Cavalleria
rusticana ovvero La vera storia di
Turiddu ed Alfio
un racconto di Giovanni Verga e Ferdinando Neri
Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma Turiddu alle femmine badava poco: lui pensava sempre a
Santo, il fratellastro di compare Alfio, che quando Turiddu
era partito era appena un ragazzo. Si erano scambiati solo un bacio, ma quel
bacio gli aveva acceso il cuore. Alfio possedeva parecchie
terre ed era ricco come un maiale, dicevano, ma faceva vivere il fratello
peggio dei porci. Santo era il figlio della fantesca ed il padre l’aveva
sposata, solo perché era vecchio ed il curato l’aveva rintronato con la
minaccia dell’inferno: il curato era un vero castigo di Dio. E così, mentre
quella poveretta stava per partorire, padron Rocco se l’era presa per moglie,
tra il medico ed il notaio che si guardavano in faccia imbarazzati. Ma padron
Rocco ci aveva una mano santa ad ammazzare le mogli e tre ore dopo era
vedovo, come la prima volta: ogni figlio che metteva al mondo, perdeva la
madre. Padron Rocco era campato
ancora quindici anni, ma a comandare in casa era Alfio. E Santo andava nei
campi, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse
stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i
muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a
ridosso del muro a tramontana, col sole, coll’acqua, col vento. Santo era
sempre senza scarpe ai piedi e senza uno straccio di cappotto. Santo doveva contentarsi
di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e furia,
all’impiedi, in un cantuccio del magazzino, in
mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini
scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la
campagna gelata, al tempo del seminare. Era avvezzo a tutto lui,
agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da
basto, a vedersi ingiuriato e beffato dal fratello, a dormire sui sassi,
colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a
digiunare era avvezzo, allorché Alfio lo puniva levandogli il pane o la
minestra. Solo la razione di busse non gliela levava mai Alfio, ma le busse
non costavano nulla. Turiddu avrebbe voluto parlargli, ma quando era
nei campi, Santo non era mai solo ed in paese Santo non si faceva vedere né
alla messa, né sul ballatoio. Turiddu passava per
la via dove stava Santo, ma le finestre erano sempre chiuse. I vicini se lo mostravano
con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere, ché Turiddu era un bell’uomo, e le ragazze lo spiavano dietro
le finestre, ma in cuore Turiddu aveva solo Santo. Infine un giorno, quando
ormai il sole calava, incontrò Santo, che tornava dai campi. Al vederlo si
fece rosso in volto e poi bianco. - Beato chi vi vede! - gli disse Turiddu. Santo lo guardò cogli
occhi timidi, ma dove ci si vedeva il cuore. - Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo
del mese. - Io sono tornato, ma voi
non vi fate mai vedere! - rispose lui e intanto se lo mangiava con gli occhi,
ora che il sole gli indorava dietro alle orecchie i capelli color d’oro e le
guance che ci avevano la peluria fine come le pesche. Turiddu
gli guardava gli occhi celesti come il fiore del lino. La nepitella
e il ramerino facevano festa, e la costa del monte, lassù fra i fichidindia,
era tutta rossa del tramonto, mentre le cinciallegre facevano gazzarra. - Mio fratello mi fa
uscire di casa solo per i lavori. - Sono fortunato che posso
parlarvi ora. Santo chinò il capo, cogli occhi lagrimosi. - È meglio che non ci
parliamo più, compare Turiddu. Non c'è la volontà
di Dio! Ora Turiddu
aveva il viso scuro ed imbronciato. - La volontà di Dio la
fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo
tornare da tanto lontano per trovare ste belle
notizie! Santo mantenne il capo
chino. - Sentite, compare Turiddu, lasciatemi raggiungere la mia casa. - È giusto. - rispose Turiddu - Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci
pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi
regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho
pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del
nostro paese. Ora addio, facemu cuntu
ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu
. Il poveraccio tentava di
fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro
al ragazzo dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di
là sulle spalle. Santo soffriva di vederlo così col viso lungo, però non
aveva cuore di lusingarlo con belle parole: dopo quello che gli aveva fatto
Alfio, a Turiddu non doveva pensarci. E poi, se
Alfio lo veniva a sapere, che lui gli parlava, a Turiddu
gli traeva fuori le budella della pancia. Ma Turiddu
il cuore in pace non se lo mise. Seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in
aria d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma Turiddu
di Santo era innamorato, proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene
ardere le carni sotto al fustagno del farsetto, e provare, fissandolo negli
occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Per un po’ Turiddu andò a lavorare per compare ‘Ntoni.
Era sempre stato un gran lavoratore. Ma neanche il lavoro riusciva a fargli
passare quell’arsura che aveva dentro. Quell’estate le domeniche le passava a
camminare come un forsennato: era la sola anima viva che si vedesse errare
per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse
dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan
lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte. Amava in particolare
spingersi fino alla sciara, che si stendeva
malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in
picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un
uccello che vi volasse su. Anche durante le belle
notti d’estate, raggiungeva spesso la sciara, su
cui le stelle splendevano lucenti. Turiddu, stanco
della lunga giornata di lavoro, si sdraiava con il viso verso il cielo, a
godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto. Ed amava la sciara soprattutto nelle notti di luna, in cui il mare
formicolava di scintille e la campagna si disegnava qua e là vagamente. Una domenica Turiddu si divertì a prendersi a pugni con Pizzuto, il quale non aveva paura nemmeno di Dio, sebbene
non avesse fatto il soldato, e andò a rotolare per terra davanti all’osteria,
col naso in sangue; Rocco Spatu, che aveva l’età di
Santo, volle sfidarlo anche lui, pur sapendolo più forte, e Turiddu se lo mise sotto i piedi. La sera dopo, alla sciara Turiddu trovò Rocco, che
lo sfidò di nuovo, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva
fatto il solletico dentro il cuore, e gli ballava sempre dinanzi gli occhi. Turiddu lo mandò a terra e quando vide che l’altro non si
levava, ma lo fissava come se volesse mangiarselo con gli occhi, gli calò le
brache e fece di lui quello che voleva. Ritornò al paese che il cielo
formicolava di stelle, ma nel cuore aveva un peso. Rocco tornò ad aspettarlo,
ma Turiddu non ne volle più sapere, perché lui
sempre in testa Santo aveva. Turiddu decise che quel peso doveva toglierselo
dal cuore. Allora tanto disse e tanto fece che entrò camparo
da Alfio, e cominciò a bazzicare per la casa ed a lavorare nei campi. Nei campi Turiddu lavorava come un pazzo, affastellava manipoli su
manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento
sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di rimanere vicino a
Santo. Alfio era contento di lui, già sapeva che Turiddu
era uno che lavorava, ma a vedere come si spezzava la schiena sui suoi campi,
gli si allargava il core. Santo e Turiddu non scambiavano mai una parola e chi li vedeva
insieme avrebbe giurato che erano nemici. Un giorno compare Alfio
dovette partire, per certi affari suoi che non poteva affidare a nessuno.
Doveva rimanere fuori una notte e chiese a Turiddu
di dormire nella casa e di vegliare su Santo. Di nessun altro si fidava. Così
si mise la volpe in casa, per vegliare sulle galline. Quella sera, mangiarono
pane colle olive nere ed un pezzo di formaggio di pecora, col vino. Poi la
fantesca si ritirò; Turiddu e Santo rimasero seduti
al tavolo, in silenzio. Turiddu gli prese una mano, ma Santo mise un
grido soffocato, cacciandosi indietro tutto tremante. - O che è stato? Come se
v’avessi dato uno schiaffo! Dunque è vero che non mi volete più bene? Santo, poveretto,
continuava a tremare come una foglia ed ebbe appena il fiato di biascicare: - Ve ne dovete andare,
compare Turiddu. Fissò gli occhi smarriti
in volto a Turiddu. - Santo diavolone! Neanche quando vostro fratello mi ordina di
restare, voi mi volete? Santo ripeté: - Ve ne dovete andare,
compare Turiddu. - Perché, Santo, perché? Santo non riusciva a
parlare. Turiddu non si dava pace: - Perché siete cambiato
tanto? Allora Santo si alzò, si tolse
la camicia e gli mostrò la schiena nuda, coperta di lividure. Era pallido
come un morto ed annaspava colle mani convulse, senza profferire parola,
fissando su Turiddu gli occhi pazzi di angoscia. Turiddu tacque. Poi disse, a voce bassa: - Alfio vi ha fatto
questo? Santo annuì, poi confessò,
a capo chino, con la voce soffocata dall’emozione: - Sì, compare Turiddu. Perché io non voglio, ma lui con la forza mi
prende, ogni volta, lo sa Iddio. Una vampata di rossore gli
accese il viso ed abbassò gli occhi. Aveva il viso tutto bagnato, ma non
s’accorgeva che piangesse. Turiddu non disse nulla. Le lagrime
gli scendevano amare e calde a lui pure lungo il viso che nascondeva tra le
mani. - Ve ne dovete andare,
compare Turiddu. Turiddu si alzò, mosso a compassione dalla
disperazione muta di Santo. Gli passò una mano sulla guancia, poi lo attirò a
sé. - Vi giuro che, finché
sarò in vita, Alfio non vi toccherà più. Lo teneva abbracciato,
colla testa sul petto, quasi che Santo volesse scappargli subito; e l’andava
accarezzando colle mani tremanti. E quella carezza leniva l’angoscia e
schiudeva vagamente, nell’avvenire, nell’ignoto, come una vita nuova, un
nuovo azzurro. A Turiddu
in cuore si gonfiava una grande tenerezza e le sue mani scendevano sul corpo
che gli tremava tra le braccia. Santo rannicchiò il capo nelle spalle, simile
ad una colomba trepidante che stia per essere ghermita. Poi non ne poté più e
si mise a baciarlo. Ora Turiddu
rideva, nell’impeto caldo che cominciava a fargli girare il capo, balbettando
e anfanando, stringendosi sul cuore che gli batteva fino in gola quel corpo
delicato che sentiva rabbrividire. Il lume, a cui mancava
l’olio, cominciava a spegnersi. Turiddu prese Santo
e lo portò sul povero giaciglio che la fantesca gli aveva preparato. Lo
spogliò, mentre Santo arrossiva di mostrarsi per la prima volta nudo dinanzi
agli occhi di Turiddu. Ma quando Turiddu si fu spogliato, Santo alzò gli occhi su di lui,
quegli occhi turchini e dolci che promettevano amore ed ubbidienza. Il lume
si spense e nella stanza fu buio. Anche quella notte Turiddu si spezzò la schiena sulle proprietà di Alfio,
arando e seminando senza posa la terra del suo padrone. Quando sentì il gallo, Turiddu si alzò. Guardò Santo, che si alzava con lui.
Pensò che nessuno gli aveva data una gioia simile, una vampata così calda al
cuore e alla testa. Alfio doveva tornare prima
di mezzodì. Quando Turiddu lo disse, Santo si mise
a tremare, anche se già lo sapeva. Turiddu gli
sorrise: - Non temete. Ve l’ho
promesso. Non disse altro. Santo
chiese: - Ma che volete fare? Turiddu non rispose. Santo insistette: - Parlate almeno! Turiddu lo guardò quasi non avesse udito, poi
gli sorrise. Turiddu e Santo andarono a lavorare nei campi,
ma quando un bracciante gli disse che Alfio era tornato e che se ne stava
all'osteria, Turiddu lasciò gli altri. Disse a
Santo di andare a dormire in un casale abbandonato e di non tornare a casa
sua per quella notte. Alfio era seduto da solo,
all’osteria non c’era nessuno, era ancora presto. La vigilia di Pasqua
avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Turiddu, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi
addosso, Alfio comprese che non era venuto per rendergli conto del lavoro del
giorno prima e posò la forchetta sul piatto. - Avete comandi da darmi,
compare Turiddu? - gli disse. - Nessuna preghiera,
compare Alfio, voleva parlarvi di una cosa che sapete, per vostro fratello. - Son qui, compare Turiddu. Il giovane gli buttò le
braccia al collo. - Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare. - Aspettatemi sullo
stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme. Con queste parole si
scambiarono il bacio della sfida. Alfio strinse fra i denti l'orecchio di Turiddu, e così gli fece promessa solenne di non mancare. Prima di giorno Turiddu si prese il suo coltello a molla, che aveva
nascosto sotto il fieno, quando era andato coscritto, e si mise in cammino
pei fichidindia della Canziria. Sullo stradone lo
aspettava Alfio, che aveva il diavolo in corpo, perché non aveva trovato in
casa il fratello: che mala Pasqua gli aveva dato il Signore! Per Santo era
meglio che lui non tornasse più. - Compare Turiddu, - cominciò Alfio dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, - quant'è vero Iddio, vi ammazzerò come un cane. - Così va bene, - rispose compare Turiddu, spogliandosi del farsetto, - e picchieremo sodo tutt'e due. Entrambi erano bravi
tiratori; Alfio toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio. - Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi! - Sì, ve l'ho detto. Turiddu continuò ad incalzare l’altro, fino a
che lo raggiunse con una botta all'anguinaia, un
colpo ben dato. - Ah! - urlò Alfio, - son
morto. Turiddu menò un secondo colpo, che completò
l’opera del primo. - Così pagate per quello che avete fatto a vostro fratello. Alfio urlò di nuovo,
mentre il coltello gli cadeva dalla mano. Turiddu gli tirò un’altra botta nello stomaco e
una alla gola. Alfio annaspò un pezzo di
qua e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli
gorgogliava spumeggiando nella gola e non poté profferire nemmeno: - Ah,
mamma mia! Trovarono compare Alfio
morto alla Canziria, ma nessuno aveva visto nulla.
Dissero che doveva essere stato per una questione di donne. Uno di Catania ci
scrisse su una storia. Turiddu divenne il fattore di Santo, il quale
aveva ereditato i beni del fratello, e da allora dormì nella sua casa. Faceva
buona guardia sulle proprietà e sul padrone. 2007 |