L'orca

 

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      - Cristo santo, ci mancava solo questa! Proprio quello di cui avevo bisogno!

      Hans Brausen, il capocantiere, era furibondo. Appallottolò la lettera e la gettò per terra.

      La moglie lasciò che la collera sbollisse un poco: sapeva che era preferibile non intervenire subito. Quando vide che il marito si era un po' calmato, disse:

      - Il mio intuito femminile mi dice che hai ricevuto cattive notizie. O sbaglio?

      Hans la guardò sorridendo. Sua moglie sapeva sempre trovare il modo di calmarlo: la sua ironia, la sua dolcezza, avevano facilmente ragione della rabbia che a volte lo prendeva. Non era un caso che il loro matrimonio avesse resistito così bene all'usura del tempo e alle inevitabili contrarietà che la vita aveva provveduto ad inviare loro, in quantità più che sufficiente.

      - Arriva un nuovo operaio.

      Magdalena lo guardò, inarcando le sopracciglia. Sapeva benissimo che due braccia in più sarebbero state utili al cantiere e che quindi il problema era un altro.

      - Ma...?

      - Ma è un figlio di papà che ha combinato qualche guaio, che non farà nulla, se non annoiarsi e seminare zizzania e ne abbiamo già avuto più che abbastanza. Proprio adesso, con un nuovo inverno alle porte.

      L'inverno precedente era stato duro. Si lavorava poco nella stagione fredda, le ore di luce erano troppo poche. Qualcuno degli operai se ne andava al nord, ma alcuni lavori dovevano essere proseguiti anche in inverno. Quei cinque-sei operai che rimanevano erano rosi dalla noia: in un'isola deserta, senza altri esseri umani, come dargli torto? Nelle interminabili serate le liti erano frequenti e Hans doveva far ricorso a tutta la sua autorità per evitare che degenerassero. La mancanza di un centro abitato sull'isola presentava almeno un vantaggio: la quantità di alcolici che gli operai potevano bere era rigorosamente controllata e questo aiutava.

      L'arrivo di uno sfaccendato avrebbe creato tensioni: gli operai non avrebbero visto volentieri qualcuno che non lavorava e prendeva il loro stesso salario.

      - La lettera non altre informazioni?

      Hans alzò le spalle, raccolse il foglio che aveva gettato, lo distese e lo rilesse.

      - Nulla. Farlo dormire a parte, tenerlo sotto controllo. Ho l’onore di beccarmelo io perché sono il miglior capocantiere della compagnia, bontà loro, e con me non corre rischi.

      Alzò la testa e guardò la moglie.

      - Dev'essere un bel figlio di puttana, ma non si capisce che cosa ha combinato.

      Riprese a leggere.

      - Farlo lavorare e trattarlo con i guanti, perché è figlio di un pezzo grosso-che-più-grosso-non-si-può, un amico del proprietario. Sì, amico, come l'orca lo è della foca.

      - Non c'è scritto proprio così, vero?

      Hans sorrise di nuovo, ormai rappacificato con la cattiva notizia.

      - No, non c'è scritto così, ma il senso è questo. E il risultato è che, non potendo io prenderlo a calci in culo, quello non farà niente di niente, gli operai mugugneranno, l'inverno sarà ancora peggiore del precedente e...

      - E l'ottimismo è sempre stato il tuo forte. Aspetta di averlo visto, prima di fasciarti la testa.

      Hans la guardò con tenerezza, la prese per la mano e la forzò a sedersi sulle sue ginocchia.

      - Tu bada solo a non stargli troppo vicina, o con quel tipo i guanti li userò per strangolarlo, senza lasciare tracce.

      Magdalena sorrise. Sapeva benissimo che mai Hans avrebbe dubitato di lei. Come sapeva benissimo che sarebbe stata incapace di tradirlo.

      - Quando arriva?

      - Con il prossimo battello che verrà a rifornirci di materiali, quindi tra quindici giorni.   

      Hans tacque un attimo, poi aggiunse:

- È il primogenito di Pedro Radoso, i Radoso di Talca.

Magdalena lo fissò, ammutolita. I Radoso erano noti a tutti, una delle famiglie più ricche del Cile; Pedro Radoso aveva fatto da padrino al figlio del Presidente della Repubblica e le sue proprietà erano sconfinate. Che ci veniva a fare lì suo figlio, come semplice operaio?

 

      Quando, durante la cena, Hans annunciò che pochi giorni dopo sarebbe arrivato un nuovo operaio, gli altri capirono subito che c'era puzza di bruciato. L'estate volgeva al termine e nuovi operai alla fine della stagione non era certo uso assumerne.

      - Ci dica qualche cosa di più di questo nuovo acquisto.

      Manuel Herrera ghignava e il suo ghigno era, come sempre, contagioso: Hans vide che si stava stampando anche sulle facce degli altri.

      - Vi dico subito che dovete trattarlo con i guanti o perdete il posto e non vi faccio più entrare qui dentro, neanche per dormire.

      Ci furono subito alcune domande:

      - Un signorino, dunque?

      - E che ci fa qui?

      Hans rispose, a muso duro:

      - I cazzi suoi e voi vi fate i cazzi vostri, capito?

      - Agli ordini, generale!

      Tutti scoppiarono a ridere. L'autorità di Hans Brausen era indiscussa e gli operai riconoscevano in lui un ottimo capo, intelligente e attento. Gli volevano bene e lo rispettavano, ne apprezzavano l'ironia e lo ripagavano di uguale moneta. Era un rapporto sereno, che solo le ombre del lungo inverno sembravano incrinare.

      - Come si chiama, il damerino?

      Hans fulminò Manuel con un'occhiata e gli disse:

      - Si chiama Enrique Radoso.

      - Mica parente dei Radoso di Talca, quelli che posseggono metà della provincia del Maule?

      Manuel aveva pronunciato la frase ridendo. Una battuta.

      - Sì, proprio loro. Il primogenito di Pedro Radoso.

      Il tono di Hans era inequivocabile: il capocantiere non stava scherzando. Si guardarono stupiti. Ci volle un attimo prima che Manuel chiedesse:

      - E che cazzo viene a fare qui?

      - A lavorare.

      - Lavorare, quelli? Quelli lavorano solo a contare soldi.

      - Lavorare o no, verrà qui e con questo abbiamo chiuso.

      Gli operai si guardarono divertiti e incuriositi. Tutti aspettavano di vedere questa meraviglia. Un Radoso di Talca all'estremità meridionale del Cile, manovale nell'impresa che costruiva fari lungo la costa! Questa poi! Non era possibile. Non sarebbe mai arrivato. Doveva essere uno scherzo.

 

      Il Radoso di Talca arrivò con il battello successivo. Con la scusa di scaricare il materiale, tutti gli operai lo osservarono con cura: un ragazzo alto, magro, capelli nerissimi e occhi chiari. Non più di vent'anni. Chiaramente imbarazzato. Ridacchiarono tutti, dicendosi che ci avrebbero pensato loro a farlo divertire. Ma non erano tanto convinti. Con un Radoso bisognava andarci piano. Lo avrebbero studiato un po', prima, ai pasti. Di certo in altre occasioni non si sarebbe visto. Quello sarebbe rimasto a dormire fino a mezzogiorno, poi sarebbe andato a spasso, per tornare solo a mangiare. E d'inverno se ne sarebbe stato al caldo tutto il giorno, mentre loro avrebbero faticato al gelo.

      Il giovane individuò il direttore e lo salutò, poi rimase fermo ad aspettare che questi avesse finito di dirigere i lavori di scarico. Sembrava non sapesse cosa fare di se stesso. Gli operai cominciarono a mormorare.

      - Cominciamo subito bene, non muove un dito.

      - Tra un po' chiederà a qualcuno di noi di portargli la valigia.

      Quando le operazioni ebbero termine, Hans guidò il ragazzo all'alloggiamento. Era nuovamente irritato, perché aveva vagamente sperato che il Radoso non arrivasse. E vederlo non fare niente, mentre tutti loro scaricavano, gli aveva dato fastidio.    

      - Lei dormirà qui, in un angolo della stanza comune. Non abbiamo molti spazi e non posso offrirle di meglio.

      Il ragazzo colse l'irritazione di Hans e lo guardò diritto negli occhi. Poi parlò.

      - Mi scuso per il fastidio che le procuro: mi rendo benissimo conto che non sa che farsene di un operaio privo di esperienza. Non è stata una mia scelta. Farò tutto il possibile per imparare il lavoro e per farlo come meglio riesco.

      Hans fu colpito da quelle parole. Non si era aspettato niente del genere.

      - Quando intende cominciare a lavorare?

      - Subito.

      Hans lo guardò. Era disorientato. Va bene. L'avrebbe messo alla prova.

      - Venga con me.

      Lo portò al cantiere. Chiamò uno degli operai anziani.

      - Raul, il ragazzo comincia a lavorare subito. Non ha esperienza, ma imparerà.

      Raul Mendoza era la persona adatta. Paziente, meno pronto degli altri a prendere in giro.

      Hans tornò all'abitazione e si mise a registrare i materiali arrivati e sistemare i conti. Quando ebbe finito, tornò al cantiere. Era passata un'ora.

      Enrique Radoso stava lavorando come gli altri.

      A tavola Enrique non disse una parola e nessuno degli operai gli parlò. Dopo aver mangiato uscirono e ripresero tutti a lavorare. Hans tenne d'occhio il ragazzo. Lavorò tutto il pomeriggio, senza alzare la testa, senza interrompersi, anche se man mano che passava il tempo era sempre più evidente che era stremato. La sera faceva fatica a reggersi in piedi e Hans pensò che il pane se l'era guadagnato.

 

      A letto, nella cameretta a fianco della sala comune, Magdalena si stava spogliando.

      - È andata bene.

      - Come fai a dirlo? Sei stata tutto il giorno qui dentro.

      - Gli operai non hanno detto niente. Sembrano tutti stupiti e confusi. Il ragazzo non si è comportato come loro si aspettavano. Deve aver lavorato parecchio, perché a cena era stravolto e gli si chiudevano gli occhi. Tu sei contento, non lo negare.

      - Sì, se continua così non ci saranno mugugni. Non ha esperienza, ma sembra avere buona volontà. Se regge...

 

      Enrique sembrava reggere. Il fisico era abbastanza robusto, anche se evidentemente non abituato a un lavoro pesante come quello del muratore. La volontà era di ferro. Quei primi giorni c'erano dei momenti, soprattutto verso sera, in cui sembrava essere sul punto di crollare, ma non si lamentava e non smetteva mai di lavorare. Alla fine della giornata era così stanco che poco dopo cena si stendeva sul suo giaciglio nell'angolo della stanza e si addormentava, anche se gli altri continuavano a far rumore.

      Quattro giorni dopo il suo arrivo, dopo che Enrique si era steso sul suo giaciglio e si era addormentato, Manuel disse quello che pensavano un po' tutti:

      - Quello è un Radoso di Talca come io sono l'imperatore di Germania.

      Raul replicò subito:

      - Il manovale non l'aveva mai fatto e nemmeno un altro lavoro pesante.

      - Sì, ma quelli hanno tutti la puzza sotto il naso. Se fosse così non si sarebbe messo a lavorare con noi.

      - Quelli stanno su un altro pianeta.

      - Beh, anche questo non è che con noi parli molto.

      - Sì, ma non sembra avere la puzza sotto il naso.

      - Direttore, ma è sicuro che è un Radoso, di quelli di Talca?

      Hans annuì. Anche lui era perplesso, non sapeva che cosa pensare. In fondo un operaio in più era il benvenuto, se aveva voglia di lavorare: se era inesperto, non era un problema. Avrebbe imparato.

      Allora intervenne Magdalena. Magdalena parlava molto raramente, quando erano tutti insieme, ma quello che diceva contava. Huasco diceva che le sue parole avevano il peso del piombo e il valore dell'oro.

      - Non so che cos'è, mi sembra che voglia essere considerato un operaio alle prime armi e nient'altro. Forse parla poco perché aspetta che qualcuno gli dimostri un minimo di simpatia, gli porga la mano, ma non mi sembra che nessuno gli abbia dato un dito.

      Ci fu un silenzio. Abbassarono tutti gli occhi, improvvisamente consci del proprio comportamento. Un nuovo collega non sarebbe stato accolto così, con quella diffidenza, quella freddezza. Gli avrebbero parlato, chiesto da dove veniva, avrebbero scherzato. Con Enrique no, lo guardavano lavorare e basta, sembrava che nemmeno lo vedessero. Lo disse per tutti Mario, l'italiano:

      - A un cane, una carezza l'avremmo fatta. A un cane.

      Manuel aggiunse:

      - Manco fosse trasparente.

      Nessuno replicò. Andarono a dormire con una sensazione di disagio, cercando di non fare rumore, come se avessero paura di svegliare Enrique.

     

      Magdalena aveva ragione, come sempre. Il mattino dopo Manuel ruppe il ghiaccio, rivolgendosi al ragazzo mentre facevano colazione.

      - Senti, visto che sei arrivato da poco, ascoltami: che non mi senta il capocantiere, che è una bestia, ma devo dirti una cosa.

      Hans sorrise alla frase di Manuel, detta sotto il suo naso. Enrique aveva colto lo scherzo ed anche lui sorrise, un sorriso insicuro, forse un po' spaventato: Hans pensò che il ragazzo stava chiedendosi se Manuel intendeva ridere insieme a lui o di lui.

      - Che cosa?

      - Tu, per diventare un buon muratore, devi imparare un segreto importante, perché non lo sai ancora. Finché non lo conoscerai, sarai un buono a nulla.

      - E qual è questo segreto?

      - Vedi, ma che non ti scappi mai davanti al capocantiere, che è una bestia, come ti dicevo, si tratta di imparare il ritmo giusto. Tu lavori con il ritmo sbagliato.

      - Qual è il ritmo giusto?

      Enrique non capiva.

      - Il ritmo giusto è un-due-tre; un-due-tre.

      - Un valzer?

      - No, no! È così: lavoro, lavoro, faccio finta; lavoro, lavoro, faccio finta. Sposti due travi e poi fai finta di accorgerti che una va presa dall'altra parte o vai a controllare che quella che hai appena posato sia a posto. Insomma, ti prendi un momento di pausa, se no schiatti.

      Hans intervenne:

      - Se prendi lezioni da quello lì, avrai anche tu diritto a un supplemento di paga, come quello che lui si prende regolarmente.

      Manuel si limitò ad alzare le sopracciglia. Enrique chiese:

      - E sarebbe?

      - Due calci in culo.

      Tutti risero, compreso Enrique, sollevato e contento.

      No, non sembrava proprio venire da un altro mondo.

 

      Da quella mattina gli operai cominciarono a parlare con Enrique, a dimostrargli interesse e simpatia. Il ragazzo si rivelò subito cordiale, sembrava grato di ogni parola gentile: quei giorni di silenzio dovevano essergli pesati non poco.

      La sua storia venne fuori, incompleta, ma sufficientemente chiara. Aveva finito gli studi superiori ed era entrato all'università. Suo padre si era infuriato con lui, per un motivo che Enrique non spiegava, ed Enrique gli aveva tenuto testa. Il padre aveva deciso di sbatterlo in quell'angolo sperduto perché imparasse che cosa significava guadagnarsi il pane con il lavoro delle proprie mani. Si era rivolto al proprietario della compagnia che costruiva i fari e aveva ottenuto che Enrique fosse mandato all'estremità meridionale del paese, in un posto isolato. Era sicurissimo di piegare la volontà del figlio.

      Quella sera, in camera, Hans notò che Magdalena era pensierosa.

      - Che cos'hai?

      - Penso al ragazzo. Che cosa avrà combinato?

      - Mah, forse ha idee politiche che suo padre non apprezza. Magari è comunista.

      - Non l'avrebbe mandato qui in compagnia di operai. Non so.

      - Non è affar nostro.

      - No, è vero. Comunque quell'uomo ha fatto un errore. Enrique non si piegherà mai. Qui conquisterà soltanto più forza.

     

      Ora durante i pasti gli operai coinvolgevano anche Enrique, che rispondeva a tono. Non parlava molto, era evidentemente riservato di natura, ma non sembrava mai volersi mettere al di sopra degli altri.

      In capo ad un mese, mentre l'autunno avanzava, aveva sviluppato una buona resistenza alla fatica e la sera non crollava più subito dopo cena.

 

      L'inverno arrivava, la giornata lavorativa si riduceva, ma la fatica aumentava: lavorare all'aperto, con il freddo intenso che penetrava nelle ossa e il vento gelido a cui era impossibile sfuggire, era un tormento continuo. La sera erano tutti esausti e ci voleva parecchio prima che riuscissero a ritrovare un po' di calore.

      La tensione cominciava a salire. Non era successo niente, non ancora, ma Hans era vigile. Presto qualche cosa sarebbe successo. Una partita a carte interrotta, un'accusa di aver barato, una battuta pesante... Ciò che d'estate avrebbe provocato qualche risata o sarebbe stato smorzato dalle battute dei compagni, diventava un'offesa mortale. Allora nella stanza regnava un silenzio torvo e carico d'attesa, che sembrava chiedere sangue.

      In altri cantieri, con capi meno attenti di Hans, il sangue era stato sparso più di una volta e qualcuno era stato caricato sul battello di rifornimento in una scatola di legno, i piedi in avanti. Con Hans, cose veramente gravi non si erano mai verificate. Ma l'inverno era una lotta continua.

      Una sera, dopo cena, parlavano intorno al tavolo. Mendoza raccontò la storia di un suo compagno che affermava di aver visto un fantasma. Qualcun altro parlò di fantasmi, di uno che in un palazzo aveva visto una donna, che le aveva parlato, ma poi era risultato che la donna era morta da tempo. E lui era impazzito.

      Enrique intervenne:

      - Sì, ho letto una storia del genere in un libro, ma non finiva così.

      - Raccontacela.

      - Ma no.

      - Dai, che passiamo la serata.

      Enrique cominciò a raccontare. Inizialmente era molto incerto, si guardava intorno per vedere la reazione degli altri, temeva evidentemente di annoiare. Vedendo che tutti lo seguivano con attenzione crescente, acquistò una maggiore sicurezza.

      Quella sera, nella loro cameretta, Magdalena si strinse ad Hans.

      - Quel ragazzo sarà la nostra benedizione, quest'inverno.

      - In che senso?

      - Sa raccontare storie. Lo faremo raccontare. Passeremo le serate.

      Hans era un po' dubbioso, ma sapeva, per esperienza, che Magdalena non si ingannava.

 

      La sera successiva Magdalena chiese ad Enrique se aveva voglia di raccontare una storia più lunga, tanto li aspettavano molte sere da trascorrere nella stanza comune.

      Di nuovo Enrique si schermì. Non era una posa, aveva proprio paura che gli altri non avessero voglia di sentire le sue storie.

      - Non so se interessa, non vorrei...

      Fu interrotto da un coro di incoraggiamenti:

      - Sì, dai, una come quella di ieri sera, una bella storia di fantasmi, dai.

      Enrique ci pensò su un momento, poi cominciò a raccontare. Parlò a lungo e nella stanza c'era un silenzio perfetto. Il tempo passava e si faceva tardi. Hans intervenne:

      - È una bellissima storia, domani Enrique ci racconta il resto. Adesso è ora di dormire.

      Era molto più tardi del solito, ma più d'uno protestò. Si acquietarono solo quando Enrique disse che la storia era molto lunga e che non avrebbe potuto finire il racconto quella sera. Andarono a letto facendo commenti, contenti e tranquilli.

      La sera successiva, alcuni avrebbero voluto che Enrique riprendesse la storia già prima di cena, ma Magdalena disse che voleva sentire anche lei e che quindi, quanto a storie, se ne sarebbe parlato solo dopo che avevano finito di sparecchiare. Poteva sentire mentre risistemava, non mentre preparava da mangiare.

      Hans apprezzò la saggezza della moglie: la storia sarebbe durata più sere e, interrotta ed alternata ad altro, non avrebbe annoiato.

      Così, il tempo prima di cena veniva speso in partite a carte, chiacchiere e varie attività, qualche piccolo litigio; dopo cena regnava la pace delle storie. Enrique sembrava averne una riserva infinita.

      Quell'inverno le tensioni furono ridotte e Hans faticò meno del solito a mantenere sotto controllo la situazione. Pensò che, come sempre, Magdalena aveva avuto ragione. E che Enrique era un dono del cielo. E un mistero.

      A tutti l'inverno apparve più breve. Le sue ombre furono meno scure e la casa rimase un porto sicuro, un'oasi di calore e di pace.

 

      A primavera arrivarono due lettere e Olaf Øden.

      Le due lettere erano una per Hans e una per Enrique. Quella per Hans richiedeva una relazione precisa sul comportamento di Enrique durante il periodo trascorso, con una serie di domande che infastidirono Hans. Ma il tono usato dal datore di lavoro non lasciava spazio al minimo tentennamento: occorreva rispondere con cura a ogni domanda e Hans lo fece, con un oscuro senso di colpa, come se stesse tradendo Enrique; anche se su Enrique non aveva rivelazioni da fare.

Che cosa contenesse la lettera per Enrique, nessuno lo seppe mai, perché, dopo averla letta in riva al mare, la stracciò in minuscoli pezzettini e lasciò che il vento trascinasse quei frammenti lontano, a perdersi in acqua. Poi rientrò in casa, gli occhi arrossati, cupo e chiuso in se stesso. La sera nessuno gli chiese di raccontare una storia, ma tutti cercarono, chi con una pacca sulla schiena, chi con un sorriso, chi con una battuta, di dirgli che gli volevano bene.

      Quanto a Olaf Øden, lo conoscevano benissimo: era il miglior elettricista della compagnia e veniva a sistemare l'impianto del faro e a installare la grande lampada. Il faro era quasi ultimato ed entro settembre la squadra avrebbe completato anche i due edifici destinati ad ospitare i soldati, perché era previsto un presidio militare. Poi alcuni sarebbero andati a nord a cercare lavoro per l'inverno, altri si sarebbero trasferiti su un'isola più a sud per dare inizio alla costruzione di un altro faro. Olaf avrebbe lavorato con loro fino a luglio.

      Olaf era un gigante biondo, un cileno vichingo, come amava dire, figlio di genitori norvegesi, arrivato a Santiago con i suoi quando aveva dodici anni.

      Come sempre, Olaf aveva bisogno di un aiutante e Hans gli assegnò naturalmente Enrique. Enrique era intelligente e istruito ed era la scelta migliore.

      Quella sera stessa, Olaf si rivolse a Hans, in un momento in cui gli operai erano ancora in maggioranza fuori, e gli chiese:

      - Il mio assistente, dove diavolo l'hai scovato? Che ci fa uno così qui? Non il muratore, di certo. Ne sa più lui di elettricità di tutti quelli con cui ho lavorato in sedici anni e prima che abbia finito di dirgli che cosa deve fare, ha già capito e l'ha già fatto. Da dove sbuca?

      - Da Talca.

      - Bella risposta. Dimmi qualche cosa di più.

      Hans si sentì a disagio. Olaf avrebbe finito per sapere, ma gli sembrava brutto nei confronti di Enrique rivelare ciò che sapeva di lui, anche se lo sapevano tutti. Che lo chiedesse a Enrique.

      - Prova a chiederglielo.

      - Bella risposta! Non ho mai visto nessuno più abbottonato. Ma che ti è preso?

      Hans alzò le spalle.

     

      La sera Enrique aveva ripreso il suo umore abituale, almeno in apparenza, e dopo cena Magdalena gli chiese di raccontare un'altra storia. Le giornate erano diventate più lunghe, ma le serate duravano ancora abbastanza. Enrique narrò per oltre un'ora, nell'attenzione generale. Olaf, che non l'aveva mai sentito raccontare, pendeva dalle sue labbra, un sorriso felice stampato in faccia. Poi andarono tutti a dormire.

 

      Il giorno successivo, mentre lavoravano, Olaf cominciò a sondare Enrique. Venne a sapere ciò che sapevano tutti, tranne il nome della famiglia. La storia gli sembrò strana e ficcò il naso più del lecito, cercando di capire perché Enrique era caduto in disgrazia.

      - Mandarti qui a lavorare come muratore, invece che all'università. Che bestialità. Ma che cosa hai combinato?

      - A mio padre non garba il mio modo di vivere.

      - Nelle famiglie ricche i giovani possono fare di tutto, i genitori non gli dicono mai niente. Che cosa hai fatto di così grave?

      - Niente di grave, per me. Ma per mio padre lo era.

      - Se non è grave, per te, perché non me lo racconti?

      - Perché non intendo farlo.

      La replica di Enrique era stata secca, anche se detta con un tono di voce neutro, e Olaf si disse che se l'era meritata, anche se non mancò di mandare un accidenti a Enrique, a Hans ed a tutti gli abbottonati con cui non si può parlare. Comunque, dopo dieci minuti in cui lavorarono in silenzio, Olaf replicò:

      - Scusa, non sono cazzi miei.    

      Enrique sorrise e Olaf ne fu contento. Ci teneva, al suo assistente, e gli sarebbe scocciato perderlo il secondo giorno.

 

      La primavera avanzava, le storie di Enrique si ridussero di durata e di frequenza, ma l'attenzione con cui venivano ascoltate non diminuì mai.

      Non diminuì neppure la curiosità di Olaf per il suo assistente. Con un'istruzione nettamente superiore a quella degli altri, anche se a sedici anni aveva cominciato a lavorare come elettricista, Olaf era più vicino a Enrique di quanto non potessero esserlo gli operai del cantiere. Lavorando gomito a gomito, vi erano molti momenti in cui erano liberi di parlare.

      Nel primo periodo, Olaf ripeté più volte l'errore di partenza, mostrandosi troppo invadente. Ogni volta che Olaf superava una linea invisibile, ma che doveva essere ben chiara nella testa del ragazzo, Enrique si ritirava nel suo guscio. E Olaf si mordeva le labbra per aver parlato.

      Imparando dagli errori, cominciò a muoversi con maggiore discrezione. Gli ci volle un po' per riguadagnarsi la fiducia di Enrique, ma, armandosi di pazienza, riuscì a saperne qualche cosa di più.

      Enrique aveva un pessimo rapporto con suo padre, mentre aveva amato molto la madre, morta cinque anni prima. La madre di Enrique non aveva avuto una vita facile, con un marito violento, che la trascurava, la umiliava, la maltrattava e si limitava a esibirla nelle occasioni ufficiali. Dopo la morte della madre, il padre si era risposato e, soprattutto dopo la nascita di un altro figlio maschio, la situazione era ulteriormente peggiorata. La matrigna aveva fatto di tutto per mettere astio tra il padre ed Enrique e ci era riuscita benissimo. Enrique si era rifugiato nello studio, estraniandosi sempre di più dalla famiglia. Si era stabilito a Santiago e non andava mai a Talca.

      Poi era successo qualche cosa, ciò che Enrique non voleva raccontare, ed il padre lo aveva spedito lì. Enrique era minorenne e non era libero di andarsene, ma a Talca non sarebbe ritornato. Non vivo, almeno. Lo disse senza nessuna enfasi, ma Olaf sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Il ragazzo sapeva quello che diceva. Non scherzava.

 

      Grazie all'assistenza di Enrique, il lavoro di Olaf procedeva molto più rapidamente del previsto, con il risultato che Olaf si trovò ad aver concluso la prima fase due giorni prima che gli operai avessero ultimato l'altra ala dell'edificio e lui potesse quindi proseguire.

      Il giorno successivo Enrique riprese il lavoro di muratore, senza che Hans gli avesse detto niente, e Olaf fece qualche lavoro di controllo e andò a spasso.

      Quella sera, a tavola, Olaf si rivolse a Hans.

      - Hans, mi presti il mio assistente per domani? Lo porto a pesca: pescheremo qualche cosa di buono e Magdalena ci preparerà una cena con i fiocchi.

      - Va bene, se hai finito il lavoro prima per merito di Enrique, è giusto che anche lui si prenda un giorno di vacanza.

      - Di vacanza? Lavoriamo per la comunità e tu la chiami vacanza!

      Manuel intervenne:

      - Capo, posso lavorare io per la comunità, mentre Olaf lavora al posto mio per la compagnia?

      Olaf lo rimbeccò subito:

      - Zitto, tu, che non saresti buono a pescare neanche un'acciuga.

      - Vediamo che cosa porterai domani tu. Secondo me arrivi con una manciata di alghe!

      Tutti risero e si misero a stuzzicare Olaf. Se l’indomani non avesse fatto una buona pesca, Olaf avrebbe perso la faccia.

 

      L'indomani Olaf ed Enrique partirono abbastanza presto in barca e si spinsero più a sud, dove il pesce era di solito abbondante. In barca chiacchierarono, per ingannare il tempo, ma a metà giornata si resero conto che i risultati della pesca erano proprio magri.

      - Se torniamo con questi quattro pesciolini, Manuel mi piglierà per il culo per dieci anni. Mi toccherà cambiare lavoro o almeno compagnia. Spostiamoci.

      Cominciò a tirare su l'ancora.

 

      Fu in quel momento che videro l'orca.

      Si avvicinava rapidamente. Un maschio, con la grande pinna nera che sporgeva fuori dall'acqua. Rabbrividirono entrambi. L'orca assassina. Erano su una barchetta, fragile. Di solito le orche non attaccano le imbarcazioni. Di solito.

      Olaf continuò a tirare su l'ancora, con lentezza, controllando i movimenti dell'orca, che si era fermata ad una decina di metri.

      Aveva quasi finito di issare l'ancora, quando l'orca scattò. Rapidissima sfrecciò a fianco della barca, urtandola con tutto il suo peso, quasi rovesciandola.

      Olaf lasciò andare la corda dell'ancora e cercò di mantenere l'equilibrio. Finì sul fondo della barca, ma riuscì a non cadere in acqua. L'orca era passata, la barca stava ancora dondolando, ma non si sarebbe capovolta. Tirò un sospiro di sollievo.

      Di colpo si sentì sollevare e trascinare in acqua. Capì subito. Capì che era finita. Nel tentativo di recuperare l'equilibrio, aveva messo il piede nel rotolo della corda dell'ancora. Ora l'ancora precipitava verso il fondo e la sua caviglia era rimasta prigioniera in un nodo che non avrebbe mai potuto sciogliere.

      Era sott'acqua e precipitava verso il fondo. Verso la morte. Affogato. O sbranato dall'orca.

      Qualcuno si era attaccato a lui. Enrique? Voleva ammazzarsi? Che faceva? Lo aveva mollato. Non capiva, ma di colpo non avvertì più il peso che lo stava trascinando verso il basso. Con tutte le sue forze spinse verso l'alto e riemerse.

      Non era salvo, lo sapeva benissimo. Con l'orca vicino le sue possibilità di salvarsi erano quasi nulle. La barca era vicina, vicinissima. Si attaccò, si issò, badando a non rovesciarla. Era salvo. Cercò Enrique. Era riaffiorato anche lui, un po' più lontano, stava avvicinandosi. Lo aiutò a issarsi. Aveva il coltello in bocca.

      Stupefatto, Olaf lo fissava. Si era gettato in acqua per liberarlo dalla corda che lo trascinava verso la morte, l'aveva tagliata. Con l'orca a due passi. L'orca. La cercò con gli occhi.

      Una macchia di sangue poco più in là. Resti di un animale, probabilmente una foca. Se erano vivi era grazie a quella foca. E lui, grazie ad Enrique.

      Lo guardò, ancora troppo sbalordito per parlare. Enrique era pallido. Tremava. Aveva posato il coltello sul fondo della barca.

      Olaf riprese il controllo della situazione.

      - Dobbiamo raggiungere la terra rapidamente e asciugarci, altrimenti ci becchiamo una polmonite.

      Si mise ai remi e si diede da fare. Enrique lo aiutò e in pochi minuti furono a terra, in un'isoletta molto piccola, poco più di uno scoglio.

      A riva Olaf si liberò degli abiti in quattro e quattr'otto e li stese ad asciugare.

      Enrique era incerto. Lo guardava. Sembrava frastornato.

      - Spogliati subito, ci mettiamo al sole, al riparo dal vento, e lasciamo che gli abiti si asciughino.

      Enrique ubbidì. Olaf lo aiutò a stendere i panni. Si sedettero nudi al sole, uno di fianco all'altro.

      - Sei stato fantastico. Ed io non ti ho neanche detto grazie.

      Enrique era turbato. Non diceva nulla

      - Che hai, ti sei spaventato?

      Enrique annuì. Ma non doveva essere solo questo, era evidente. Olaf gli mise un braccio intorno alle spalle e lo attirò a sé, per rassicurarlo. Non c'era nessun'altra intenzione nel suo gesto. Ad Olaf Enrique era piaciuto subito, anche fisicamente, ma non gli era sembrato il caso di provarci: Enrique proveniva da un altro mondo e lui non voleva grane.

      A Olaf piacevano molto i ragazzi. D’altronde, nel suo lavoro non aveva molte occasioni di frequentare donne: le uniche erano le mogli dei capicantiere, ma su quelle era meglio non cercare di mettere le mani. In compenso nelle diverse squadre c'erano spesso ragazzi molto giovani e Olaf, con il suo fisico atletico, aveva un buon successo. Nella squadra di Hans, di ragazzi non ce n'erano. Hans preferiva evitare di assumerne: a causa della forzata astinenza degli uomini, la presenza di ragazzi non di rado provocava rivalità e litigi furiosi. 

      Quando Olaf lo attirò a sé, Enrique nascose il viso contro il suo torace, poi lo alzò e cominciò, quasi tremando ad accarezzargli il petto. Olaf capì, con un sussulto di gioia. Gli sollevò il viso e cercò la sua bocca, mentre le mani gli accarezzavano le guance e il collo. Gli aprì la bocca e spinse la sua lingua tra le labbra del ragazzo. Enrique lasciò fare, senza stupirsi, e quando la lingua di Olaf si ritirò, fu lui a spingere la sua nella bocca del compagno: Olaf si disse che non doveva essere nuovo ai giochi dell’amore.

      Scivolarono a terra e Olaf fu sopra Enrique, baciandolo appassionatamente. Le sue mani accarezzavano quel corpo e lo sentivano fremere al contatto. C’era in Enrique una violenza di desiderio che sorprese Olaf. Doveva sognare da tempo di essere baciato e abbracciato da lui. Olaf sollevò la testa a guardarlo. Enrique gli mise le mani sulle guance e lo fissò negli occhi, sorridendo felice. Poi le sue mani scesero lungo la schiena di Olaf, avide e impetuose, stringendo la carne.

      Olaf sentiva in sé il rapido crescere del desiderio, che ora gli tendeva l’uccello, e contro il ventre avvertiva che in Enrique stava avvenendo lo stesso. Era bello, quel loro rimanere così, petto contro petto, ventre contro ventre, mentre l’eccitazione montava. Era bello guardare gli occhi chiari di Enrique e il suo sorriso. Era una sensazione fortissima.

      Ma il desiderio premeva per essere soddisfatto. Olaf si sollevò di scatto, mettendosi in ginocchio, le gambe di fianco al corpo di Enrique. Guardò il corpo snello ed armonioso del ragazzo, gli sorrise, gli passò entrambe le mani sul viso. Enrique girò il capo di lato e gli morse un dito. Olaf premette con la mano sulla sua bocca ed Enrique morse di nuovo, con forza.

      - Ahi! Cannibale!

      A Olaf sembrò di non aver mai abbracciato un ragazzo più bello di Enrique, anche se sapeva benissimo che non era vero. Ma c’era, nella serenità di Enrique, nel suo sorriso, in quel suo darsi, una dolcezza che lo conquistava.

      Le mani di Olaf scesero sul collo di Enrique, poi sul torace, sul ventre, fermandosi con i pollici contro l’uccello teso.

      - Voltati, Enrique.

      La voce di Olaf era roca di desiderio. Non sapeva se Enrique avrebbe accettato, ma qualche cosa dentro di lui gli diceva che Enrique gli si sarebbe offerto senza resistere, perché lo desiderava non meno di lui.

      Ed Enrique gli sorrise e ruotò su se stesso, mettendosi a pancia in giù, senza dire una parola, allargando le gambe. Olaf guardò affascinato la schiena del ragazzo e poi il culo, stretto e forte. Posò le mani sulle natiche, pizzicandole vigorosamente. Le divaricò leggermente, mettendo in mostra l’apertura.

      Un furore di desiderio gli mozzò il respiro. Rimase immobile a guardare l’anello di carne che tra poco si sarebbe aperto per accogliere il suo membro vigoroso. Pensò che non aveva mai visto nulla di più bello, non aveva mai desiderato nulla come quel corpo che gli si offriva senza nessuna resistenza, nessuna falsità, rivelando il suo desiderio.

      Avrebbe voluto esprimere a Enrique la tenerezza che lo avvolgeva, perché sentiva dentro di sé qualche cosa che non aveva mai provato, ma la sua lingua non sembrava capace di trovare le parole. Allora Olaf si abbandonò al desiderio. Guardò la propria picca che si alzava, smaniosa, con la cappella infuocata, la appoggiò contro il solco che aveva davanti a sé, si stese su Enrique. Gli mordicchiò l’orecchio, poi si inumidì la cappella, bagnò di saliva anche l’apertura e, con molta dolcezza, entrò.

      Era bello penetrare così, con delicatezza, scoprire il calore di quella carne soda che gli si offriva senza resistenza, sentire le ondate di piacere che dall’uccello salivano percorrendogli tutto il corpo.

      - Enrique, Enrique, Enrique.

      L’arma avanzava trionfante e ogni fibra del corpo di Enrique sembrava accoglierla con piacere. Il ragazzo gemette. Olaf si disse che doveva essere una piccola troia, cercando così di soffocare la tenerezza che cresceva in lui, il desiderio di accarezzare, di cullare Enrique, come un bimbo.

      Il piacere saliva, mentre Olaf penetrava ancora più a fondo, fino a che il suo uccello fu completamente dentro il culo di Enrique.

      Rimase appoggiato sul corpo sotto il suo, accarezzando la guancia del ragazzo con il dorso di due dita, poi incominciò un lento movimento a stantuffo, alternativamente tirandosi indietro e spingendo a fondo, con lentezza, con estrema lentezza. Voleva suggere ogni goccia di piacere da quel rapporto, perché sapeva che non aveva mai provato nulla del genere, neppure la prima volta che aveva posseduto un corpo.

      Il movimento, lentissimo, proseguì a lungo, fino a che Olaf sentì dentro di sé l’urgenza del desiderio debordare e travolgerlo. Accelerò il ritmo, spingendo con forza sempre maggiore. Il ragazzo gemette di nuovo, più forte, ma era un gemito di piacere. Olaf incalzò, con vigore crescente, fino a che nel suo corpo il piacere scoppiò, in un turbine di sensazioni intensissime.

      Mentre si afflosciava su Enrique, si rese conto che anche il ragazzo era venuto e pensò che non aveva mai provato un piacere così grande. Sperò che per il ragazzo l'esperienza fosse stata altrettanto bella.

      Morse con forza la nuca di Enrique, strappandogli un gemito, questa volta di dolore. Olaf gli accarezzò con le dita il collo e l’area che aveva morsicato, poi lo baciò.

      Gli vennero alla bocca le parole di tenerezza, che prima non aveva trovato. Ma preferì ricacciarle. Accarezzò ancora la testa di Enrique e poi gli disse:

      - Credo che manderò al diavolo la pesca e pazienza se Manuel mi prenderà per il culo, qui c’è qualche cosa di molto più interessante dei pesci.

      Enrique rise, una risata leggera.

      - Sì, lasciamo perdere i pesci, adesso che ho preso un bell’uccello, non lo mollo più.

      Olaf sorrise. Teneva l’uccello dentro il culo di Enrique e sentiva che si stava nuovamente irrigidendo. Il ragazzo gli accendeva i sensi con un’intensità incredibile.

      - Sei pronto per il bis?

      Enrique rise di nuovo.

      - Sempre a disposizione, per te.

      Rimanendo disteso su Enrique, Olaf fece scorrere le dita lungo il corpo del ragazzo, gli pizzicò a piene mani il culo, scivolò lungo le cosce, per poi passare sotto il ventre di Enrique e ritrovare l’asta che nuovamente si tendeva.

      Ormai anche il suo uccello era nuovamente rigido e, con molta lentezza, Olaf riprese l’attività da poco lasciata. Le sue mani continuavano a percorrere il corpo di Enrique, mentre i movimenti ritmici del suo culo spingevano in profondità il suo palo di carne.

      La tensione cresceva e il piacere si moltiplicava. Olaf assaporava ogni attimo, ogni movimento del suo uccello dentro il culo accogliente del ragazzo. Era bellissimo, non aveva forse l’intensità della volta precedente, ma c’era una dolcezza infinita. E il piacere si dilatava, il desiderio nuovamente premeva ed infine esplose, proiettandolo ancora una volta in cielo.

      Dopo fu il turno delle carezze e dei baci, di cui Enrique non sembrava mai essere sazio.

      Infine si lavarono e si rivestirono.

      - Adesso ho capito perché tuo padre ti ha mandato qui.

      Enrique sorrise e annuì. Olaf proseguì:

      - Sei proprio una troietta…

      Tacque perché sul viso di Enrique era passata un’ombra. Olaf lo baciò sulla bocca e l’ombra si dileguò.

O almeno, così gli parve.

 

      Quella sera fu un'apoteosi per Enrique. Olaf raccontò il salvataggio e tutti guardarono allibiti il ragazzo, che si vergognava.

      Manuel li prese in contropiede.

      - Bella storia, per giustificare il fatto che, invece di portarci un'abbondante pesca per la cena, avete anche perso l'ancora.

      Enrique intervenne, ridendo:

      - In realtà mi ero buttato per salvare l'ancora, mi sembrava valesse di più di Olaf, ma mi è sfuggita di mano.

      Olaf uscì in un - Ah, disgraziato! - e mise una delle sue grandi mani sulla testa di Enrique, scuotendola a destra e a sinistra, mentre tutti ridevano fino alle lacrime. Anche Enrique, schiacciato dalla mano di Olaf, rideva. Ed anche Olaf. 

 

      Il giorno successivo lavorarono tutti e due di buona lena. Olaf ci teneva a finire abbastanza presto, per avere un po' di tempo. Stare così vicino a Enrique lo accendeva di un desiderio violento.

      Il mattino più di una volta gli fece una carezza. Il ragazzo era contento e gli sorrideva. Due volte si baciarono.

      Poi, nel pomeriggio, controllando il lavoro che Enrique aveva fatto, Olaf gli disse:

      - Sei bravissimo, sai fare di tutto: i circuiti elettrici, i salvataggi di chi affoga, il culo caldo. Poi mi fai vedere se sai fare anche i pompini.

      Olaf si accorse che Enrique non sorrideva e che si era irrigidito, ma non diede troppo peso alla reazione.

      Più avanti, quando ormai erano vicini alla fine e Olaf dominava a fatica la sua eccitazione, gli disse ancora:

      - Sarà una splendida estate. Mi spiace solo andarmene a luglio. Ma per allora avrai male al culo.

      Enrique aveva abbassato lo sguardo. Olaf non aveva capito. O, come si disse in seguito, aveva preferito non capire.   

 

      Mancava un'ora alla fine del lavoro, quando Olaf constatò con soddisfazione che avevano completato quanto previsto.

      - Bene, abbiamo terminato, con un buon margine di anticipo. Adesso spogliati.

      Enrique non disse nulla. Lo guardò. Olaf si tolse la camicia e lo sollecitò:

      - Dai, muoviti, che ce l'ho già duro. Non perdiamo tempo.

      Enrique si voltò e uscì. Olaf rimase a bocca aperta a guardare la porta da cui Enrique era uscito.

      Enrique scese fino al punto in cui stavano lavorando gli altri operai e disse:

      - Ho finito con Olaf. Vi do una mano.

      Manuel rise:

      - Ma la regola dell'un-due-tre, tu non l'hai proprio imparata!

      Enrique non disse niente, non sorrise neanche. Si mise a lavorare. Manuel tacque, aveva capito. C'era qualche cosa che non andava, di grosso. A un certo punto vide che a Enrique luccicavano gli occhi e provò pena. Come tutti, era affezionato a Enrique, a quell'incongruo Radoso di Talca, che sgobbava come un negro e si tuffava tra le orche per salvare i compagni.

 

      Quella sera Enrique si avvicinò a Hans.

      - Posso parlarle un momento?

      - Certo, dimmi.

      Fin dal secondo giorno aveva preso a dargli del tu, come a tutti gli altri operai. Di rado si rammentava che non era un operaio come gli altri.

      - Le chiedo di dare un altro assistente a Olaf.

      Hans rimase stupito. Che cosa era successo? Enrique non disse altro. Hans capì che non avrebbe avuto una spiegazione, non quella vera, almeno. Di scuse, poteva fare a meno. La richiesta non avrebbe dovuto essere accolta, non era la cosa migliore per il lavoro, ma Enrique non gli aveva mai chiesto nulla ed Olaf era abituato a lavorare con l'aiuto di gente che ne sapeva poco d'elettricità.

      - Va bene, come vuoi.

      - Grazie.

 

      La sera Olaf sembrava un po' scocciato ed Enrique assente, ma nessuno ci badò più di tanto: le giornate si allungavano, la temperatura saliva, il gelo ed il buio invernale erano alle loro spalle. Si sentivano bene.

      Il mattino seguente, al momento di iniziare il lavoro, Hans disse:       

      - Paco, da oggi aiuti tu Olaf. Enrique, tu torni con Mendoza.

      Olaf rimase a bocca aperta. Fissò Enrique, poi guardò Hans e borbottò tra i denti:

      - Meglio così. Meglio Paco di quel...

      Non completò la frase, ma Enrique era sbiancato e Hans provò un violento desiderio di colpire Olaf.

      Tutti erano rimasti stupiti, tranne Manuel, che quel giorno fece il buffone più del solito, per rallegrare Enrique. L'umore del ragazzo rimase nero, ma ogni tanto con un sorriso ringraziava Manuel per i suoi sforzi.

 

      Nei giorni seguenti tutto sembrò filare liscio ed anche gli occhi attenti di Hans non notavano nulla di particolare. Enrique e Olaf si evitavano, ma non avevano molte occasioni di incontrarsi, perché Olaf lavorava per conto proprio.

      I problemi nacquero due settimane dopo. Man mano che passavano i giorni, Olaf diventava sempre più nervoso e teso, rispondeva male a tutti, non scherzava mai. Gli altri non riuscivano a capire. Avere Olaf in squadra era sempre stato un piacere: uno allegro, pronto a scherzare, buon lavoratore ed ottimo compagno. Nessuno riconosceva Olaf in quell'uomo taciturno e nervoso, a cui non andava più bene niente.

      Paco cominciò a lamentarsi con gli altri, dicendo che Olaf lo trattava malissimo, lo insultava per ogni piccolo sbaglio. Non aveva pazienza, pretendeva che lui facesse senza nemmeno spiegargli, dava per scontato cose che Paco non poteva sapere. Paco non era un elettricista, lui faceva il muratore. Non era colpa sua se di elettricità capiva poco.

       Un pomeriggio Olaf, esasperato per un errore di Paco, gli tirò addosso un cacciavite. Lo mancò per un soffio e cominciò a inveire. Lo sentivano tutti, da fuori. Paco andò a chiamare Hans, che già stava arrivando. Una cosa del genere non era mai successa.

      Olaf affrontò Hans a muso duro:

      - Se non sei in grado di darmi niente di meglio di questi coglioni, faccio da solo.

      Hans cercò di smontarlo con la sua solita ironia.

      - Va bene, fai da solo. Ma è il caso di ammazzarmi gli operai? Costano.

      - Vaffanculo. Lasciami in pace.

      - Me ne vado. Ma questa sera, quando ti sarai dato una calmata, tu chiedi scusa a Paco.

      Hans uscì senza aspettare una risposta. Era meglio dare ad Olaf il tempo di placarsi. La sera Olaf avrebbe chiesto scusa. Su questo non aveva dubbi.        

     

      Olaf chiese scusa a Paco, davanti a tutti, ed anche a Hans. Erano scuse sincere. Ma per tutta la sera non aprì più bocca. Nella loro camera Hans commentò con la moglie.

      - È un bel casino, Magdalena. Olaf è diventato un cane rabbioso. Lui, sempre così allegro.

      - Ridagli Enrique come assistente.

      - Ma è stato Enrique a chiedermi di cambiarlo.

      - E tu digli che è l'unico in grado di fare il lavoro come va fatto. È la verità. E poi ne hanno bisogno tutti e due.

      - Hanno bisogno di che?

      - Di parlarsi, di spiegarsi.

      - Tu sai che cosa è successo? Te l'ha raccontato Enrique?

      - E quando mai mi parla? No, non lo so, ma l'ho intuito. E so che hanno bisogno di parlarsi.

      - Non c'è il rischio che... Non vorrei che Olaf reagisse male.

      - Il rischio c'è, ma è meglio che lo corrano, piuttosto che continuare così...

      - Se succede qualche cosa all'erede dei Radoso di Talca, possiamo andare a chiedere l'elemosina. Ma non in Cile. Qui non ci fanno più vivere.

      - Non succederà niente a Enrique. Non credo.

      Hans sorrise ironico.

      - Olaf è un Ercole. Non mi dire che Enrique lo fa fuori.

      Magdalena scosse la testa.

      - Olaf non alzerebbe mai la mano su Enrique. E neanche Enrique su Olaf.

      Hans la guardò interrogativamente, ma Magdalena non rispose.

     

      L'indomani mattina, al momento di dare le istruzioni, Hans disse, dando alla propria voce la dose giusta di fermezza e di indifferenza:

      - Enrique, da oggi riprendi a lavorare con Olaf. Paco, torni alla costruzione.

      Sentì gli sguardi di Enrique e di Olaf su di lui e attese una replica. Non ce ne furono. Enrique chinò la testa, Olaf fissò prima Hans, poi Enrique, poi Hans. Infine disse:

      - Finalmente si potrà lavorare.

      Olaf ed Enrique lavorarono duramente tutto il giorno, scambiandosi il minimo di parole indispensabili. La sera, Olaf era meno nervoso, ma molto pensieroso. Enrique non rivelava nulla.

      Quando furono soli, Hans si congratulò con la moglie.

      - Direi che ha funzionato, Olaf non ha più tirato cacciaviti.

      - No, non ha funzionato, non ancora, non si sono parlati.

      - Come fai a dirlo?

      - Basta guardarli.

      Hans non capiva, ma l'importante era che il lavoro procedesse e non ci fossero guai.

 

      Per altri tre giorni Olaf ed Enrique lavorarono fianco a fianco, parlando solo di lavoro. Il terzo giorno Olaf si permise di accarezzargli la testa, mentre gli diceva che aveva fatto un bel lavoro, ma Enrique si sottrasse. Olaf non ripeté il tentativo.

      Nei giorni seguenti Olaf divenne sempre più taciturno. Non appariva nervoso, ma preoccupato. Sembrava pensare ad un suo problema e partecipava poco alle discussioni comuni. Ora gli uomini lavoravano alla costruzione degli edifici per l'esercito, a qualche decina di metri dal faro. Olaf ed Enrique erano isolati.

 

      Olaf aveva sperato che, lavorando di nuovo insieme, non avrebbero avuto difficoltà a ritrovare la loro intimità, senza che fossero necessarie spiegazioni. Per un attimo, quando Hans aveva detto che Enrique avrebbe ripreso il suo posto di assistente, Olaf aveva persino sperato che fosse stata una richiesta del ragazzo, ma gli aveva letto in faccia che non era così.

      E ora erano in un vicolo cieco.

      Olaf aveva capito, non gli era stato difficile capire, dopo. Dopo. L'elettricista con cui aveva fatto apprendistato lo aveva iniziato ai piaceri del sesso, quando lui era un ragazzo, ed Olaf se ne era innamorato. Aveva scoperto in fretta che il loro era un amore a senso unico e l'elettricista aveva presto trovato nuovi divertimenti, salvo poi cercarlo nuovamente quando non c'era di meglio.

      Olaf aveva amato un ragazzo, qualche anno dopo, e si era detto che non si sarebbe comportato come l'elettricista aveva fatto con lui. Ancora una volta aveva scoperto che ciò che al ragazzo interessava era esclusivamente il suo corpo e che nessuno gli richiedeva di più.

      Da allora, aveva sempre dato ciò che gli veniva richiesto e ottenuto ciò che voleva, senza inutili sovrappesi.

      Aveva capito subito che Enrique era diverso dai ragazzi conosciuti e desiderati per pochi mesi, ma quel giorno, alla spiaggia, si era anche reso conto che per Enrique non era la prima volta e lo aveva considerato uno come gli altri. E come gli altri lo aveva trattato. In quei giorni di riflessioni rabbiose, Olaf si disse anche che aveva preferito credere che Enrique fosse come gli altri per non farsi troppe illusioni. Enrique gli piaceva troppo. E aveva fatto per lui quel che non avrebbe fatto nessuno dei molti ragazzi o uomini che aveva conosciuto.

      Olaf aveva pagato caro l'errore, a un prezzo molto più alto di quanto avesse mai potuto pensare. Aveva perso Enrique e, giorno dopo giorno, si era reso conto di amarlo, di amarlo realmente.

      Doveva parlargli, spiegarsi. Ma non era facile. Enrique non rendeva le cose facili.

 

      Due settimane dopo che Enrique aveva ripreso a lavorare con lui, Olaf decise che quel pomeriggio, alla fine del lavoro, gli avrebbe parlato. A pranzo, Olaf non disse una parola, sembrava del tutto assente.

      Nel pomeriggio Hans ripassò dalla casa e vide Magdalena che guardava fuori dalla finestra, verso il faro. Era inquieta.

      - Che cosa c'è?

      - Oggi Olaf gli parlerà.

      - Come lo sai?

      - A tavola era teso, come chi sa di avere un incontro importante.

      Hans aveva imparato da tempo che Magdalena sapeva vedere ciò che agli altri sfuggiva. Ciò che gli premeva, ora, era sapere come sarebbe andata a finire. A vedere Magdalena inquieta, si preoccupò.

      - Non è quello che volevi?

      Magdalena sospirò.

      - Sì, ma è così difficile capirsi.

 

      Avevano finito il lavoro. Inutile incominciarne un altro. Rimaneva un'ora. Enrique se ne sarebbe andato. Olaf non trovava il coraggio di parlare. Non sapeva come dire quello che aveva dentro. Già troppe volte aveva usato le parole sbagliate con Enrique. Ma doveva riuscirci. Quell'inferno doveva finire. Non sapeva da che parte cominciare. Ed Enrique non lo aiutava.

      Avevano finito il controllo. Enrique si alzò.

      - C'è altro?

      Olaf scosse la testa.

      - Io vado.

      - A lavorare con gli altri?

      Enrique lo guardò.

      - Qui non c'è niente da fare.

      - Potresti fermarti un attimo.

      Enrique non disse nulla, ma rimase in piedi a guardarlo. Rimasero in silenzio. Olaf non trovava le parole. Avrebbe voluto urlare, saltare addosso ad Enrique, scuoterlo, costringerlo a parlargli, a parlargli davvero. Ma non sapeva da che parte incominciare.

      Enrique aspettava. Olaf alzò le spalle, furioso per la propria incapacità. Enrique si voltò e fece per uscire.

      - Un momento.

      Aveva parlato senza riflettere, senza avere un’idea precisa. Non sopportava il pensiero di vederlo uscire così, di dover rimandare al giorno dopo

      - Un momento -, ripeté, per riempire il silenzio. Si alzò, andò alla porta e ci mise contro una grossa trave, in modo da sbarrarla. Poi si tolse la camicia. Non sapeva che cosa stava facendo. Sapeva che Enrique non sarebbe uscito di lì finché lui era vivo. Si chinò e prese il grosso coltello. Lo impugnò.

      Enrique era indietreggiato, addossandosi alla parete. Lo guardava. Olaf sapeva che si sarebbe lasciato sbudellare in silenzio. E lui non riusciva a trovare le parole. La rabbia saliva. Avanzò deciso, fino a che fu a un passo da Enrique, che lo fissava. Negli occhi del ragazzo non c'era paura, c'era tristezza, una tristezza senza fondo. Olaf gli sibilò in faccia:

      - Tanto di me non te ne frega niente, non te ne fotte un cazzo.

      Poi, con un gesto rabbioso afferrò la destra di Enrique e gli mise in mano il coltello. Forzò le dita a stringerlo. Enrique non capiva. Olaf prese la mano di Enrique in una morsa e la spinse verso il proprio torace. Allora Enrique comprese. Cominciarono a lottare. Enrique cercava di resistere, con tutte le sue forze, alla stretta di Olaf, ma la lotta era impari: il colosso lo dominava. Enrique mise la sinistra tra la punta del pugnale ed il petto di Olaf, ma Olaf la tirò via. Ben presto la punta arrivò contro il costato di Olaf.

      - No! No! Fermati! Olaf, no!

      Enrique urlava, forse lo avrebbero sentito, ma a Olaf non importava niente. Sarebbero arrivati tardi.

      Il pugnale era contro la pelle, ora. Olaf sentì la piccola trafittura. Tra poco sarebbe finito, finito tutto. Purché avesse la forza di spingere abbastanza a fondo, vincendo la resistenza di Enrique.

      Il sangue cominciò a colare dalla ferita.

      - Olaf! No! No! Olaf! Io ti amo!

      L'urlo di Enrique, le lacrime in quell'urlo, lo privarono di ogni forza. Lasciò andare la mano, che buttò il coltello lontano. Strinse il ragazzo e si gettò a terra insieme a lui. Non riusciva più a stare in piedi, ma non l'avrebbe lasciato. Mai più, mai più. Trovò la forza di dire l'unica parola sensata.

      - Anch'io ti amo, Enrique.

      Rimasero a terra, uno sull'altro. Olaf teneva la testa sul torace di Enrique, cercando di calmarsi. Non sapeva che cosa stesse facendo Enrique. Tese l'orecchio ai rumori. Non si sentivano voci o passi. Non dovevano essersi resi conto di niente. Meglio così. Sapeva che avrebbe dovuto parlare, ma non ne era in grado. Rimase steso su Enrique, aspettando che il suo cuore si calmasse.

      - Olaf, alzati.

      La frase di Enrique fu un dolore acuto. Sollevò la testa e lo fissò.

      - Te ne vuoi andare?

      - No, ma vorrei parlarti. E non così.

      Olaf si mise a sedere e fissò Enrique. Aveva paura, ora. Anche il ragazzo si mise a sedere, la schiena contro la parete. Era molto pallido e c'era sangue sulla sua camicia. Con un gesto istintivo, Olaf si toccò la ferita: un piccolo taglio superficiale. Aveva una striscia di sangue che arrivava fino ai pantaloni.

      Olaf abbassò gli occhi. Aspettava.

      - Olaf...

      Anche Enrique sembrava non trovare le parole. Olaf si rese conto che anche per lui non doveva essere facile esprimere quello che provava. Allora, con uno sforzo, articolò:

      - Mi spiace per... tutto. Non avevo capito… Poi mi sono reso conto. Ed ho capito di amarti. Ed ho avuto paura di averti perduto.

      Lo guardò, senza formulare la domanda, ma Enrique capì e rispose.

      - Anch'io avevo paura, ma ...

      Alzò la testa, come per respirare meglio, poi l'abbassò e guardò Olaf negli occhi:

      - Ti voglio, ma non in quel modo, Olaf. Non come se io fossi una puttana che hai pagato, uno che va con tutti, a cui non si deve neanche chiedere.

      Olaf chinò la testa.

      - Ti chiedo scusa.

      Enrique gli tese il braccio. Olaf afferrò la mano e tirò Enrique contro di sé. Lo abbracciò.

      Lo stringeva, lo accarezzava, lo baciava, ma non osava andare oltre, temeva di fare nuovamente un passo falso. Dopo un buon momento, fu di nuovo Enrique a prendere l'iniziativa, sorridendogli.

      - Due mesi fa mi avevi fatto una richiesta. Nel modo sbagliato, ma non era una brutta richiesta. Potremmo vedere come viene.

      Con delicatezza, Olaf lo spogliò. Quando Enrique fu nudo, Olaf lo spinse delicatamente a terra ed incominciò a percorrerne il corpo con le labbra, baciando e mordicchiando. Poi prese in bocca il sesso del ragazzo. Enrique sorrise.

      - Avevo capito che volevi fare il contrario.

      Olaf rispose al suo sorriso, senza lasciare la presa. La sua lingua incominciò a stuzzicare l’uccello, che acquistò volume e consistenza. Allora Enrique ruotò in modo da stendersi parallelamente ad Olaf, ma in senso inverso, aprì i pantaloni di Olaf, ne estrasse l’uccello ed a sua volta avvicinò la bocca, prendendolo tra le labbra.

      Olaf ebbe un leggero sussulto a quel contatto, ma non mollò la sua presa. Ben presto la sua arma incominciò a crescere, fino a raggiungere le sue dimensioni massime. Intanto il pezzo di carne nella sua bocca aveva subito la stessa evoluzione.

      Entrambi erano occupati a succhiare avidamente, leccare, stuzzicare con i denti e con le labbra, baciare. Le loro mani però non rimanevano inoperose: quelle di Enrique cercavano di liberare Olaf dai vestiti, quelle di Olaf un po’ collaboravano con le compagne, per cui il risultato desiderato da entrambi fu presto raggiunto, un po’ accarezzavano il corpo che avevano di fronte.

Erano carezze delicate: per quanto la prolungata astinenza avesse esasperato il suo desiderio, in Olaf c’era una tenerezza che debordava, una gratitudine infinita nei confronti di Enrique, che ancora lo amava, che aveva trovato le parole giuste per fermarlo, che gli stava dando molto di più del suo corpo.

Man mano che procedeva nella sua opera, Olaf sentiva il piacere crescere ed una sensazione di benessere invaderlo. Aveva ritrovato quello che per la propria stupidità aveva perso e non se lo sarebbe più lasciato scappare via, di sicuro.

      La bocca di Enrique era ormai un piacere intollerabile ed Olaf si rese conto che stava per venire. Avvertì Enrique, che non allontanò la bocca. Venne, in un tale stordimento di piacere che dovette interrompere la sua opera.

      Solo dopo che il suo cuore ebbe ripreso un ritmo meno frenetico, Olaf completò il suo lavoro, ricevendo il seme di Enrique come la ricompensa per un lavoro ben svolto.

 

      Dopo, dopo che entrambi ebbero avuto la loro parte, mentre giacevano avvinghiati, Olaf sussurrò:

      - Mio piccolo Eirik.

      - Eirik?

      - Enrique, nella mia lingua. Così ti sento più mio. Eirik è solo mio. Enrique lo dicono tutti.

 

      Quando raggiunsero gli altri, era un po' più tardi del solito. Tutti si stupirono vedendo la camicia di Enrique macchiata di sangue, ma le facce allegre dei due non davano adito a timori.

      - Che è successo?

      Fu Enrique a rispondere.

      - Sapete che lavorare con Olaf è pericoloso. Questa è una riprova. Capo, voglio un aumento della paga.

      Tutti risero a sentire Enrique rivolgersi così al capo. Non era da lui.

      - Neanche per idea. Anzi, devo ancora detrarti dalla paga l'ancora persa per colpa tua.

      - Allora facciamo così, capo. Diminuisce la paga a Olaf e l'aumenta a me, come ricompensa perché lo sopporto.

      Olaf, che aveva assistito, ridendo, intervenne.

      - Ehi, ehi, ehi! Piano! Non ci sto. Il sangue su quella camicia è il mio!

      - Sì, ma la camicia rovinata è la mia.

      Tutti scoppiarono di nuovo a ridere. Perché Olaf avesse perso sangue e perché quel sangue fosse sulla camicia di Enrique, nessuno lo chiese, anche se più d’uno avrebbe voluto saperlo. Ma tutti stavano troppo bene: Olaf era ritornato quello di sempre, con un di più di allegria; Enrique era felice, glielo si leggeva negli occhi. Erano un po' stupiti, ma contenti di aver ritrovato il loro Olaf e di vedere Enrique così allegro.

 

      Olaf partì a luglio, come previsto. Enrique ebbe un attimo di smarrimento, ma poi non diede segni di soffrire della sua lontananza. Era allegro, scherzava spesso. Era l'unico che tenesse testa a Manuel nelle battute.

      A fine agosto arrivò una lettera dall'Argentina, per Enrique. Dopo che l'ebbe letta, ad Enrique scintillavano gli occhi.

      A settembre arrivò una lettera da Talca, come l'anno precedente. Questa volta Enrique la lesse nella stanza comune. La strappò, poi la gettò nella stufa, ma il suo umore non cambiò. Rimase allegro.

 

      A fine settembre raggiunsero Punta Arenas, da cui sarebbero ripartiti dopo tre giorni per la loro nuova destinazione. Ognuno ricevette la sua paga. Non che ci fossero molte possibilità di spenderla, a parte qualche puttana e poche bettole: il paese non offriva altro. La seconda sera Enrique bussò alla camera dei Brausen.

      - Sono venuto a salutare. Me ne vado.

      Hans Brausen fece per obiettare:

      - Ma...

      - Sono maggiorenne, da quindici giorni. E nessuno può più dirmi che cosa devo fare. Domani mattina, mandi un telegramma al direttore per avvisare che sono scomparso. Non cambierà nulla per me, sarò già lontano, ma le eviterà grane. Qualcuno verrà a farle domande, ma lei non sa nulla.   

      - Posso chiederti che cosa conti di fare? Ti assicuro che non dirò nulla, ma... mi farebbe piacere saperlo.

      - Raggiungo Olaf in Argentina. Qui mio padre mi scoverebbe e comunque mi renderebbe la vita impossibile, impedendomi di trovare lavoro. Olaf sarebbe in pericolo.

      - Olaf è in Argentina?

      - Sì, si è trasferito lì, dopo essersi licenziato, e aspetta il suo assistente, l'elettricista Eirik Øden, un cugino. L'elettricità mi ha sempre affascinato.

      - Lavorerai come artigiano? Ma, che senso ha? Voglio dire, uno...

      Hans non finì la frase. Si era reso conto che erano le sue parole a non avere senso.

      - Dei soldi di mio padre non toccherò mai un centesimo. Voglio guadagnarmi da vivere. Sto imparando a farlo e di questo devo ringraziare anche lei. Grazie di tutto. Riceverà una lavata di capo per causa mia, ma nessuno può accusarla di niente e, se manda il telegramma presto, non ci saranno conseguenze.

      - Buona fortuna, Enrique.

      - Enrique Radoso è morto. C'è Eirik, ora, un povero elettricista.

      Fu allora che intervenne Magdalena:

      - Non così povero. Si porta dentro tutte le ricchezze di Enrique.

      Enrique la guardò, sorridendo. Poi guardò Hans.

- Ho sempre pensato che lei fosse un uomo molto fortunato, ad avere a fianco una donna come sua moglie…

      Poi sogghignò e proseguì, ironico:

      - …anche se non ho mai capito che cosa ha fatto per meritare una simile fortuna.

      Hans ricambiò il sorriso.

      - Me lo chiedo anch’io, a volte. Alcuni sono più fortunati di altri. Come Olaf, ad esempio.

      Enrique lo ringraziò con un sorriso, poi Hans lo abbracciò. Enrique ricambiò la stretta, poi prese le mani di Magdalena tra le sue e le strinse.

     - Mi auguri buona fortuna.

     - Buona fortuna, Eirik, di tutto cuore.

     - Addio, Eirik.

     - Arrivederci. Tra un anno o due mio padre si stuferà di cercarmi e sua moglie farà di tutto per farmi dimenticare. Potrò ritornare in Cile e, in questo caso, ci rivedremo.

      Dalla finestra lo guardarono uscire dalla locanda, illuminato per un attimo dalla luce di una lampada, poi lo videro scomparire nel buio della notte. Hans ripeté, tra sé:

      - Buona fortuna, Eirik, di tutto cuore.

 

2000

 

 

 

 

 

 

 

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