L'ultimo treno per Toronto

 

Ultimotreno5

Ad AncientNature

 

      Abraham si alzò con il mal di testa, come sempre gli accadeva quando il giorno prima aveva bevuto troppo. Reggeva bene l’alcol, non andava per le strade zigzagando, non si metteva a cantare, non sproloquiava. Ma il mattino dopo era un mal di testa feroce che lo schiacciava e un umore tetro. Non che abitualmente avesse molti motivi per essere allegro.

      Si guardò allo specchio. Vide la solita faccia, un po’ abbrutita dai postumi della sbornia, ma non ancora sfatta, come sarebbe stata nel giro di qualche anno.

      - Buongiorno, coglione! Soddisfatto della tua serata?

      La faccia allo specchio si limitò a restituirgli lo sguardo sarcastico, carico di odio, senza dire nulla.

      Abraham insistette:

      - Hai una faccia da coglione, lo sai? Un coglione rintanato in questa fottuta prateria, un coglione che voleva salvare il mondo e adesso è qui, a Salt Pond, pronto a fottere tutti i poveri della regione ed a leccare il culo ai potenti. Mi fai schifo, Abraham Schwarzen, mi fai proprio schifo! Lo sai?

      La faccia, nonostante fosse chiaramente furibonda, non disse di nuovo nulla e questo sembrò far imbufalire ulteriormente Abraham.

      - Stronzo, lurido stronzo. Crepa! Prima crepi, meglio è.

      A ventott’anni anche l’alcol ci avrebbe messo parecchio tempo ad avere la meglio di un fisico di ferro come quello di Abraham, ma la faccia annuì, in perfetta sintonia con l’originale, ed il consenso ottenuto calmò un Abraham non ancora del tutto lucido.

      - E adesso andiamo a prendere quell’altro stronzo…

      Abraham si bloccò, si morse il labbro con forza. Chinò il capo e aggiunse:

      - Scusami, Steve. L’unico stronzo qui sono io, lo so benissimo. È solo che vorrei che tu non mi vedessi così. Vorrei che tu rimanessi per sempre laggiù a Toronto, a realizzare i tuoi sogni, tutti i tuoi sogni, e ti dimenticassi di quello stronzo che era tuo amico e che adesso sprofonda nella merda, qui a Salt Pond.

      Un ghigno gli apparve sulle labbra.

      - Uno stronzo che parla da solo…

      Abraham non disse più nulla. Si preparò, vestendosi con cura, nonostante la morsa del mal di testa rendesse ogni movimento un’agonia. Quando fu pronto, si guardò ancora allo specchio, ritrovando lo stesso Abraham di due anni prima, non bello, questo no, lui bello non era mai stato, ma dalla faccia pulita, senza traccia della feccia che la vita degli ultimi due anni stava incominciando a depositare su di lui. Sì, così voleva andare incontro a Steve e tutto il resto poteva andare a fare in culo.

      Uscì e guardò il cielo. Una giornata tersa, senza una nuvola. In alto volavano alcune oche. Stavano tornando a casa. Anche lui era tornato a casa. No, lui era semplicemente fuggito da Toronto, come le oche in autunno erano fuggite dal gelo. Lui era in esilio, perché per lui la parola casa, senza Steve, non aveva senso. Ma nel fango e nella merda di quell’esilio sarebbe vissuto per sempre, fino alla morte.

 

      Il pennacchio di fumo della locomotiva spuntò in lontananza: il treno sarebbe arrivato in pochi minuti.

      L’aria fresca del mattino aveva un po’ addolcito il mal di testa, ma adesso era il cuore a stare male, battendo impazzito. Abraham scoprì d’improvviso che aveva voglia di piangere. Diede la colpa alla sbronza della sera prima, ma sapeva che stava mentendo a se stesso. E mentiva male. Non era abituato a farlo. Non ancora. Presto lo sarebbe stato. Molto presto sarebbe anche lui diventato abile a mentirsi, a dirsi che tutto andava bene così, che stava facendo il suo lavoro, che fare l’avvocato era un lavoro e non una missione e che il lavoro lo dà chi è in grado di pagare. Presto si sarebbe perfettamente adeguato a vivere in quel posto di merda.

      Il treno si stava fermando e per un momento Abraham desiderò, con tutto se stesso, che Steve non fosse su quel treno, che avesse cambiato idea, che fosse rimasto a Toronto, che avesse deciso di non mettere mai più piede in quel buco del culo del mondo di Salt Pond.

      Steve scese subito, posò il bagaglio sulla banchina e gli corse incontro. Si gettò tra le sue braccia e d’impulso Abraham lo abbracciò stretto, cercando di inghiottire le lacrime.

      - Dio, Abraham, quanto mi sei mancato.

      Abraham sentì la fitta al cuore e strinse forte Steve, tenendogli la testa sulla spalla, perché non vedesse che stava piangendo.

      Steve mormorò:

      - Così, Abraham. Stringimi così e dimmi che questi due anni non sono mai passati.

      Abraham riuscì a frenare il pianto. Si asciugò le lacrime con una mano e liberò Steve dalla stretta. Lo guardò in viso.

      Steve non era cambiato, forse portava i capelli un po’ più lunghi, che mettevano in risalto i suoi tratti regolari. Steve era sempre bellissimo, come Abraham se lo ricordava, emanava un fascino che incantava chiunque lo conoscesse. Un uomo così non poteva vivere che di bellezza e per tutti era naturale che Steve avesse deciso di dedicarsi all’arte.

      Un pittore, come dicevano scuotendo la testa gli uomini di Salt Pond, con un misto di disprezzo e commiserazione, come se fosse stata una disgrazia immeritata, capitata ad una famiglia per bene.

      Un pittore, come dicevano con ammirazione uomini e donne delle grandi città, che già incominciavano a conoscere il suo nome. Perché di talento Steve ne aveva da vendere e l’impegno che metteva nel suo lavoro lo aveva aiutato a crescere in fretta.

      Abraham capiva poco di pittura, ma nei quattro anni trascorsi a Toronto accanto a Steve, mentre studiava da avvocato, aveva potuto seguire il continuo lavoro di ricerca del suo amico, sempre teso a migliorare, ad apprendere. Non si era stupito di scoprire che il suo nome stava già diventando noto. 

      Steve lo guardava e Abraham ebbe l’impressione che gli occhi gli luccicassero. Non era strano. Erano sempre stati molto amici, fin da quando erano bambini. E avevano trascorso quattro anni insieme, condividendo un appartamento a Toronto. Steve a studiare pittura, Abraham legge.

      Abraham si rivide allora, ripensò ai suoi sogni di giustizia. Voleva essere un paladino della legge, combattere a difesa dei deboli. Ed era tornato a Salt Pond, a trattare cause miserevoli. Adesso, dato che era bravo, alcuni grandi proprietari avevano incominciato a rivolgersi a lui per qualche sporco affare, per fare quello che Abraham si era sempre giurato di impedire: spogliare chi aveva poco.

      Di nuovo Abraham desiderò che Steve non avesse deciso di trascorrere alcuni giorni a Salt Pond.

      Prese il bagaglio di Steve e lo mise sul calesse, poi si avviarono. Steve non aveva più una casa a Salt Pond, l’aveva venduta per pagarsi il viaggio in Francia, dove aveva lavorato con uno dei maggiori pittori del nuovo secolo.

      Abraham aveva fatto fare grandi pulizie e la casa era uno specchio. Steve non avrebbe potuto immaginare che abitualmente Abraham teneva con una certa cura solo la stanza che gli serviva da studio, in cui riceveva i suoi clienti, mentre tutto il resto era allo sfascio. Ma Abraham era tornato a Salt Pond per sprofondare ed aveva incominciato subito a farlo. Non nel lavoro, non ancora, per il momento la sua coscienza gli aveva impedito di sporcarsi le mani oltre una certa misura. Ma di sé e della sua casa Abraham aveva cura solo nella misura in cui era necessario per non perdere il lavoro, non ridursi alla mendicità. Un avvocato che puzza come un caprone nessuno lo vuole, ma se ha un aspetto decente, chi se ne fotte se la sua casa è un letamaio?

     

      Per Steve, Abraham aveva fatto preparare la camera dei suoi genitori, la più comoda di tutta la casa. Abraham portò il bagaglio di Steve in camera, anche se lui protestava che era in grado di portarlo da sé. Non era un grande bagaglio: Steve si sarebbe fermato solo quattro giorni. Abraham avrebbe voluto che quei fottuti quattro giorni fossero già finiti.

      Abraham si fece raccontare della Francia. Steve gli aveva scritto spesso durante il suo soggiorno in Europa e poi al suo ritorno a Toronto, ma Abraham aveva voglia di saperne di più. E soprattutto voleva evitare che Steve gli ponesse domande.

      La domanda arrivò, comunque, inevitabile, mentre camminavano lungo lo steccato dei Grandsons, là dove da bambini avevano giocato per ore, a metà strada tra le loro due case.

      Steve lo guardò in faccia e Abraham capì che era venuto il momento e che non sarebbe riuscito a scamparla.

      - Perché te ne sei andato, Abraham?

      Abraham alzò le spalle ed evitò con cura di rispondere. Si voltò a guardare verso il boschetto e disse:

      - Vieni, andiamo al lago delle oche selvatiche. Ce n’era uno stormo, ieri. Sono state le prime ad arrivare.

      Mai, in tutta la sua vita, Abraham aveva eluso una domanda di Steve in quel modo. Ma di rispondere non aveva proprio intenzione.

      Si incamminarono verso il laghetto e Abraham avvertì la distanza che si era creata tra lui ed Steve. Esisteva da tempo, ma Steve non sembrava essersene ancora accorto e quella mancanza di consapevolezza aveva creato una bolla al cui interno anche Abraham era stato risucchiato, per qualche ora.

      Già, c’era stato un tempo in cui si dicevano tutto, in cui non avevano segreti. Poi Abraham aveva incominciato ad averli, i segreti, perché lui non voleva bene a Steve come si vuole bene ad un amico. Non soltanto. Il suo corpo bruciava e il desiderio di Steve gli riempiva il cuore e l’uccello, gli offuscava la vista e lo rendeva sordo. Qualche cosa aveva cercato di dire, allora, quando ancora c’era una completa confidenza. Qualche cosa di vago, che Steve non aveva saputo – o voluto – capire. E poi Steve era partito per la Francia e Abraham era fuggito da una vita senza senso, perché Toronto avrebbe avuto senso se non ci fosse andato con Steve, ma dopo aver vissuto con lui quattro anni, non poteva rimanerci un minuto di più.

      Ora Steve aveva intuito l’esistenza di un fossato, che in realtà era un baratro. Steve era sull’orlo, impegnato a salire verso vette sempre più alte, e Abraham era in basso e spendeva non meno energie a sprofondare in un abisso infame. Ma Steve questo non poteva ancora vederlo, Abraham non voleva mostrarglielo.

 

     I quattro giorni furono un incubo interminabile. Steve non sembrava capire, gli parlava di sé, gli chiedeva dei suoi progetti, ricordava episodi e momenti del passato, interrogava Abraham su ogni aspetto della sua vita, si metteva a nudo senza vergogna, con la stessa sincerità disarmante con cui si era sempre rivolto ad Abraham.

      Ed Abraham si sentiva sporco, indegno di quella confidenza. Da un lato avrebbe voluto dirgli che cosa davvero stava diventando, per allontanare definitivamente Steve da sé. Dall’altra non voleva distruggere completamente i sentimenti che il suo amico provava per lui. Alla fine dei quattro giorni si sentiva uno straccio e aspettava solo che Steve salisse su quel fottuto treno e scomparisse per sempre, per correre via.

 

      Quando, la sera del quarto giorno, Abraham riaccompagnò Steve alla stazione, si sentiva come un prigioniero che sta per uscire dalla sua cella. Per finire diritto all’inferno, questo lo sapeva benissimo. Ma dentro la cella non reggeva più.

      Quando il treno si fermò, Steve gli disse:

      - Vieni su, per favore, Abraham.

      Abraham non aveva nessuna intenzione di prolungare oltre la sua agonia.

      - Non posso, non ho mica il biglietto.

      - Non ti preoccupare, ci penso io.

      Steve mostrò il biglietto e disse due parole al controllore, che li fece salire senza obiezioni. Steve entrò nel suo scompartimento.

      - Questo è il mio regno per una quindicina d’ore. Vieni dentro.

      Abraham rimaneva nel corridoio, desiderando solo scappare via, il più in fretta possibile, per correre a casa, attaccarsi alla bottiglia e bere. O forse per buttarsi nella pozza salata che dava il nome alla cittadina. La disperazione che montava dentro di lui gli toglieva il fiato, puzzava di morte, ma anche la morte era meglio di quello che stava vivendo.

      Steve passò nel corridoio, gli mise una mano sul braccio e lo trascinò dentro. Poi chiuse la porta e vi si appoggiò.

      - È meglio che scenda, Steve, tra poco il treno parte.

      - No, c’è tempo.

      - Macché tempo, senti. Cristo, stanno dando il segnale. Togliti, Steve.

      Steve sorrise e scosse la testa.

      - No, non mi tolgo. Sei in trappola, Abraham. Ti sto rapendo. Ho comprato un biglietto di sola andata per te.

      Sentirono le portiere che venivano chiuse. Steve sorrideva, ma c’era molta tensione in quel sorriso. Abraham era davanti a lui, ma non osava toccarlo.

      - Steve, che cazzo fai?

      Il treno incominciò a muoversi. Abraham vide che Steve si rilassava leggermente.

      - Tu vieni via con me, Abraham.

      Abraham annuì, torvo.

      - OK, hai tempo fino alla prossima stazione per spiegarmi che cazzo ti è venuto in mente, poi io scendo e...

      - La prossima stazione è fra tre ore. Abbiamo tempo. Abraham, perché sei partito?

      Abraham scosse la testa.

      - Sei tu che sei partito, Steve. La Francia, Cézanne, dovevi continuare il tuo percorso…

      - Sì, io sono andato avanti, anche se mi pesava partire, separarmi da te, ma ero sicuro di ritrovarti al mio ritorno. E tu di colpo sei fuggito via. Indietro a Salt Pond. E adesso i Wilson vogliono affidarti i loro affari.

      Abraham accusò il colpo. Non si aspettava che Steve sapesse. Ma non l’aveva mica tenuto sotto sequestro, non gli aveva impedito di parlare con altri. E adesso Steve sapeva. Merda! Merda! Merda!

      - Abraham, era altro quello che volevi, tu non sei l’uomo dei Wilson. Tu stai dall’altra parte.

      Il viso di Abraham era duro, ora, una rabbia che tracimava, a coprire lo squarcio della ferita.

      - Che cazzo ne sai, Steve? Che cazzo ne sai? Io sono questa roba qui, questo è il mio ambiente. Tu che cazzo c’entri?

      Abraham ebbe l’impressione che Steve impallidisse.

      - No, Abraham, tu non sei così.

      Abraham stava urlando, ora:

      - Che cazzo ne sai, Steve? Che cazzo ne sai?

      Quanto avrebbe retto ancora la rabbia, prima di sciogliersi nel pianto che gli premeva in gola? Doveva reggere, almeno fino alla prossima stazione. Tre ore. Doveva resistere tre ore. Steve era alle strette, ormai, gli aveva tolto il terreno sotto i piedi.

      Ma Steve aveva un’arma e, con un leggero tremito nella voce, la usò:

      - No, Abraham, l’uomo che amo non è così.

      Rimasero muti a guardarsi, Abraham una statua di sale, Steve spaventato, ma a ogni secondo che passava più sicuro della sua vittoria.

      Abraham scosse la testa.

      - Non lo ripetere, Steve. Non lo ripetere. Tu non sai chi sono.

      Ma anche lui non sapeva più chi era, ne era perfettamente cosciente.

      Steve si staccò dalla porta e gli si avvicinò. Quando i loro visi furono a una spanna di distanza, lo guardò. Era di nuovo un po’ spaventato. Abraham avvicinò la bocca a quella di Steve e le loro labbra si incontrarono, senza che tra i loro corpi vi fosse un altro contatto. 

      La bocca di Steve si aprì leggermente e Abraham perse completamente il controllo. Afferrò Steve e lo strinse a sé. La sua bocca incominciò a percorrere il viso, baciando le guance, la fronte, i capelli, scendendo sulle orecchie, sul collo, mentre le sue mani accarezzavano la testa di Steve e poi scivolavano lungo la schiena, fino a stringergli il culo.

      Abraham spinse Steve contro la porta e, premendo il suo corpo contro quello dell’amico, gli mordicchiò l’orecchio, la spalla, gli passò la lingua tra le labbra, fino ai denti, sfiorando l’altra lingua.

      Il contatto lo stordì. Vagamente una parte del suo cervello stava chiedendosi che cosa stava facendo in quel momento, ma non era in grado di darsi una risposta e il suo corpo, le sue mani, la sua bocca, nonostante l’inesperienza, sembravano sapere benissimo che cosa stavano combinando e non avevano nessuna intenzione di fermarsi.

      Le mani divennero impazienti, aprirono la giacca, sbottonarono la camicia, facendo saltare un bottone riottoso, si misero ad armeggiare con la cintura, superarono la resistenza della fibbia (l’unica ad opporsi, perché Steve faceva di tutto per assecondare gli sforzi di Abraham).

      Ora le mani di Abraham, dopo aver slacciato la cintura, lasciarono quel promettente campo di battaglia per risalire e accarezzare, prima bruscamente e poi con una dolcezza infinita, il petto di Steve, poggiandosi a conca sui capezzoli, poi risalendo ancora e regalando una carezza al viso.

      Le mani tremanti sulle guance di Steve, Abraham lo guardò negli occhi e mormorò:

      - Ti amo, Steve.

      Non aspettò una replica, non si preoccupò delle lacrime che sgorgavano, perché ne conosceva benissimo il significato, sapeva che la loro fonte era lo stesso gelo che lo aveva avvolto in quei due anni.

      Di colpo Abraham si chinò e sollevò Steve, prendendolo in braccio. Sorrisero entrambi, sapendo bene che era la loro notte di nozze e che era giusto che Abraham portasse il suo sposo.

      Lo appoggiò delicatamente sul letto. Lo guardò e gli parve di non essere più capace di stare in piedi.

      Sorrise, un sorriso smarrito e felice. Muovendosi con decisione sfilò a Steve scarpe e pantaloni. Esitò un attimo di fronte alle mutande, che rivelavano chiaramente l’erezione. Accarezzò con il palmo della mano la protuberanza che si ergeva promettente, ne gustò la tensione, la durezza, il calore. Guardò il viso di Steve, il sorriso. Con la mano strinse la carne attraverso la stoffa e Steve sussultò.

      Abraham sfilò delicatamente le mutande e non appena l’asta emerse dal tessuto, si chinò ad avvolgere con la bocca quella carne. Un gemito di Steve gli trasmise un brivido di piacere.

      Pensò che voleva dare piacere, che non voleva nulla per sé, ma solo trasmettere a Steve una particella di quella gioia che lo stava travolgendo. La lingua accarezzò delicatamente la punta dell’asta che le sue labbra stringevano e il corpo di Steve vibrò di nuovo.

      Abraham avrebbe voluto gridare il suo amore, ma la sua bocca non poteva lasciare quella carne. Le sue mani accarezzavano il corpo di Steve, mentre la lingua e le labbra stuzzicavano la picca tesa ormai allo spasimo.

      - Abraham, sto per venire.

      Abraham non mollò la presa. Il seme gli riempì la bocca ed Abraham cercò di inghiottire, ma fu alla fine costretto a rinunciare, perché il getto era troppo abbondante.

      Guardò lo spargersi del seme sul ventre di Steve, mentre la sua mano accarezzava quel corpo nudo.

      Le dita raccolsero il seme sparso sul torace e sul ventre di Steve, scesero ad accarezzare ancora l’asta e poi i testicoli, stringendoli delicatamente. E allora Abraham si chinò a baciare Steve sulla bocca.

      Steve gli afferrò la giacca e cercò di sfilargliela. Non era nella posizione adatta per la manovra, perché il corpo dell’amico che premeva su di lui gli lasciava poca libertà di movimento, ma Abraham lo aiutò. Dopo la giacca fu il turno della camicia. Abraham si staccò per permettergli di toglierla, ma quando Steve l’ebbe aperta, le sue mani si bloccarono. Steve guardò l’ampio torace di Abraham, accarezzò la peluria scura che lo copriva e poi afferrò la carne, stringendo con forza.

      Abraham sorrise. La violenza del proprio desiderio ora lo stordiva. Ma non riusciva a muoversi, timoroso di quello che avrebbe potuto fare, certo che avrebbe perso ogni controllo.

      Steve gli sorrise e gli disse:

      - Spogliati!

      Abraham annuì, ma non si mosse. Steve allora scivolò a terra e si inginocchiò ai suoi piedi. Gli prese uno stivale e glielo sfilò, appoggiandolo contro il proprio corpo. Ed in Abraham si destavano sensazioni confuse e contraddittorie, un vago desiderio di calpestare quel corpo, di piegarlo, ed una paura di fare male, un timore reverenziale di fronte a quella bellezza.

      Steve gli sfilò l’altro stivale, poi gli slacciò la cintura, ma non gli calò i pantaloni. Si limitò ad accarezzargli ancora il torace, e il ventre, facendo scivolare le punte delle dita tra il pelame nero.

      Poi Steve si alzò. Anche Abraham si alzò e rimasero un attimo in piedi, uno di fronte all’altro, timorosi.

      Fu Steve a rompere l’incantesimo. Come un movimento rapido fece scivolare pantaloni e mutande di Abraham a terra e sorrise, ma quando il suo sguardo si fermò sul palo di carne, che batteva, imponente e infuocato, contro la peluria più densa del basso ventre, ebbe un attimo di smarrimento.

      - Stenditi sul letto, Steve.

      Steve annuì, la gola secca. Deglutì. Si stese sul letto, a pancia in giù, senza che Abraham glielo avesse detto. Ma sapevano entrambi che era quello che volevano, l’uno e l’altro, pur temendolo.

      Abraham guardò quel culo che desiderava più di ogni altra cosa al mondo. Per possederlo una volta sola avrebbe dato la sua vita, ma non il dolore di Steve, perché a lui Abraham non voleva provocare sofferenza.

      Abraham accarezzò le cosce, poi le sue mani si spostarono verso l’interno, afferrarono le natiche e i pollici percorsero il solco che le divideva.

      Capì che non era più in grado di dominarsi. Senza riflettere, chinò il capo e morse quella carne calda, strappando un gemito a Steve. La reazione stimolò il suo desiderio e morse ancora e ancora, spinto dal piacere e dalla sofferenza che quei gemiti trasmettevano.

      La sua bocca si avvicinò al solco e la sua lingua lo percorse. Si fermò sull’apertura, la inumidì.

      Poi le parole gli uscirono, rudi e violente come i suoi movimenti non sapevano essere, quasi a compensare sulla bilancia del piacere la tenerezza che ogni suo gesto trasmetteva.

      Abraham si distese su Steve. Guardò il proprio sesso grande e rigido appoggiato sul culo dell’uomo che amava, rise, arretrò leggermente i fianchi e avvicinò l’arma all’apertura.

      Entrò con delicatezza, assaporando il calore che lo avvolgeva e che dalla cappella si diffondeva in ogni fibra del suo corpo. Sentì la propria forza moltiplicarsi mentre l’arma affondava nella carne di Steve, strappando un gemito, che era, Abraham lo sapeva, di piacere non meno che di dolore per quell’invasione.        

      Steve gridò:

      - Abraham!

      Abraham gli morse con forza una spalla, lasciandogli il segno dei denti. Poi spinse ancora in avanti, fino a che i loro corpi non aderirono completamente. Rimase un buon momento così, sospeso in uno spazio senza limiti in cui non esistevano più l’incessante movimento del treno, il suo sferragliare continuo, la luce dello scompartimento, ma c’erano solo i loro due corpi avvinghiati, c’era solo un piacere assordante ed accecante, che devastava il suo corpo e quello di Steve, di questo era sicuro, perché entrambi erano spersi nell’infinito.

      Il piacere divenne incontenibile e Abraham ritrasse la sua arma e la spinse nuovamente in avanti, ancora delicatamente, e una seconda volta con più decisione e poi sempre più forte, guidato ormai solo dall’arma che penetrava fino in fondo per poi ritrarsi.

      Infine l’esplosione avvenne, tanto violenta da accecarlo. Spinse ancora e gli parve di penetrare in quel corpo a una profondità impensabile, mentre una forza sovrumana lo scagliava lontano.

      Gli uscì un verso animale, mentre Steve urlava il suo nome e Abraham capì che erano venuti insieme.

 

      Più tardi, quando i loro corpi si furono incontrati altre volte e i loro sensi furono completamente appagati, giacquero a lungo distesi uno contro l’altro, il corpo possente di Abraham che stringeva quello di Steve, i loro visi vicinissimi.

      Abraham gli passò un dito dalla fronte al mento, sorridendo.

      Poi disse.

      - Rapito una sera con l’inganno, senza neanche la possibilità di chiudere casa…

      - Tanto in quella casa non ci torni.

      - Senza bagaglio, senza una camicia di ricambio o un paio di mutande.

      - Ti compri quello che vuoi a Toronto, ti do io il denaro. La mostra a Brenton Square è stata un successo. Non ho problemi di soldi. Me li restituisci con prestazioni in natura…

      Il sorriso malizioso non stonava sulla faccia di Steve. Era un altro aspetto di lui, che in fondo non sorprese Abraham.

      - Senza un lavoro. Costretto a prostituirmi per sopravvivere. Alla mercé di un individuo immorale e

      Abraham esitò un attimo, alla ricerca del termine più appropriato e Steve non gli permise di concludere.

      - Ho incontrato Chester, mi ha chiesto di te. Si era stupito che tu fossi scomparso nel nulla. Io gli ho detto che stavi per tornare a Toronto. Mi ha raccomandato di dirti di passare da loro, hanno bisogno di un avvocato in gamba.

      Alla Chester & Marions Abraham aveva fatto pratica e si era trovato molto bene. Rimase un attimo interdetto. Steve proseguì:

      - È stata la molla che mi ha spinto ad agire subito. Ma l’avrei fatto comunque. A Salt Pond non ti lasciavo, bestia! Su questo treno ci salivi, a costo di legarti e caricarti a forza.

      Abraham sorrise. Guardò fuori dal finestrino. Albeggiava. Nel cielo che impallidiva le oche volavano alte, in formazione.

      - Tornano a casa – disse Abraham.

      - Come noi.

      Sì, l’esilio era finito, per entrambi, perché anche per Steve era stato un esilio, questo ora Abraham lo capiva.

          Stavano tornando a casa.

 

2007

 

 

 

 

 

 

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