salii, sempre più perplesso. Lo vidi uscire da una stanza con un accappatoio in mano.

      - Da questa parte.

      Aprì la porta del bagno, appese l'accappatoio ad un attaccapanni proprio di fronte alla doccia, di fianco ad un altro, ed uscì.

      - Su, muoviti. Ti aspetto sotto.

      - Ma... non è il caso...

      - Lo è, eccome. Puzzi come un maialino.

      Mi sentii avvampare, mortificato e offeso. A lui che cosa importava se puzzavo? Non ero mica stato io a chiedergli di entrare, se puzzavo poteva lasciarmi fuori. Ero infastidito, ma incapace di reagire.

      Lui si accorse della mia reazione e aggiunse:

      - Su, non te la prendere: una doccia non ti farà male!

      Entrai. Richiusi la porta, ma non c'era una chiave. Rimasi un attimo incerto, a casa ci chiudevamo sempre a chiave quando eravamo in bagno.

      Mi dissi che non aveva importanza. Mi spogliai e aprii l'acqua. Una doccia non poteva farmi male, era vero. Una bella doccia era piacevole, perché di essere sudato come un maialino, lo sapevo anch’io.

      Mi ero appena infilato sotto il getto, quando lui entrò nel bagno ed andò a pisciare. Non guardò neppure dalla mia parte, ma io mi voltai, in modo da dargli la schiena: mi vergognavo da morire.

      Mi vergognavo, ma ero anche curioso: negli ultimi mesi mi era venuta una strana curiosità di vedere come erano fatti gli altri maschi. Non me ne preoccupavo, perché vedevo che anche i miei coetanei avevano voglia di confrontarsi, di vedere come ce l’avevano gli altri e di far vedere come ce l’avevano loro.

      In quel momento avevo una voglia matta di vedere com’era fatto quell’uomo. Non mi era mai capitato di vederlo a un adulto. Così, mentre mi insaponavo, voltai la testa di lato e lanciai un’occhiata.

      Lo vidi appena, ma mi fece subito uno strano effetto: mi sentii a disagio, ma anche attratto. Avrei voluto vederlo meglio, ma lui girò un po’ la testa dalla mia parte ed io subito mi girai a guardare il muro davanti a me.

      Quando ebbe finito tirò l'acqua e venne a mettersi davanti alla cabina.

      - Come va?

      - Bene, ho quasi finito.

      In realtà avevo appena incominciato, ma mi sentivo sempre più in imbarazzo. Gli davo la schiena e mi insaponavo come se niente fosse, ma aspettavo solo che se ne andasse.   

      - Forse è meglio che mi faccia anch'io una doccia.

      Prima che potessi dire qualche cosa, si tolse maglietta, pantaloni e mutande ed entrò. Mi spostai in avanti, verso il muro, ma il piatto della doccia non era grande e ci sfioravamo.

      Non sapevo che cosa fare, avrei voluto fuggire e probabilmente l’avrei fatto, ma tra me e la tenda della doccia, c’era lui. Ed io ero nudo, tutto insaponato: non potevo certo scappare via in quel modo. E poi, a dirla tutta, se una parte di me voleva solo scappare via, un’altra parte voleva rimanere. Non sapevo che cosa fare di me stesso, del mio corpo che lo sfiorava, dei miei occhi che fissavano la parete, ma smaniavano di vedere quel corpo forte alle mie spalle.

          Borbottai:

      - Ho finito, posso uscire.

      Lui rise.

      - Ma no, che sei ancora tutto insaponato. Dammi la spugna, ti aiuto io. Te la passo sulla schiena.

      Gli passai la spugna, quasi senza voltare la testa. Ero contento che non potesse guardarmi in faccia, perché stavo morendo di vergogna.

      Mi passò la spugna sulla schiena. Solo la spugna mi toccava la pelle, ma mi sembrava che fosse la sua mano ad accarezzarmi. Quella spugna mi sfregava energicamente le spalle, scorreva lungo la schiena e poi scendeva più giù, fino alle natiche. Lì il movimento divenne ancora più vigoroso. Ora la spugna scivolava tra le natiche e mi trasmetteva sensazioni nuove, come se fosse stata una mano che mi accarezzasse, dove nessuno mi aveva mai accarezzato.

      Poi la mano passò davanti e incominciò ad accarezzarmi sul petto: io continuavo a dargli le spalle e non sapevo più che cosa fare. La spugna scese fino al ventre, poi ancora più in basso.

      Guardavo il braccio che mi sfiorava il torace. Era coperto da una peluria leggera. Guardavo la sua mano che stringeva la spugna. Avvertii il calore del suo corpo contro la schiena: i nostri corpi ora si sfioravano.

      Il mio corpo stava reagendo a quelle manovre ed a quel contatto. L’uccello non era più a riposo: incominciava a tendersi in avanti. Mi sembrava di essere sospeso sull’orlo di un abisso e volevo scappare, ma non sarei riuscito a muovermi neppure se la strada fosse stata sgombra. Non avevo nessuna intenzione di scappare.

      Lui aveva ancora nella destra la spugna, quando la sinistra comparve, come d’incanto. Ricordo che pensai qualche cosa del tipo: “Oh, c’è anche la sinistra!”

          La sinistra c’era, eccome! Con un gesto deciso afferrò l’uccello e me lo scappucciò.

      - Bisogna lavare anche qui, maialino. Guarda che roba!

      Non era molto pulito, era vero. A casa facendomi il bagno avevo preso l'abitudine di lavarmi anche lì, mio padre me l’aveva insegnato, in modo abbastanza spiccio. Ma in vacanza, la doccia la facevo in spiaggia, dopo il bagno in mare, e non potevo certo mettermi a trafficare con l'uccello per pulirmelo, davanti a tutti. A casa non avevamo la doccia, solo la vasca da bagno e l’usava solo mia madre per lavare.

      Me lo pulì con cura, passando la spugna con delicatezza e poi, lasciata cadere la spugna, passandoci con decisione le dita, sopra e sotto. Quelle dita completarono il lavoro avviato dalla spugna. Ora ce l’avevo teso, quasi in verticale.

      Lui mi mise le mani sui fianchi e mi voltò, facendomi ruotare sui piedi, come se fossi un manichino. Io non sapevo più che fare. Mi vergognavo da morire, ma desideravo solo che continuasse.

     Tenevo gli occhi bassi, per la vergogna. E perché volevo vederglielo di nuovo. Vidi che tirava anche a lui. Era grande, con la cappella di un colore scuro, un rosso quasi violaceo. E c’erano tanti peli scuri, mentre io ne avevo pochissimi.

      Vedere che tirava anche a lui, in un certo senso fu un sollievo: non stavo facendoci una figura di merda (guai se mia madre mi avesse sentito usare questa parola, di cui peraltro avevo scoperto il significato solo in terza elementare). Se anche a lui tirava, poteva tirare anche a me.

      Non sapevo che cosa significasse esattamente tutto ciò: la mia ignoranza in fatto di sesso era abissale, come oggi non credo capiti più. Certo, non pensavo che ci saremmo messi a prendere il tè, anche se magari era l’ora: qualche idea l'avevo anch'io e sapevo che qualche cosa sarebbe successo. Che cosa, non sapevo. Alcuni miei compagni si vantavano di farsi le seghe a vicenda, ma io non l’avevo mai fatto. Sarebbe successo questo? Non era niente di strano.

         Quello che successe fu diverso da ciò che mi aspettavo.

      Lui si chinò fino a che le sue labbra non toccarono i miei capezzoli. Poi morse leggermente. Trasalii. Avevo sentito una scossa. Non sapevo che si potesse fare una cosa del genere. Non sapevo che i capezzoli fossero una zona erogena (non sapevo che cosa fossero le zone erogene, sapevo a mala pena come nascono i bambini).

      Poi si inginocchiò e me lo prese in bocca. Rimasi tanto sbalordito, che per un momento non mi resi conto neppure delle sensazioni violente che quel contatto mi provocava. Ma quelle sensazioni erano troppo forti per poter essere ignorate ed in breve scordai ogni cosa, dimenticai ogni domanda, per abbandonarmi interamente al piacere che saliva dal mio uccello, il piacere di quella bocca calda ed umida, di quella lingua che solleticava, accarezzava, di quei denti che stuzzicavano, mordicchiando, di quelle labbra che avvolgevano.

      Così, sotto l'acqua della doccia che mi cadeva sulla testa e sulla schiena, scoprii l'esistenza, se non il nome, del sesso orale e persi la mia verginità.

 

      Dopo che fui venuto, con un urlo che non riuscii a dominare, lui mi baciò sulla bocca. Era il mio primo bacio, ma lo ricordo appena, perché il piacere mi aveva frastornato.

      A rendermi la lucidità fu la sua richiesta:

      - Vuoi succhiarmelo?

      Rimasi senza parole: non che quel pomeriggio ne avessi trovate molte, per cui non fu neppure una novità.

      Mai mi era passato per la testa che si potesse chiedere qualche cosa del genere. Ma non mi era mai passato neppure per la testa che si potesse fare e lui me l’aveva appena fatto.

     Io non sapevo che cosa rispondere. In realtà non volevo o, per essere più esatti, non sapevo se lo volevo, ma lui, sorridendo, incominciò a premere sulle mie spalle ed io cedetti.

     Quando fui in ginocchio davanti a lui, guardai affascinato quell’uccello che si stagliava contro la peluria scura. Aprii la bocca e lo accolsi. Non sapevo come fare, fui certamente maldestro, ma cercai di fargli ciò che lui aveva fatto a me.

     Ottenni il risultato voluto e mi ritrovai la bocca piena di sperma. Per quanto assurdo possa sembrare, non me l’aspettavo. In parte lo sputai, ma in parte fui costretto ad inghiottirlo per non soffocare.

         Mi sembrò che avesse un gusto acidulo e vagamente nauseante.

      Uscimmo dalla doccia e mi asciugò con cura. Mi passò l’asciugamano sulle spalle, sul torace, sul ventre, sulla schiena. L’azione dell’asciugamano e la vicinanza del suo corpo mi fecero rapidamente effetto: mi accorsi che mi stava nuovamente diventando duro, ma lui non lo notò, o fece finta di niente.

      Si rivestì ed io feci altrettanto. Non lo guardavo in faccia, ero imbarazzato. Naturalmente non sapevo che cosa dire (e quando mai?), ma neanche lui parlò. Uscì dal bagno e scese le scale. Io lo seguii, quasi sollevato all’idea di non dover sostenere una conversazione. Dal corridoio passò direttamente in giardino e si diresse al cancello. Quel congedo sbrigativo non mi infastidì, perché mi semplificava le cose.

         Rimanendo di fianco al cancello, mi sorrise e mi disse:

      - Torna a trovarmi, se vuoi, sono sempre qui. Anche domani.

      Scesi frastornato e confuso. L’unico che sembrava avere le idee chiare era l’uccello, che rimase a testa alta per tutto il tempo. Lui si era trovato bene.

      Che cosa avevo fatto? Avevo scopato? Non avevo le idee molto chiare sul termine, che avevo sentito qualche volta e avevo sempre associato ai rapporti tra un uomo ed una donna. Quello che avevo fatto si poteva definire scopare? L’idea di aver scopato mi faceva sentire più grande e questo mi piaceva. Probabilmente di quelli della compagnia nessuno aveva ancora scopato. Avevo scopato con un uomo. Un uomo di cui non sapevo neppure il nome. Ripensai al gusto del suo seme.

      No, non sarei andato da lui il giorno dopo, né i giorni successivi. Scendendo verso casa mi dissi altre dieci volte che non sarei certo tornato da lui. Era un cafone, mi aveva sbattuto via senza neanche dirmi come si chiamava. Da lui non sarei tornato neanche morto. Me lo ripetevo in continuazione: avevo bisogno di convincermi, perché sapevo benissimo che non era vero.

      Ed infatti l'indomani presi subito il sentiero per il paese e non mi fermai finché non raggiunsi la villa.

 

     Se non fosse stato nel giardino, non so che cosa avrei fatto, forse me ne sarei andato, mi sarebbero venuti dubbi, ma lui c'era e mi vide subito. Si alzò e mi venne incontro, canticchiando:

      - Ecco qui 'l piccolo porcellin.

      Il mio piccolo porcellin…

      L'aria era quella di Siam tre piccoli porcellin ed io avrei voluto scomparire sotto terra. Mi pentii immediatamente di essere venuto. Abbassai la testa e bofonchiai:

      - Questa volta mi sono lavato bene.

      - Sciocco, non era il caso. Non te la prendere, sto scherzando. Vieni. Andiamo dentro.

      Mi guidò fino alla camera da letto. Una grande camera luminosa, con un letto matrimoniale. Pareti bianche, tende bianche leggere, che l'aria, entrando dalla finestra aperta, agitava: era una giornata di vento.

      Nella stanza provai una sensazione di frescura, gradevolissima per me, che avevo camminato a lungo sotto il sole di luglio.

      Si fermò in mezzo alla stanza e si voltò verso di me. Questa volta mi prese la testa tra le mani, la avvicinò alla sua e mi baciò sulla bocca. Del bacio del giorno prima non avevo un ricordo preciso, sapevo solo che c’era stato. Di questo invece a distanza di quarant’anni rammento ancora tutto, compreso l’odore di tabacco, perché lui doveva aver fumato poco prima. Non mi stupii quando la sua lingua si infilò tra le mie labbra: avevo sentito parlare di questa pratica, che al sentirla descrivere mi era apparsa orribile. Non fu orribile, ma un po’ ripugnante sì. Ripugnante e insieme attraente.

 

      Cominciò a spogliarmi. Mi rendevo conto di essere tutto sudato. Nell'ansia di arrivare avevo accelerato il passo. Forse era meglio chiedergli di fare una doccia. Glielo dissi:

      - Vuole che mi faccia la doccia?

      Mi vergognavo a essere così sudato.

      Lui scoppiò a ridere.

      - Non darmi del lei, sciocco. Ti sembra il caso?

      Scosse la testa, poi l’avvicinò alla mia e mi annusò, sorridendo.

      - No, va bene così. Questo sano afrore giovanile è molto stimolante.

      Non avevo la più pallida idea di che cosa significasse la parola afrore, ma se a lui andava bene così, non avevo niente da obiettare.

      Mi piacque sentire le sue mani che mi toglievano i vestiti, accarezzandomi. Quando fui nudo davanti a lui, fece scorrere due dita dalle mie labbra giù fino al collo, accarezzò i capezzoli, uno dopo l’altro, il ventre, scendendo di fianco all’uccello teso, fino ai testicoli, e poi passando dietro lo scroto e massaggiandomi con delicatezza. Poi, con l’altra mano mi attirò a sé e mi baciò con prepotenza, mentre le due dita continuavano a scorrere lungo il mio corpo, sul culo, tra le natiche, per poi risalire lungo la schiena.

      - Ora spogliami.

      Non sapevo da che parte incominciare, non avevo mai spogliato un uomo, né una donna, ma la voglia di imparare non mi mancava. Aveva un camiciotto, che sbottonai, scoprendo un torace con una leggera peluria intorno ai capezzoli. Le mie mani fecero scorrere il camiciotto oltre le spalle e lui lo lasciò cadere per terra. Era bellissimo sfiorarlo con le mani e scoprire, pezzo a pezzo, quel corpo.

      I pantaloni mi sembrarono un’impresa più impegnativa, non perché lo fossero realmente, ma per quanto celavano. Slacciai la cintura, sbottonai i diversi bottoni ed infine anche quelli finirono a terra. Notai allora che portava mutande basse in vita, non come quelle alte, che tutti avevano allora. Il giorno prima non lo avevo visto spogliarsi ed anche quando si era rivestito, non l’avevo quasi guardato, perché ero ancora troppo confuso.

      Il gonfiore sul davanti non lasciava dubbi su quanto mi aspettava e nuovamente, come il giorno prima, il vedere che anche lui era eccitato mi rassicurò.

      Esitai un attimo, perché l’ultima mossa era la più delicata, ma anche la più piacevole. Gli poggiai le mani sui fianchi, subito sopra le mutande, ed il contatto con la sua pelle fu piacevolissimo. Feci scivolare verso il basso le mutande, guardando affascinato il vigoroso attrezzo che emergeva. Non riuscivo a staccare gli occhi da quell’arnese.

      - Su, datti da fare.

      Che cosa dovevo fare, non me l’aveva detto, ma in un modo o nell’altro credevo di aver intuito. Mi chinai di fronte a lui, ma lui si allontanò e si sedette sul letto. Tese un braccio nella mia direzione, come un invito.

      Mi avvicinai a lui e mi fermai davanti al letto. Lui mi poggiò le mani sui fianchi, protese la testa in avanti e incominciò a succhiare.

      Si fermò prima che io fossi venuto. Mi fece stendere sul letto e lasciò che io glielo prendessi in bocca, mentre lui mi accarezzava. Mi lasciò lavorare un po’, poi mi allontanò da sé. Io non capivo quel riprendere e interrompere: ero appena alla seconda lezione del mio corso estivo e non sapevo nulla su come stimolare il desiderio. Ebbi comunque diritto ad una breve lezione teorica, che capii appieno solo con la pratica:

      - Non devi aver fretta.

      Riprendendo e interrompendo, il nostro gioco fu molto più lungo (e soddisfacente) di quello del giorno precedente, anche se finì in modo molto simile: entrambi bevemmo della stessa bevanda.

 

      Dopo rimanemmo stesi sul letto. Si accese una sigaretta e mi chiese.

      - Come ti chiami?

      - Ferdinando.

      Avrei voluto chiedergli come si chiamava lui, ma non me la sentivo di dargli del tu e non volevo dargli dei lei, visto che mi aveva detto di non farlo. Fu lui a cavarmi d’impaccio:

      - Io mi chiamo Giorgio. E così abbiamo fatto conoscenza.

      Ridacchiò. Poi aggiunse:

      - Quanti anni hai?

      - Quattordici.

      Tirò su la testa, fissandomi stupito.

      - Quattordici? Te ne avrei dati almeno due in più. Sei più alto di me.

      Poi si informò sulla mia famiglia: poche domande, in realtà non gli interessava sapere nulla. Mirava solo ad arrivare alla conclusione:

      - Mi raccomando, non parlare a nessuno di quello che abbiamo fatto.

      Per quanto inesperto, questa lezione l’avevo ben chiara in testa ed il suo avvertimento era del tutto superfluo.

 

      Tornai il giorno seguente e poi ancora quello dopo. Ogni giorno al momento di andarmene aspettavo che Giorgio mi proponesse di tornare e lui lo faceva sempre. In capo a pochi giorni divenne scontato che io sarei ritornato il giorno seguente. Nella camera da letto, in bagno, in cucina, persino in un angolo appartato del giardino Giorgio mi guidava alla scoperta di nuove possibilità ed io lo seguivo docile.

      Nella camera da letto imparai che il 69 non è soltanto un numero a due cifre, divisibile per 3. In cucina scoprii gli effetti di una lingua che ti scorre per tutto il corpo, una carezza umida che stordisce. In giardino ebbi una breve lezione introduttiva sul labile confine tra il dolore ed il piacere.

      Nei nostri giochi più volte Giorgio mi passava le dita o la lingua tra i fianchi, a volte stuzzicando delicatamente l’apertura tra le natiche, ma non fece mai un tentativo di penetrarmi. Io avevo la vaga sensazione di essere su una soglia e che prima o poi avrei dovuto varcarla: quelle poche informazioni che avevo sul sesso comprendevano confusi riferimenti ad altre pratiche, ma le mie conoscenze erano talmente generiche e la mia esperienza con Giorgio talmente concreta, che facevo difficoltà a collegare ciò che facevo con lui alle mezze frasi che mi era capitato di ascoltare. Se qualcuno mi avesse detto che Giorgio ed io eravamo due “invertiti”, come si diceva allora, mi sarei stupito, forse non avrei neppure capito. Non mi ponevo troppe domande, quell’esperienza era troppo stupefacente per farla rientrare nei miei schemi mentali e troppo reale per riuscire a definirla.

      Il mio corso estivo proseguiva benissimo, con reciproca soddisfazione. Non so se fossi portato o meno per la materia, di certo non avevo nessuna preparazione di base, ma mi impegnavo con assiduità: ero un allievo molto volenteroso e ogni giorno ero più rilassato e sicuro del giorno precedente. Non che non fossi ancora un po’ imbarazzato, ma avevo un’idea di che cosa mi aspettava e il mio maestro mi aiutava a mettermi a mio agio.

 

      Di solito mio padre ci raggiungeva nella prima settimana d'agosto. Due giorni prima mia madre tornava a Milano per chiudere casa, poi ritornavano insieme. Da due anni io e mia sorella rimanevamo al mare in quei due giorni: mia madre preferiva non averci tra i piedi quando doveva chiudere casa e ormai eravamo abbastanza grandi per rimanere due notti da soli, almeno a Laigueglia, dove avevamo molti amici e conoscenti.

      Quell'estate però mia sorella doveva ritornare a Milano per qualche affare di famiglia. Mia madre contava quindi che partissimo tutti e due, ma io m'impuntai: non ero più un bambino, potevo restare da solo a casa per due notti; perché dovevo perdere due giorni di vacanza, quando a Milano sarei stato solo d’impiccio? Sfoderai tutti gli argomenti a mia disposizione. Mia madre esitò, ma non vedeva davvero molti rischi e alla fine acconsentì. Si fece promettere solo che avrei telefonato ogni giorno e attivò la rete di vicini di casa, vicini d’ombrellone, amici e conoscenti: non avrei potuto sfuggire al loro controllo neanche se fossi stato un agente della CIA. Fortunatamente non avevamo il telefono in casa, perciò lei non poteva controllarmi direttamente (e per fortuna i cellulari erano di là da venire, altrimenti mi avrebbe telefonato dieci volte al giorno).

      Quando ebbi infine la certezza che sarei rimasto, lo dissi a Giorgio.

      - Venerdì mia madre e mia sorella tornano a Milano. Per due notti starò da solo.

      Giorgio mi guardò e rifletté un momento. Poi mi disse:

      - Bene, così potrai fermarti un po' di più.

      Fu una delusione. Ero sicuro che Giorgio mi avrebbe invitato a fermarmi a casa sua per la notte. O forse non proprio sicuro, ma ci contavo.

     

      Il venerdì mattina mia madre e mia sorella partirono ed io andai in spiaggia per evitare che la mia insolita assenza fosse notata dai vicini d'ombrellone, che l'avrebbero immancabilmente riferita a mia madre. Mi limitai ad andare via un po' prima, mangiai quello che mia madre mi aveva lasciato e subito dopo salii da Giorgio. Arrivai una buona ora prima del solito. Giorgio non era in giardino. Suonai e Giorgio scese.

      - Bene, ecco qui il mio uccellin di bosco, finalmente libero. Cenerentola non deve rientrare per mezzanotte. Vedremo se ti trasformerai in rospo!

      Mi ero ormai abituato alle battute di Giorgio e non me la presi. Entrammo in casa.

      - Bene, visto che abbiamo molto tempo, potremmo fare merenda. Sarai affamato dopo la salita.

      Avevo mangiato prima di partire e non avevo molta fame, anche se in quegli anni avevo un appetito formidabile. Un po’ perplesso, mi chiesi se Giorgio non mi offrisse da mangiare perché era sazio di altro. L’idea mi dispiacque, perché io non ero per nulla sazio: direi che ero diventato davvero vorace e quasi insaziabile. Si sa: l’entusiasmo dei neofiti.

          Non avevo nulla da temere.

      Sul tavolo di cucina, un vecchio solido tavolo di legno, Giorgio aveva preparato fragole e crema pasticciera. La crema mi piaceva molto e le fragole erano il mio frutto preferito: l'appetito mi tornò subito, ma Giorgio non aveva previsto una semplice merenda seduti ad un tavolo.

      Si mise una fragola tra i denti e si avvicinò a me, fino a che la fragola toccò le mie labbra. Io risi e cercai di rubargli la fragola. La difese a lungo, tirandosi indietro quando io stavo per addentarla, ed alla fine riuscii a portargliene via solo un morso. Allora Giorgio si tolse i sandali e la camicia e si spalmò un po' di crema sui capezzoli. Si distese sul tavolo e poggiò due fragole sulla crema. Io rimasi in piedi e prima leccai la crema intorno, poi morsi le fragole e i capezzoli insieme, strappandogli un gemito (ma mangiai solo le fragole).

      Finii di spogliare Giorgio e lui si spalmò di crema sul corpo, ancora sui capezzoli, sul ventre e sul sesso, mettendo qualche fragola sui punti strategici. Anch’io mi spogliai e, senza fretta (la teoria l’avevo imparata) completai la mia merenda.

      Poi Giorgio mi spalmò la crema sul corpo, come aveva fatto su se stesso, e a sua volta mi leccò e mi morse. Si fermò a lungo tra la crema e le fragole di cui aveva coperto il mio sesso e l'effetto dei suoi piccoli morsi e della sua lingua fu tale che insieme alla crema mangiò anche un altro ingrediente. Poi mi voltò sul ventre e mi mise un po' della crema che rimaneva tra le cosce.

      Arrivando avevo la sensazione che saremmo andati oltre quanto avevamo fatto fino ad allora, che quei due giorni non sarebbero stati solo una piacevole ripetizione, con qualche approfondimento, delle lezioni ricevute in precedenza.

         Non mi sbagliavo.

      La lingua di Giorgio lavorò a lungo tra i miei fianchi, poi le sue mani spalmarono altra crema, ma questa volta non si servì della lingua. Lo sentii stendersi su di me. Non ebbi paura, mi limitai a pensare: - Ecco, ora ci siamo.

      Io avevo le idee troppo vaghe per avere paura del dolore, perciò non ero teso. Giorgio entrò dentro di me con dolcezza e si fermò. Mi abituavo a quella sensazione nuova, non piacevole, ma neppure dolorosa, solo leggermente fastidiosa.

      Giorgio si mosse dentro di me, poi ci voltò entrambi su un fianco e carezzandomi provocò una nuova erezione, mentre spingeva con lentezza. Non mi spiaceva per niente sentire quella presenza vigorosa dentro di me. Per quanto fosse un po’ fastidioso, mi trasmetteva una sensazione di calore e di pienezza. E la sua mano mi faceva ardere.

      Poi Giorgio mi mise nuovamente a pancia in giù d incominciò a spingere ad un ritmo sostenuto. La presenza divenne allora dolorosa, ma non avrei saputo scindere quella sofferenza, non violenta, dal piacere che cresceva impetuoso.

          Venni poco prima di lui.

     

     Trascorremmo il pomeriggio nudi in casa, in un'intimità di carezze e baci che mi stordì. Sul tardi Giorgio mi prese nuovamente, questa volta sul letto. Poi ci rivestimmo e Giorgio mi riaccompagnò a casa.

      Tornai da lui nel pomeriggio seguente e ancora mi penetrò due volte, con una serie di variazioni sul tema che mi diedero i brividi. Tutto quello che avevo imparato fino ad allora mi sembrava irrilevante, di fronte a quanto stavo scoprendo. 

      Quella sera Giorgio mi disse di fermarmi a cena ed io andai in paese a telefonare a mia madre, poi ridiscesi alla villa.

      Stavamo cenando quando Giorgio mi disse:

      - Tra pochi giorni parto.

      Rimasi malissimo. Non avevo mai considerato la possibilità di una partenza di Giorgio all'inizio di agosto. In qualche modo davo per scontato che vivesse lì o che almeno vi trascorresse tutte le vacanze estive.

      - Non abiti qui?

      - No, sciocco, vengo qui in vacanza.

      - E non tornerai più?

      - Fino all'anno prossimo!

      Mi sentii perduto.

     

      In quegli ultimi giorni la nostra attività proseguì intensa, ma Giorgio mostrava una netta predilezione per le pratiche del fine settimana precedente ed io ero ben contento di ripassare quelle lezioni così importanti.

      Il venerdì infine Giorgio mi annunciò che la sua partenza sarebbe avvenuta il giorno successivo. Provai una profonda tristezza e un senso di vuoto. Giorgio non aveva ancora preparato i bagagli: l’avrebbe fatto in mattinata e poi se ne sarebbe andato. Non sapevo che cosa dire. A tratti avevo voglia di piangere.

 

      Senza Giorgio i miei pomeriggi si svuotarono di significato. Le passeggiate non avevano più senso, anche se le ripresi, se non altro per cercare qualche angolo isolato, in cui i ricordi e la mia mano mi consolavano un po' della mia perdita.

 

      Non ritornai più al paese di Giorgio, fino a una dozzina di giorni dopo, quando decisi di arrivare fino alla villa, non so perché.

      Dall'alto del viottolo vidi che la casa era aperta. Pensai che per qualche motivo Giorgio non fosse partito, ma poi riflettei che la casa doveva essere stata affittata a qualcun altro. Invece di scendere lungo la strada, presi un viottolo laterale e poi tagliai per le terrazze ed il bosco, in modo da arrivare al giardino di lato, senza essere visto. Spiai attraverso la siepe e vidi seduto in giardino un uomo, che doveva avere più o meno l'età di Giorgio. Quello era il nuovo inquilino.

      Rimasi a osservarlo un momento. A un certo punto lo vidi alzare la testa verso la casa e lo sentii chiamare:

      - Giorgio!

      Trasalii.

      Giorgio apparve all'ingresso.

      - Che c'è, Ottavio?

      - Viene qui.

      Giorgio si avvicinò, docile.

      - Cosa c'è?

      - Chinati.

      Non so che cosa gli disse nell'orecchio, ma Giorgio rise e rientrò in casa. L’uomo che si chiamava Ottavio si alzò e lo seguì.

      Io rimasi a guardare la casa. Poi presi una pietra e la lanciai contro i vetri della finestra della camera da letto, che era chiusa a metà. I vetri andarono in frantumi ed io corsi giù come un pazzo, senza cercare sentieri o strade, senza voltarmi per sapere se Giorgio si fosse affacciato.

 

2000

 

 

 

 

 

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