Nella scuderia

 

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Quella sera a tavola Patrick annunciò che si sarebbe arruolato nell’esercito dell’Unione. Mio padre rimase senza parole. Non voleva crederci. Inizialmente cercò di prenderla come uno scherzo, anche se con lui Patrick non scherzava mai. Poi si arrabbiò, volle sapere il motivo di quella decisione e quando Patrick gli disse che voleva andare a combattere contro la schiavitù e per l’integrità degli Stati Uniti, gli diede del coglione. Provò anche a promettergli un aumento di salario, ma Patrick aveva deciso. E mio padre avrebbe dovuto sapere che quando Patrick aveva preso una decisione, solo il Padreterno avrebbe potuto fargli cambiare idea, incenerendolo con un fulmine.

Di fronte all’ostinazione di Patrick mio padre perse ogni ritegno, lo accusò di ingratitudine, gli ricordò che lo aveva accolto come un figlio, lo aveva tenuto con sé, invece di mandarlo a mendicare per le strade, perché quello sarebbe finito a fare.

Io tenevo gli occhi bassi e avevo voglia di piangere. L’idea che Patrick se ne andasse era una sofferenza infinita, perché lui per me era un fratello maggiore, un amico, un terzo genitore. Gli volevo bene, assai più di quanto ne volessi a mio fratello Derek e avevo sempre ricevuto da lui più affetto che da mio padre o da Derek.

Ma mi vergognavo soprattutto di quello che mio padre stava dicendo, perché sapevo benissimo, come tutti, che la verità era un’altra.

Patrick era arrivato nella vallata a quattordici anni, quando io ero appena nato. Mio padre non l’aveva certo preso con sé per generosità, dote di cui mancava completamente: le difficoltà economiche in cui da tempo si dibatteva avevano accentuato sino al parossismo il suo attaccamento al denaro. Gli altri allevatori lo consideravano, a ragione, taccagno e meschino.

Patrick era arrivato proprio quando la cavalla Flower stava partorendo o, meglio, stava agonizzando perché il piccolo non usciva. Quel ragazzo spuntato dal nulla aveva dimostrato un’abilità incredibile nell’assisterla. Per mio padre, che aveva avviato un piccolo allevamento di cavalli, Patrick era stato la manna caduta dal cielo. Mia madre lo considerò sempre davvero un dono divino, inviato in nostro soccorso in un momento difficile.

Negli anni successivi l’allevamento dei cavalli aveva prosperato, grazie a Patrick, che sembrava sapere tutto sugli animali. Noi eravamo usciti dal pozzo dei debiti, mio padre aveva potuto acquistare altre terre, tutto era cambiato. E per alcuni anni Patrick, a cui dovevamo tutto questo, non aveva ricevuto nulla: mangiava con noi, dormiva nella scuderia e mia madre gli aggiustava gli abiti smessi di mio padre; quando Patrick, che cresceva rapidamente in tutte le direzioni, divenne troppo grosso anche per quelli, gli cuciva l’occorrente.

Mio padre si decise a dare un salario a Patrick solo quando scoprì che diversi altri allevatori della valle gli avevano fatto offerte molto consistenti. Lui le aveva sempre rifiutate, senza nemmeno parlarne a mio padre, senza chiedergli nulla.

Che in quel momento accusasse Patrick di ingratitudine, era davvero una vergogna. Patrick avrebbe potuto avere il doppio di quello che gli dava mio padre in qualunque fattoria della valle: venivano da tutta la contea per chiedere l’aiuto di Patrick, e mio padre si faceva pagare non poco per ogni prestazione del suo lavorante.

Dopo che mio padre ebbe capito che non c’era niente da fare, mia madre intervenne, cercando di restituire alla cena un clima di serenità.

Patrick disse che sarebbe partito una settimana dopo.

Quella notte rimasi a lungo sveglio, pensando a Patrick. Facevo fatica a immaginarmi la mia vita senza di lui, senza la sua costante attenzione, senza la sua tenerezza, anche se negli ultimi mesi Patrick era diventato meno affettuoso nei miei confronti. La sua disponibilità era sempre assoluta: qualunque cosa gli chiedessi, Patrick la faceva, se era nelle sue possibilità e non la riteneva sbagliata. Ma una volta c’era un contatto fisico molto più frequente tra di noi, come tra due fratelli. Invece da qualche tempo era più raro che Patrick mi prendesse di sorpresa, bloccandomi con le sue braccia possenti in una morsa che non riuscivo a sciogliere, oppure mi insegnasse qualche mossa di lotta. Se ancora mi scompigliava i capelli, di rado mi abbracciava.

Non so quanto questo cambiamento dipendesse da una scelta di Patrick e quanto invece non avesse origine dal mio maggiore riserbo. Ero cambiato anch’io. Avevo quattordici anni, l’età di Patrick quando era arrivato, ma ero molto cresciuto negli ultimi tempi e ne dimostravo almeno due di più. Avevo raggiunto l’altezza di mio padre, superando mio fratello, che pure aveva cinque anni in più di me. Mi sentivo perennemente a disagio in un corpo di cui non sapevo prendere le misure.

Ma non era questo a rendere meno spontanei i miei rapporti con Patrick. Da tempo mi rendevo conto che il contatto con lui mi turbava. Era successo una volta, sei mesi prima. Patrick si era avvicinato di soppiatto – sapeva muoversi come un gatto, nonostante la sua stazza – e mi aveva imprigionato tra le braccia. Mi teneva stretto, sfidandomi a liberarmi. Ma la pressione del suo corpo contro la mia schiena aveva avuto un effetto dirompente, provocando una violenta erezione. Mi ero dibattuto, come altre volte, senza ovviamente ottenere nessun risultato, se non quello di aumentare la mia eccitazione. Avevo desiderato, violentemente, che Patrick mi appoggiasse una mano sulla patta, volevo sentire il suo palmo contro il mio uccello, le sue dita sulle palle.

Non so se Patrick si fosse accorto di ciò che provavo. Quella volta mi aveva lasciato libero, prendendomi affettuosamente in giro, come faceva di solito. Eppure io avevo letto nella sua voce, nel suo sguardo, un’esitazione, che forse era soltanto nella mia testa.

Da allora qualche cosa era cambiato nei nostri rapporti. C’era sempre lo stesso affetto, ma i nostri corpo di rado entravano in contatto. Io però lo guardavo, quando lui era indaffarato e non si accorgeva di essere osservato. Guardavo la macchia di sudore sul dorso della camicia o sotto le ascelle – Patrick sudava molto – e le mani forti, coperte di una peluria bionda. Guardavo l’ampio torace, la pancia sporgente, le braccia nerborute. Patrick era un Ercole, costruito senza risparmiare il materiale, anzi, con una certa sovrabbondanza. D’estate lavorava spesso a torso nudo e sul petto aveva una vera e propria selva di un biondo scuro, che intorno ai capezzoli diventava particolarmente fitta e intricata. In quegli ultimi mesi il vederlo così mi toglieva il fiato.

 

Arrivò l’ultima sera. Dopo cena Patrick si congedò da tutti noi: l’indomani sarebbe partito molto presto. Mi abbracciò nuovamente, mi passò una mano sulla testa e mi augurò buona fortuna. Poi si ritirò nella scuderia.

Io non riuscivo a dormire. Il pensiero che Patrick sarebbe partito era uno squarcio.

A un certo punto decisi di scendere per salutarlo ancora. Non sapevo se lo avrei trovato sveglio. Quando arrivai di fronte alla porta della scuderia, esitai prima di entrare. Poi spinsi silenziosamente il battente. C’era una luce in fondo, Patrick aveva acceso una lanterna. Richiusi la porta e mi fermai. Il cuore mi batteva in gola. Non avanzai verso la luce, ma scivolai in un angolo buio. Non avrei saputo spiegarmi il mio comportamento. Avvertivo una tensione fortissima, ma indefinita.

Patrick era dietro uno dei box e non potevo vederlo. Poi comparve. Mi sembrò che il cuore smettesse di battere. Patrick era nudo. Lo avevo visto spesso senza camicia, ma mai senza pantaloni.

Lo sguardo corse subito in basso, al ventre, al sesso. Anche lì Patrick era stato costruito con abbondanza di materiale. Il suo uccello mi parve enorme per lunghezza e volume, anche se era a riposo. Patrick si era messo davanti a uno dei box dei cavalli e accarezzava il muso dell’animale. La lanterna lo illuminava parzialmente, in un gioco di luci e di ombre, che nascondeva e metteva in risalto la sua imponente virilità. Io lo vedevo di profilo e fissavo abbagliato il suo sesso, leggermente arcuato, che dal ventre, coperto da un groviglio di peli più scuri di quelli del torace, scendeva ad appoggiarsi sulle grandi palle.

 Le gambe non mi reggevano più e mi parve quasi di svenire. Chiusi gli occhi, cercando di scuotermi. Poi li riaprii e li fissai nuovamente su Patrick, sui lineamenti decisi del suo volto, sulla curva del suo ventre, su quella del suo sesso. Mi sembrò di fare fatica a respirare. Il sangue affluiva al mio uccello e un desiderio feroce si impadronì di me. Ma non mi mossi.

Patrick passava da un cavallo all’altro, accarezzandoli. Si congedava da loro. Nel suo movimento si era avvicinato e ora era a pochi passi da me. L’angolo in cui mi ero nascosto era completamente buio e Patrick non poteva vedermi, ma temevo che, avvicinandosi ancora, la luce della lanterna mi raggiungesse. E soprattutto avevo paura che sentisse il mio respiro affannoso. O forse il battito selvaggio del mio cuore, che mi rintronava nelle orecchie.

Dopo aver salutato l’ultimo cavallo, il primo entrando, Patrick si voltò verso la porta e si fermò. Lo vedevo sempre di profilo, ma dall’altra parte. Fissava la porta, ma il suo sguardo si perdeva in lontananza. Il braccio sinistro, che reggeva la lanterna, non era più sollevato, per cui ora la luce proveniva dal basso

Guardai il suo viso assorto, poi gli occhi scesero verso il grande uccello e, con un sussulto, mi accorsi che era cresciuto di lunghezza e volume. Lo fissai, attonito, e vidi che era percorso da un lento movimento, la pelle si tendeva e la carne si espandeva, iniziando a sollevarsi.

Patrick alzò la lanterna, che era regolabile, e lasciò solo uno spiraglio di luce. Abbassò di nuovo il braccio. Un debole raggio illuminava la massa di carne che continuava a sollevarsi gradualmente e a espandersi. Ora l’uccello era quasi verticale e sempre più assumeva l’aspetto di un robusto palo, massiccio e teso allo spasimo. Anch’io ero eccitato, come mai lo ero stato nella mia vita, con un’intensità che mi bruciava la gola e mi stordiva, ma la mia erezione era irrisoria in confronto a quella che potevo contemplare.

Guardavo affascinato quella lama svettante contro i peli del ventre, con la cappella violacea completamente scoperta; guardavo le grandi palle che la peluria ombreggiava. Mi appoggiai alla parete, sentendo che le gambe non mi reggevano più.

Patrick rimase un buon momento immobile, ma il grande uccello teso vibrava leggermente, come dotato di vita autonoma. Poi Patrick abbassò la testa, guardò il suo sesso, senza che il suo viso tradisse la minima emozione. La sua destra si avvicinò all’asta, l’afferrò tra il pollice e le altre dita, cingendola come avrebbe potuto afferrare un grande bastone nodoso. Rimase un attimo ferma e poi incominciò a muoversi ritmicamente, verso l’alto e verso il basso.

Io avevo le mani incollate contro la parete, come se temessi di non reggere, ma mi sembrava che la mano di Patrick si muovesse sul mio uccello allo stesso ritmo con cui percorreva il suo. La mia eccitazione cresceva e la tensione era ormai insostenibile. Strinsi le mani a pugno e in quel momento, senza che mi fossi nemmeno sfiorato, sentii il mio seme uscire impetuoso, mentre dalla cappella violacea di Patrick un getto saliva alto, brillando per un attimo alla luce della lanterna, per poi ricadere e perdersi. Chiusi gli occhi, scosso da brividi violenti.

Lentamente ripresi a respirare normalmente e il battito del cuore divenne meno frenetico. Patrick era sempre immobile, il grande uccello nella sua mano. Aveva gli occhi chiusi.

Poi si voltò e si diresse al fondo della scuderia, dove di solito dormiva. Spense la fiamma della lanterna.

Io raggiunsi la porta e uscii, cercando di muovermi con la maggiore cautela possibile. Ma mentre chiudevo la porta sentii la voce di Patrick:

- Bart!

Doveva essersi accorto che qualcuno aveva aperto la porta. Fuggii via, senza fermarmi, in preda a un terrore cieco. Patrick aveva capito che io ero dentro alla scuderia o aveva pensato che stessi arrivando solo in quel momento? Non lo sapevo, ma non me la sentivo di affrontarlo. Mi rifugiai nel mio letto.

L’indomani mattina, quando mi alzai, Patrick era già partito.

 

*

 

Patrick scrisse poche volte negli anni della guerra. Diede notizie di sé, le chiese di noi. Erano lettere brevi, in cui diceva molto poco. Soltanto leggendo gli indirizzi, che forniva perché mia madre potesse rispondergli, scoprimmo che era stato promosso.

Tornò da noi alla fine della guerra, dopo quattro anni. Era in divisa e aveva il grado di sottotenente: non era poco per uno che si era arruolato come soldato semplice e sapeva appena leggere e scrivere. Era un po’ ingrassato, ma non era cambiato molto. Io avevo ormai diciott’anni ed ero ancora cresciuto, ma Patrick rimaneva più alto di me. Era davvero un gigante, non era solo la mia memoria a ingrandirlo.

Mio padre sperò che riprendesse il lavoro da noi: l’allevamento di cavalli prosperava, ma non come ai tempi di Patrick. Si guardò bene dall’esprimere una richiesta, per evitare che Patrick avanzasse troppe pretese. Si aspettava che fosse lui a chiedere.

A me bastò vedere Patrick in divisa per capire che non sarebbe mai tornato. Era venuto per salutare, per congedarsi definitivamente da noi. Ormai la sua vita era altrove.

Quando mio padre capì che Patrick non era venuto per restare, si irritò e non si preoccupò di nasconderlo. Se Patrick non poteva essergli utile, non gli importava niente di lui. Patrick mangiò da noi, perché mia madre non accettò un rifiuto. Mio padre gli disse, sprezzante, che avrebbe potuto dormire nella scuderia, come ai vecchi tempi. L’idea di ospitare un ufficiale nella scuderia era vagamente ingiuriosa, ma Patrick accettò. Io rimasi stupito, ma quando ci salutò dopo cena, Patrick mi si avvicinò e mi chiese se avevo voglia di tenergli compagnia per un po’. Naturalmente gli dissi di sì, ma mi sentivo alquanto agitato.

Ero stato tutta la sera in preda a emozioni diverse. Ero contento di rivedere Patrick, felice di averlo di nuovo vicino, anche se per poche ore. Ma la sua presenza mi turbava, come quattro anni prima, e nei miei pensieri ritornava il ricordo di quella sera. Mille volte l’avevo rivista nella mia mente e aveva accompagnato i miei piaceri solitari. Da un anno avevo rapporti con Jim, che aveva la mia età e viveva in un ranch non lontano. Ma a volte, nei nostri giochi d’amore, mi capitava di pensare a Patrick.

Ci dirigemmo alla scuderia. Patrick mi chiese notizie dell’allevamento e dei cavalli, guardò con cura gli animali, mi diede alcuni consigli e mi suggerì come curare uno stallone che zoppicava.        

Poi ci sedemmo sul fieno, uno di fronte all’altro, e Patrick mi chiese:

- Come stai, Bart?

Esitai. Sapevo qual era il senso di quella domanda. Non era una richiesta generica sulla mia salute. A quella avevo già risposto quando Patrick era arrivato. Ora voleva sapere come stavo davvero, dentro.

- Sto bene, Patrick. Mi piace lavorare con i cavalli, le cose che mi hai insegnato mi sono servite moltissimo.

- Come va con tuo padre? E con Derek?

Patrick aveva colto nel segno. Feci una smorfia. Non era facile spiegare.

- Pa’ l’hai visto, è sempre lo stesso, se non peggio. Anche se le cose vanno bene, è di una tirchieria insopportabile. Derek… è sulla sua strada.

- Non deve essere molto piacevole qui per te…

Chinai la testa e non dissi nulla. Patrick mi spingeva a pormi domande a cui non sapevo dare risposte.

- Conti di rimanere qui?

Non me l’ero mai chiesto. Ma ora mi sembrava di conoscere la risposta. Scossi la testa.

- No, non credo, penso che partirò per cercare un lavoro in qualche allevamento di cavalli.

- Hai tempo per pensarci. Fa’ quello che ti senti di fare.

Guardai i cavalli. Mi sarebbe spiaciuto lasciarli, ero affezionato a ognuno di loro, come lo era stato Patrick. Ma anche lui li aveva lasciati.

Il pensiero di quella notte di quattro anni prima ritornò, violento. D’improvviso mi resi conto che il sangue affluiva al mio uccello. Mi sentii a disagio sotto lo sguardo di Patrick. Abbassai gli occhi.

- E per il resto, come stai Bart? Come stai, davvero?

- Sto bene.

Ci fu un attimo di silenzio. Poi aggiunsi:

- Mi sei mancato da morire, Patrick.

- Anche tu mi sei mancato. Più di tutti.

Avrei voluto chiedere perché se n’era andato, ma ormai non aveva più senso. Ci fu un lungo momento di silenzio.

- Non voglio trattenerti, Bart. Volevo solo sapere che tu stessi davvero bene.

- Che cosa farai, Patrick?    

- Andrò dove mi mandano. Forse all’ovest.

Lo guardai negli occhi. Guardai quel viso largo, che conoscevo benissimo, le labbra spesse incorniciate dai baffi e dalla barba chiari. Poi guardai le grandi mani che teneva sulle gambe, mani forti, con le dita corte, coperte anch’esse da un velo di peli chiari.

- Patrick…

Non sapevo che cosa volevo dire. Non sapevo perché avevo aperto la bocca e avevo pronunciato il suo nome. Ci guardammo un momento senza parlare. Fu lui a rompere il silenzio.

- Grazie, Bart. Tu e tua madre siete stati la mia famiglia. Vi porterò sempre con me. 

- Patrick…

Mi interruppi, non riuscivo a proseguire, non trovavo le parole. Mi alzai di scatto. Anche Patrick si alzò. Eravamo uno di fronte all’altro. Patrick mi sorrideva, ma gli leggevo negli occhi un interrogativo. Non sapeva spiegarsi il mio comportamento. Ci fu di nuovo un momento di silenzio, poi Patrick fece un passo avanti, mi abbracciò e si staccò subito. Non ebbi il tempo di abbandonarmi a quella stretta.

- Addio, Bart. Mi farebbe piacere se tu mi facessi avere tue notizie.

Annuii. D’improvviso avevo voglia di piangere. Uscii dalla scuderia e corsi in camera mia, ricacciando indietro le lacrime.

Mi stesi sul letto, ancora vestito e rimasi nel buio a fissare il soffitto.

Non so quanto tempo rimasi così, ma a un certo punto mi alzai e scesi in silenzio le scale. Tutti dormivano. Mi avvicinai alla porta della scuderia. Nessuna luce filtrava. Rimasi fermo davanti alla porta, il cuore che mi batteva freneticamente. Non c’erano pensieri nella mia testa, mi rifiutavo di pensare. Ero bloccato davanti a quella porta, incapace di entrare o di andarmene. Mi sembrava di avere le gambe chiuse in una morsa.

Chiusi gli occhi. Poi li riaprii e feci il passo che mi separava dalla porta. Esitai ancora un attimo, spinsi il battente ed entrai.

Non c’era nessuna luce, ma Patrick mi sentì, perché chiamò:

- Bart, sei tu?

Avevo la gola secca, ma riuscii ad articolare:

- Sì, sono io.

- Aspetta che accendo la lanterna.

Poco dopo una tenue luce apparve, non lontano dalla porta. Mi avvicinai. Patrick era seduto sulle balle di fieno, a torso nudo e scalzo. Non so se stesse dormendo così o se invece si fosse coperto prima di accendere la lanterna. Non aveva importanza. Vederlo senza camicia, con il petto villoso sporgente, sotto cui i pantaloni si abbassavano, mi lasciò di nuovo senza fiato.

- Che cosa succede, Bart? Qualche problema?

Feci due passi avanti. Ora i miei piedi quasi toccavano quelli di Patrick.

I nostri visi erano vicini. Patrick mi scrutò e mi sembrò che con quegli occhi azzurri mi leggesse dentro, fino alle pieghe più riposte dell’anima. Poi mi prese la testa tra le mani e la avvicinò alla sua. Mi baciò.

Chiusi gli occhi e mi abbandonai a quel bacio. Patrick mi strinse tra le braccia, poi si distese sul fieno, senza lasciarmi. Mi ritrovai appoggiato sul suo corpo e il desiderio mi travolse, feroce. Patrick mi mise le mani sul culo e mi baciò di nuovo. La sua lingua si fece strada tra le mie labbra. Allora socchiusi la bocca, lasciando che entrasse a raggiungere la mia.

Patrick ritirò la lingua e mi strinse di nuovo, ruotando su se stesso. Mi ritrovai disteso sul fieno, sotto di lui. Il suo peso mi schiacciava, togliendomi il fiato. Era una sensazione bellissima.

- Bart, Bart, Bart.

Ripeteva il mio nome, ma mi sembrava che fosse il nome di un altro: pronunciato da lui, si trasformava in un nome magico, nella formula incantata che apriva la porta di un reame di sogno. Non poteva esserci nulla di più bello che sentire la voce di Patrick che scandiva quei suoni.

Mi baciò ancora, a fondo, e io gli afferrai i capelli con la destra, cercando qualche cosa a cui aggrapparmi, perché quel corpo che mi sovrastava mi stava trascinando in un gorgo senza fine, da cui non sarei più riemerso, da cui non volevo più riemergere, perché desideravo solo sprofondare.

- Lo vuoi davvero, Bart?

Sapeva benissimo che lo volevo non meno di lui, ma aveva bisogno di sentirselo dire e io risposi.

- Sono anni che lo desidero.

- Anch’io.

Dopo un altro bacio, si sollevò, mettendo le ginocchia ai lati delle mie gambe, e prese a spogliarmi, con grande delicatezza. Quando fui a torso nudo, mi passò la mano dal collo al ventre, in una carezza leggera, poi le sue mani scivolarono di lato, dalle ascelle alla vita, per ritornare, più decise, quasi brusche, a sfregarmi la pelle, incendiandola. Si fermarono intorno ai capezzoli, un dito girò intorno, due volte, poi le mani afferrarono la carne, strinsero e, chinandosi, Patrick morse leggermente prima un capezzolo, poi l’altro.

Sussultai. Non avevo mai pensato che si potesse fare, non sapevo che potesse trasmettere una sensazione così forte.

Patrick sorrideva e incominciò a stuzzicarmi i peli del torace, tirandoli. Intorno ai capezzoli avevo anch’io parecchi peli, anche se certo nulla a che vedere con la foresta intricata che copriva il petto di Patrick.

Seguendo il suo esempio, incominciai a giocare con i suoi peli, affondando le mani in quel vello fitto, mentre i miei polpastrelli accarezzavano la carne. Scesi fino al ventre che sporgeva dai pantaloni. Al di sotto potevo vedere una grande protuberanza: anche lui era, come me, eccitato. Avrei voluto poggiare la mano sul rigonfio, ma un’improvvisa timidezza, assurda in quella situazione, mi bloccò. Patrick però capì e si slacciò la cintura, si sollevò leggermente sulle ginocchia e si abbassò i pantaloni, lasciando che il suo uccello svettasse, grande e teso, davanti al ventre.

Lo fissai senza parole, la gola secca, un vago stordimento. Era magnifico, gonfio di sangue, la cappella rossastra che emergeva dalla pelle più chiara, una grossa vena che correva, leggermente in rilievo, lungo un lato.

Lentamente, quasi temessi di scottarmi, avvicinai una mano a quel palo di carne e con due dita lo accarezzai. Un desiderio violento mi prese: volevo sentirne il gusto, prenderlo in bocca.

Ma Patrick si alzò, finì di spogliarsi e mi tolse le scarpe e i pantaloni, lasciandomi nudo. Poi si inginocchiò tra le mie gambe divaricate e fu lui a prendermi in bocca l’uccello. Quando sentii la sua bocca umida e calda accogliere la cappella, sussultai. Era un piacere tanto forte da essere quasi intollerabile.

Accarezzai la testa di Patrick, quei capelli biondi tagliati corti, mentre la sua lingua e le sue labbra mi strappavano gemiti di piacere. Le mani di Patrick percorrevano il mio petto, a tratti stringevano i capezzoli, poi scendevano nuovamente. E la sua bocca proseguiva nella sua opera. La mia testa a tratti scattava di lato, quando la carezza di quella lingua o di quelle labbra divenivano troppo forti. Di colpo mi accorsi che stavo venendo, troppo tardi per avvisare Patrick. Nel ventre fu come un’esplosione, che mi lanciò in aria e scagliò il mio seme nella bocca di Patrick.

Rimasi a lungo fluttuando, mentre Patrick mi puliva con cura, succhiando ogni goccia. Poi lentamente ridiscesi a terra. Allora mi resi conto che avevo chiuso gli occhi e li riaprii. Patrick lasciò la sua preda e mi sorrise.

Io lo guardai. Fissai il grande bastone, teso alla spasimo. Sapevo che cosa volevo, ma avevo difficoltà a dirlo. Mi vergognavo, anche se ormai non avrebbe più dovuto esserci spazio per l’imbarazzo tra di noi.

Patrick si stese su di me e avvertii nuovamente la sensazione di quel peso. Avvicinò la sua bocca alla mia e ci baciammo. Poi si mise a baciarmi il collo, le orecchie, le guance, gli occhi.

Io gli accarezzavo la schiena, percorrendola con le mani, scendevo fino al culo, pizzicavo la carne, afferravo i peli, poi risalivo, graffiavo. Contro il mio ventre sentivo il suo uccello e infine il desiderio fu più forte del pudore.

- Prendimi, Patrick.

La mia voce era roca. Patrick alzò un po’ la testa e mi guardò negli occhi.

- Non voglio farti male, Bart…

Io sorrisi, gli presi la testa tra le mani, lo baciai di nuovo, poi gli ingiunsi:

- Alzati!

Patrick si alzò. Io contemplai un momento il suo corpo massiccio, la grande picca sollevata, poi mi girai, stendendomi sul ventre. Allargai le gambe.

Avevo paura, sapevo benissimo che avrei avuto difficoltà ad accogliere quel palo di carne, ma lo desideravo con tutto me stesso.

Patrick mi accarezzò il culo, a lungo.

- Hai il più bel culo di tutti gli Stati Uniti.

Rise e nella sua risata colsi trionfo, ma anche esitazione.

Mi morse il culo con forza, poi prese a leccarmi il solco tra le natiche. Sentire la sua lingua che mi accarezzava e preparava la strada, mi strappò un gemito di puro piacere. Il desiderio premeva e nuovamente sentii che il mio uccello si irrigidiva.

Patrick si stese su di me, divaricò le mie natiche e sentii la punta della sua arma premere contro l’apertura e lentamente avanzare. Lo desideravo più di ogni altra cosa al mondo, ma fu ugualmente doloroso. Anche se Patrick si muoveva con molta lentezza, il volume della sua arma dilatava la carne al limite estremo delle sue possibilità. Eppure la sensazione di essere penetrato era bellissima. Patrick era sopra di me, dentro di me, il suo corpo mi inchiodava sul fieno e accendeva un fuoco che bruciava, doloroso e splendido.

Patrick non avanzò fino in fondo, si fermò e mi lasciò assaporare il piacere intenso di averlo dentro di me. Era ciò che volevo, ciò che per anni avevo sognato. Essere suo, appartenergli.

Sapevo che se ne sarebbe andato, che non avrei potuto trattenerlo, ma in quella notte io gli appartenevo e nulla al mondo avrebbe più potuto cancellare il momento in cui era stato dentro di me.

Patrick prese a muoversi con molta delicatezza e quell’avanzare e retrocedere faceva pulsare il mio desiderio. Ogni qual volta Patrick si ritraeva, io desideravo che la sua carne tornasse a riempire la mia e quando lui nuovamente avanzava, era come se rispondesse a una mia muta richiesta.

Proseguì a lungo, muovendosi sempre con grande lentezza, e man mano che procedeva, io sentivo crescere la tensione dentro di me. Senza rendermi conto, incominciai a gemere, senza ritegno. Patrick aumentò la potenza e la rapidità delle sue spinte, esaltando la mia sofferenza e portando al parossismo il mio piacere.

Quando infine il seme di Patrick mi riempì le viscere, mi sembrò di venire insieme a lui, tanto il piacere che provai fu intenso. Ma era un piacere diverso, che esplose dentro di me e non ne uscì. Un piacere che dal mio culo si diffondeva in tutto il corpo.

Con molta delicatezza, Patrick si ritrasse, poi si sollevò e mi voltò.

Io lo guardai e sorrisi. Alzai un braccio e gli sfiorai il viso con due dita.

Ero ancora eccitato, l’uccello teso mi batteva contro il ventre.

Patrick mi accarezzò il sesso con la mano, poi lo prese e lo tenne in verticale. Si mise sopra di me, le gambe in avanti, e incominciò ad abbassare il culo, fino a che non fu sulla punta del mio uccello. Allora si infilzò, lentamente.

Io chiusi gli occhi, sopraffatto da una sensazione di piacere tanto forte, quale non avevo mai provato. Patrick scese fino a che non si sedette sul mio ventre, totalmente infilzato sulla mia picca. Poi prese ad alzarsi e abbassarsi aritmicamente. Fu una sensazione ancora più possente di tutte quelle che avevo provato fino ad allora. Patrick mi aveva posseduto e ora io lo possedevo, io ero dentro di lui, dentro il suo culo e quel culo mi trasmetteva un piacere illimitato. Gemetti una volta e poi altre, sempre più forte. A tratti chiudevo gli occhi, travolto dal piacere che saliva a ondate. Poi lo riaprivo e guardavo il viso di Patrick, su cui scendevano goccioline di sudore. Sapevo che anche lui stava godendo e soffrendo e sapevo che ero io a dargli piacere e infliggergli dolore e ne ero orgoglioso e felice. Non avrei rinunciato né a portarlo al piacere, né a farlo soffrire, perché erano entrambi anelli della catena che ci univa, che ci avrebbe uniti per sempre, anche se ci saremmo lasciati molto presto.

Infine venni, con un urlo che Patrick soffocò, mettendomi una mano davanti alla bocca.

Guardai il suo poderoso uccello, di nuovo duro. Lo accarezzai, ma ero troppo debole: mi sentivo svuotato, spossato. Gli presi una mano e la guidai al suo uccello. Lui sorrise e incominciò ad accarezzarsi.

Era bellissimo vederlo sopra di me, forte e imponente, sentire il suo peso sul ventre, la pressione del suo culo sul mio uccello, e vederlo che lentamente si masturbava.

Vidi che il viso gli si deformava in una smorfia di piacere e il seme schizzò e gli ricadde sul ventre.

Allora si sollevò e si distese su di me, accarezzandomi e baciandomi.

Rimanemmo a lungo così, incapaci di staccarsi, anche se ormai doveva essere molto tardi.

 

Infine Patrick disse che era ora di andare a dormire. Ci alzammo, ci pulimmo e io mi rivestii. Lui si mise solo i pantaloni. Mi guardò e mi abbracciò ancora.

- Addio, Bart, abbi cura di te. 

Avevo le lacrime agli occhi. Lo strinsi forte, poi mi staccai e uscii senza dire nulla.

 

2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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