Un porcorso fuori percorso

Uno scherzo in rosso

 

Porcorso3

 

      - Potresti almeno evitare questo linguaggio da caserma.

      Massimo Aliotti apre la bocca per replicare, ma uno sguardo supplichevole della moglie lo blocca. Bofonchia qualche cosa e tace, mentre la rabbia per l’osservazione del figlio lascia il posto alla frustrazione. Che cosa ha detto? Che cosa cazzo ha detto perché suo figlio lo debba rimproverare per il linguaggio che usa? Sarà libero di usare il cazzo di linguaggio che vuole in quella fottuta casa in cui dovrebbe essere, se non altro perché porta lo stipendio, il padrone? Una volta, quando lui era giovane, erano i genitori a rimproverare i figli perché si permettevano di usare certe parole (come se anche loro non le usassero, quando i figli non sentivano!). Anche lui ha cercato di insegnare ai ragazzi a moderare un po’ il linguaggio, senza ottenere grandi risultati. Ma con Enrico no, Enrico è un’altra cosa. Enrico lo rimprovera se lui si lascia sfuggire un’espressione come quella che ha usato: “Ha proprio avuto culo”. Ma come si può definire “espressione da caserma” una frase di quel genere? Enrico è proprio…

      Enrico è un problema, di cui il signor Aliotti non riesce a venire a capo. Il suo quarto e ultimo figlio, un bel ragazzo, sano come un pesce, forte, intelligente, bravo, a un passo dalla laurea. Che cosa si può pretendere di più? Il signor Aliotti sospira.

      A lui basterebbe che Enrico tornasse quello di due anni prima, un ragazzo normale, forse più chiuso, meno solare di quando aveva quindici anni, ma senza problemi. Eppure sua moglie dice che sono diversi anni che c’è qualche cosa che non va. Enrico ha pochi amici, lui che è sempre stato così socievole. Enrico non fa più nessuno sport di squadra, lui che era il capitano della squadra di pallanuoto. Enrico è diventato di un pudore assurdo, manco fosse una vergine di un romanzo ottocentesco, non si può parlare di sesso, non si può neanche dire “Ha avuto culo” o “Alle regionali l’hanno trombato” o ... Il signor Aliotti ci rinuncia. L’elenco delle espressioni che non si possono usare riempirebbe l’enciclopedia.

      Enrico si alza e saluta. Dà un bacio a sua madre, poi si rivolge a lui. Gli sorride e gli chiede scusa per la sua reazione. Il signor Aliotti vorrebbe saltargli al collo e abbracciarlo. O forse strozzarlo, non lo sa neanche lui. Enrico prende le sue cose ed esce per la gara. E il signor Aliotti si sente uno straccio.

      - Non te la prendere, Massimo, gli passerà.  

      Massimo Aliotti guarda la moglie e sa che neanche lei lo crede, ma hanno bisogno tutti e due di dirsi che passerà, che Enrico ritornerà quel ragazzo felice e dolcissimo che è sempre stato il loro orgoglio.

      Emma Aliotti si alza per sparecchiare e con la scusa di buttare l’immondizia lancia un ultimo sguardo a Enrico, che in cortile sale sull’auto e parte. Emma ha sempre paura, quando Enrico va via in auto. Non perché Enrico guidi come un pazzo, Enrico ha la testa a posto, Enrico non beve, Enrico non si fa, Enrico non fuma neppure, Enrico è attento e prudente. Ma Enrico è una pentola a pressione con la valvola  bloccata ed Emma ha paura, una paura dannata che quella pentola, sempre più sotto pressione, scoppi. E Dio solo sa che cosa succederà a Enrico, allora.

 

      Enrico non si sente una pentola a pressione. La sua sensazione è diversa: quella di un’inondazione che sale, contro cui lui deve costruire argini sempre più alti. È una fatica improba, perché il livello dell’acqua cresce senza interruzione ed Enrico non può distrarsi un attimo. Deve continuamente puntellare gli argini ed alzarli.

      Prima erano le immagini forti trovate su internet a scatenare in lui reazioni violente, di cui aveva paura. Poi, quando aveva smesso di cercare quelle immagini, spaventato da quello che provava, si era accorto che bastava molto di meno a farlo andare in tilt: era sufficiente il corpo nudo di un compagno sotto la doccia. E poi, quando aveva incominciato a evitare spogliatoi e palestre, aveva scoperto che ormai bastava un discorso, no una frase, una parola, qualunque riferimento, anche velato, al sesso, per scatenare una ridda di immagini e pensieri che non riusciva a sopportare.

      Ora Enrico non è in grado di reggere più nulla e continua ad alzare argini, ben sapendo che prima o poi si aprirà una falla.

      Ma da qualche tempo, da pochi mesi forse, ha capito che l’acqua non è solo su un lato dell’argine, ma anche dall’altro. L’argine non difende più niente, solo se stesso. Ed Enrico sa che quell’argine è sempre più fragile. Ma se l’argine crollerà, lui affogherà, in quella distesa immensa di acque torbide e troppo profonde. Sa di non saper nuotare, lui che ha partecipato ai regionali di nuoto, quattro anni fa. In quelle acque, lui non sa nuotare.

      Enrico cerca di distrarsi, di pensare ad altro. La gara di orienteering che lo aspetta è impegnativa. Un percorso lungo, in una zona piuttosto impervia. Una gara riservata ad atleti esperti.

      A Enrico piace l’orienteering. Camminare in mezzo a prati e boschi, alla ricerca delle lanterne: la testa è occupata e il corpo si gode la pace della natura senza che l’ozio del cervello faccia emergere i mostri sepolti. Enrico è diventato molto bravo, ha vinto già due gare importanti nei mesi scorsi. Questa potrebbe essere la terza.

 

      La gara è iniziata da neppure un’ora ed Enrico sa benissimo che non la vincerà. Non che sia un problema, non è così competitivo. Quello che gli brucia è aver sbagliato in modo così stupido, finendo del tutto fuori percorso, e, più ancora, aver cercato di recuperare senza tornare indietro, tagliando attraverso quel bosco troppo fitto. Due errori, uno peggio dell’altro. E, peggio di tutto, non essersi accorto di niente, non aver sospettato di essersi tenuto troppo in basso, fino al momento in cui è arrivato al laghetto. Il laghetto che doveva essere molto più a est.

      Bene, ha fatto una bella sciocchezza e ora non gli resta che tornare indietro e riprendere da capo il percorso, tanto per vedere com’è, oppure rinunciare completamente. Fa ancora due passi in direzione del laghetto, un piccolo turchese incastonato nel bosco. La luce del sole che gioca sulla superficie, appena increspata, qualche uccellino che canta, quel posto è un piccolo paradiso. Forse valeva la pena di finire fuori percorso, di perdere la gara, di smarrirsi.

      Lo sente in quel momento, vicinissimo, tanto vicino da farlo sobbalzare: una specie di grosso grugnito, potrebbe essere un cinghiale, ma non lo è. È, semplicemente, un enorme rutto. Enrico si volta in direzione del maiale che ha ruttato in quel modo e lo vede.

      Non può non vederlo, è a due metri da lui. È seduto, la schiena contro un albero, le gambe allargate. Non può non vederlo, non vedere che è un uomo massiccio, un po’ pelato, con una barba nera, capelli neri, peli neri. Peli neri dappertutto, non può non vederli benissimo, perché l’uomo è nudo, completamente nudo. Ed ha peli ovunque, salvo su quel grosso bastone che gli batte contro il ventre.

      Enrico vorrebbe non essersi voltato. Enrico vorrebbe scappare, scapperebbe, battendo il primato nazionale dei 100 metri, se quel bastone non gli sbarrasse la strada. Non che quel bastone si occupi di lui, se ne sta lì, teso, stuzzicato da una mano vigorosa, anch’essa pelosa, che quando Enrico si è voltato ha smesso per un attimo di accarezzarlo, ma poi ha ripreso. Quel bastone però è troppo grosso, troppo teso e quel corpo troppo scuro di peli, quelle braccia troppo robuste, per permettergli di scappare.

      Ed Enrico sente che il suo argine si sbriciola sotto i suoi piedi e dice, grida, con una voce stridula che non si conosce:

      - Lei è proprio un porco!

      L’uomo ride, una risata grassa, che gli scuote la pancia prominente, una risata che è il boato della dinamite, che fa saltare l’argine pezzo dopo pezzo.

      - Sì e non mi dispiace per niente. Ma tu mi sembri un cagacazzo.

      Enrico si sente soffocare dall’indignazione. Quell’uomo è un porco, uno schifosissimo porco. Lui deve andarsene. Ma come può andarsene, con quel bastone che gli sbarra la strada? E poi il bastone non è solo, sotto ci sono due grossi sassi pelosi, su cui inciamperebbe.

      Enrico cerca di dire qualche cosa, ma gli viene fuori un altro, risibile:

      - Porco!

      - Senti, rompicoglioni, se il mio cazzo non ti piace, puoi toglierti dalle palle ed andare a farti una sega da un’altra parte. Non ti ci ho mica chiamato io, qua.

      Ogni parola proibita è una voragine che si apre nell’argine. Quale argine? Non è rimasto più nulla, ormai, forse solo un pezzo di terra, su cui è quasi impossibile stare in piedi, ma Enrico sa benissimo che presto crollerà anche quello.

      Enrico non riesce a dire più nulla, proprio più nulla.

      - E piantala di guardarmi come se non avessi mai visto un cazzo duro in vita tua. Sei proprio un cagacazzo!

      L’argine è crollato ed Enrico precipita. Cade a terra, in ginocchio, esattamente ai piedi dell’uomo che adesso lo guarda preoccupato, si alza e si avvicina a lui, lo prende tra le braccia per impedirgli di crollare.

      - Stai male, ragazzo? Che hai?

      Enrico non sarebbe riuscito a parlare neanche prima, prima che quelle braccia pelose e calde lo stringessero, che quelle mani forti e calde lo toccassero, che quella faccia scura di peli fosse a una spanna dalla sua, che quegli occhi azzurri si fissassero sui suoi, che quella voce, divertita, ironica, ostile, divenisse anch’essa calda. E ora, ora che quelle braccia lo avvolgono, quelle mani premono sulla sua pelle, quella faccia si protende verso di lui, quegli occhi lo sommergono, quella voce continua a risuonare dentro di lui, ora Enrico sa di aver perso la parola, di non aver mai avuto l’uso della parola, di non sapere che esistono le parole. E gli occhi di Enrico, ed Enrico vorrebbe morire tre volte per impedirselo, ma non riesce, né a impedirselo, né a morire, gli occhi di Enrico scendono di nuovo verso il bastone, che è rimasto nella sua posizione, forse leggermente meno teso, ma maledettamente più vicino, tanto vicino che basterebbe allungare una mano, per sentirne la consistenza, il calore, per carezzarne la superficie.

      Enrico vorrebbe morire, perché sa che l’uomo ha seguito il suo sguardo e ne sente di nuovo la risata, che ora gli risuona nelle orecchie.

      - Beh, forse non sei un cagacazzo, ma un succhiacazzi. A me va bene.

      L’indignazione soffoca Enrico. Come osa, quel porco, pensare che lui… L’indignazione? Vorrebbe crederlo, Enrico, ma non ci crede neanche lui. La bocca è secca, non c’è un filo di saliva. Riesce, con uno sforzo immane, a distogliere lo sguardo dal serpente che lo affascina e i suoi occhi incontrano di nuovo gli occhi dell’uomo. Ha gli occhi di un azzurro intensissimo e quell’azzurro è l’acqua dell’onda che sale, sale, travolge quel che rimane dell’argine, quale argine? C’è mai stato un argine? No, c’è solo una distesa d’’acqua infinita e un vortice che risucchia Enrico verso il fondo. Perché Enrico non sa nuotare.

      Le mani dell’uomo sono sulle sue guance, ora, Enrico non sa se per trascinarlo a fondo o per salvarlo. La voce dell’uomo è di nuovo sollecita, calda, avvolgente, mentre gli dice:

      - Tranquillo, ragazzo. Non devi aver paura. Non succede nulla, se non lo vuoi.

      E poi le mani lo prendono, lo avvolgono, lo accompagnano ed Enrico sente la sua testa contro il petto dell’uomo e sa che quelle mani lo stanno tirando a fondo e lo stanno salvando. Il calore di quel torace è quasi intollerabile, la carezza dei peli è una stretta che lo soffoca, la pressione, delicata, della mano appoggiata sulla sua spalla, che tiene il suo corpo contro quel torace possente, è una pressa. Enrico sta piangendo e le mani dell’uomo lo accarezzano.

      Enrico non sa quanto tempo è passato. Gli sembra quasi di aver dormito o di essere svenuto. Alza la testa e fissa l’uomo, che a tradimento lo afferra per la nuca e gli preme le labbra contro le sue. Enrico chiude gli occhi, perché la sensazione è troppo forte, non può vedere, non riesce nemmeno a far stare dentro di sé tutto ciò che sta spingendo per uscire.

      E qualche cosa di caldo e umido preme tra le sue labbra, si apre la strada a forza, accarezza i denti e, mentre la bocca di Enrico si apre per lo stupore, l’inatteso ospite entra in casa e si installa. Enrico non riesce a respirare, Enrico ha smesso di respirare da tempo. È necessario respirare? No, è del tutto superfluo.

      Quando infine la lingua si ritira, Enrico tira indietro la testa e fissa la faccia dell’uomo che lo ha baciato. Il primo uomo che lo ha baciato. Lo guarda, frastornato. Ha le labbra un po’ spesse, carnose, un barbone nero, non lungo, ma fitto, e occhi allegri, occhi dolci, occhi sorridenti, sotto sopracciglia spesse e nere.

      Enrico vorrebbe dirgli che già gli sembra di amarlo, ma si vergogna. Vorrebbe dirgli grazie, ma si vergogna. Vorrebbe dirgli: - Ancora!-,  ma si vergogna. Enrico sorride e gli dice tutto il suo amore, infinito, tutta la sua gratitudine, per quegli interminabili secondi che è durato il loro bacio:

      - Sei un porco.

      L’uomo sorride, perché ha capito benissimo. Poi risponde:

      - Sì, sono proprio un porco e mi piace da pazzi fare ogni tipo di porcata. E mi sa che anche tu hai un buon talento da porco. Anche se ti manca l’esperienza. Ma quella si fa in fretta, se c’è la buona volontà.

      Enrico ha tutta la buona volontà di questo mondo e l’esprime con un sorriso, dicendo:

      - Sei proprio un porco!

      L’uomo lo accarezza, con quella mano grossa e delicata, che adesso appena gli sfiora la pelle, ma di colpo preme ruvida sulla guancia, poi gli afferra la nuca e di nuovo porta le loro bocche a incontrarsi.

      E d’improvviso Enrico ha paura, paura di affogare. Sfugge alla stretta e si alza. Si alza per correre via, lontano da quell’uomo, deve fuggire via, senza voltarsi indietro. Ma lo guarda, guarda l’espressione un po’ stupita del suo viso, guarda il bastone sempre teso. E sa che non può andarsene. L’uomo si mette in ginocchio davanti a lui. Alza le braccia e gli sbottona la camicia. Poi le sue mani si infilano sotto e incominciano a percorrere il petto glabro di Enrico, ad accarezzare, stringere, pizzicare, accarezzare, stringere, pizzicare, accarezzare.

      Enrico sta affogando, ma non cerca di salvarsi, non vuole salvarsi, vuole solo affogare. Lascia che la camicia scivoli a terra, mentre le sue dita accarezzano la testa dell’uomo. Le dita hanno deciso di farlo, le dita, non lui, lui non è in grado di decidere niente, non sa nulla, non ricorda nulla. Perché è lì? Che cosa fa? Non gliene importa niente. Non gliene importa… La parola non gli viene. Servono parole. C’è quella testa, quei capelli tra le sue dita, quella barba che accarezza. Ci sono altre dita, che gli stanno slacciando i pantaloni, i pantaloni scendono a terra e le mani dell’uomo scendono lungo le gambe, le accarezzano, di lato, dietro, scendono, risalgono, si infilano sotto i boxer, salendo lungo le cosce, poi scendono ancora ed Enrico quasi si stupisce che l’uomo non lo abbia ancora spogliato, ma le dita dell’uomo avvolgono i suoi polpacci, le mani risalgono, le dita pizzicano, con forza, il suo…

      - Hai un bel culo.

      Ecco, la parola che gli mancava, sì, Enrico è contento di avere un culo, un bel culo. Sì, il culo. Sa che quella parola è una minaccia, ma la morte non lo spaventa. Vuole solo affogare, ora.

      Le mani scendono, ma un dito è rimasto impigliato, trascina verso il basso ed Enrico, in un’ondata di nuovo ed imprevisto terrore, scopre di essere nudo davanti all’uomo inginocchiato ai suoi piedi.

      - Hai anche un bel cazzo.

      Se ci fosse ancora un po’ di terra dell’argine, ora salterebbe via, ma non c’è più terra, c’è solo un mare immenso ed Enrico è contento di avere un cazzo, un bel cazzo.

      L’uomo gli sta slegando le scarpe e ora, con pochi movimenti, scarpe, calze, pantaloni e boxer finiscono lontano, lontanissimo, a un passo da dove stanno loro, irraggiungibili, inutili. Perché si è vestito, oggi? Mica servivano i vestiti oggi. Ha solo perso tempo. Oggi…

      La bocca dell’uomo, la bocca dell’uomo. Che cosa sta facendo la bocca dell’uomo. Lo sta baciando, gli sta baciando la punta del… cazzo, sì, del cazzo.

      Poi la bocca si apre e la lingua accarezza ed Enrico lancia un gemito e poi grida il suo amore:

      - Sei un porco! Porco!

      La bocca non molla la sua preda, neanche ora che, con la velocità di una molla a lungo compressa, l’uccello di Enrico si solleva per alzarsi in volo, in un attimo è teso, la cappella fiammeggiante ancora nella bocca, che succhia con avidità.

      Qualche cosa esplode, qualche cosa che sale dal basso, da un punto non precisato, perché non ancora nominato, non conosce ancora la parola, perché l’uomo non gliel’ha ancora detta ed Enrico conosce solo le parole che l’uomo gli insegna, come un bambino che impara a parlare. Qualche cosa sale dal basso, sale sempre più forte e lo percorre, lo incendia, una scintilla di fuoco che diventa un rogo immenso, una diga che cede, un piacere come non ha mai sentito, come non pensava che potesse esistere, un’onda di piacere puro, tanto intenso da essere doloroso. Stringe forte la testa dell’uomo, la forza a rimanere attorno al suo cazzo, la forza, anche se l’uomo non sembra avere nessuna intenzione di ritirarla, anzi, accarezza, beve con avidità, inghiotte fino all’ultima goccia, con la lingua stimola ancora la punta del… come si chiama?, cazzo, sì, cazzo.

      - Cazzo, che bello!

      Gli è venuto alle labbra e non saprebbe spiegare. Il morigeratissimo Enrico Aliotti, che al liceo i compagni prendevano in giro, no, prendevano per il culo, adesso lo può pensare, perché ha un bel culo, no, non lo prendevano in giro perché ha un bel culo, lo prendevano in giro perché non diceva mai una parolaccia, non voleva nemmeno sentirle le parolacce, Enrico ha detto: - Cazzo, che bello!

      - Cazzo, che bello!

      È bello dirlo, è proprio bello ripeterlo. E lo direbbe ancora se le mani dell’uomo non lo trascinassero giù, costringendolo a inginocchiarsi davanti a lui, se la sua bocca non si trovasse davanti un’altra bocca e, prendendo un’iniziativa che l’Enrico Aliotti di un’ora fa non avrebbe osato, non dico pensare, ma nemmeno immaginarne la possibilità, la sua bocca, dicevamo, non si avventasse contro l’altra e la sua lingua, dimostrando uno spirito d’iniziativa irrefrenabile, dopo le parolacce non passasse all’esplorazione di un’altra bocca.

      Il bacio dura un’eternità, mentre le loro bocche sono unite e la lingua di Enrico accarezza ed esplora l’altra bocca, ma l’eternità gli sembra sia durata solo un attimo, quando le loro bocche si separano. Per fortuna è solo una pausa, perché le loro bocche si uniscono di nuovo ed Enrico finisce a terra, prima su un fianco, poi sulla schiena e su di lui preme il corpo dell’uomo. 

      È pesante, maledettamente pesante, meravigliosamente pesante, è splendido sentire quella massa che lo schiaccia, è splendido sentire quel bastone che preme sul suo ventre. Bastone? No, non è un bastone, è un cazzo, un meraviglioso, enorme cazzo ed Enrico prova una voglia irresistibile di sentire che gusto ha, ma non può muoversi e poi, perché dovrebbe muoversi, si sta così bene sotto cento chili di carne e di peli, con una lingua che ti percorre le labbra e poi incontra la tua e poi esce e va a spasso per la tua faccia, ti passa sugli occhi.

      Che sta facendo? È pazzo? L’uomo gli passa la lingua sugli occhi, nelle orecchie, gli morde un lobo, poi l’altro. Enrico si dice che quell’uomo è pazzo, Enrico si dice che quell’uomo è un porco, lo sta leccando, lui, tutto sudato per la camminata. Enrico spera solo che quel porco pazzo non smetta, perché non c’è nulla di più bello di quella lingua che gli sta passando dietro l’orecchio, di quei denti che ora gli hanno morso la guancia (Ahi!!), di quella lingua che ora esplora il suo collo e poi…

      Che cosa sta facendo? Che cazzo sta facendo?!

      - Ahi!

      Il morso al capezzolo gli ha strappato un gemito, che vuole soltanto dire: - Ancora! – Per fortuna l’uomo, il porco, ha capito e non interrompe il suo gioco di piccoli morsi, umide carezze, se non per succhiargli i capezzoli. Enrico si chiede: - Ma è pazzo? – Enrico grida: Sì, sì, sì! – Enrico non ha aperto bocca o forse ha aperto bocca, ma senza voce, solo perché il piacere che lo divora è troppo forte per stare tutto dentro, deve mandarne un po’ fuori, per poter accogliere l’altro che preme per entrare. Enrico non ha parlato, ma l’uomo, il porco, quel meraviglioso porco ha capito benissimo, perché ignora i suoi gemiti, continua a succhiare, titillare, mordere, stuzzicare, solleticare, vellicare e ora la lingua è all’ombelico ed è bella una carezza umida nell’ombelico. La lingua scende ancora, incontra il cazzo di Enrico, sì, quello è il cazzo, perfettamente teso, di nuovo, ma lo ignora, come si permette?, scende ancora accarezza. Che cosa accarezza?

      - Hai dei bei coglioni.

      Già, coglioni, sì, quelli sono i coglioni. Ahi! Ne ha preso uno in bocca, un po’ di dolore, davvero, ma lo lascia e la lingua continua il suo lavoro, le gambe, ora, piccoli morsi, solo la lingua li unisce ancora, l’uomo, il porco, è in ginocchio, le gambe appoggiate di fianco alle sue, ma non le tocca.

      E di colpo il mondo si gira, no, non è il mondo che si è girato, è l’uomo, il porco, che lo ha girato, lui è a pancia in giù e di nuovo sente il peso, quel meraviglioso quintale che lo schiaccia al suolo ed il fiato caldo alla nuca e la lingua dietro l’orecchio ed il morso ad un lobo e la lingua sul collo e… quel bastone, no, non è un bastone, quel cazzo, quel meraviglioso e pauroso cazzo che preme sul suo culo.

      Enrico avrebbe paura di affogare, ma è affogato da tempo. Enrico non desidera altro che quelle mani che… che fanno quelle mani? Lo accarezzano, ahi!, lo pizzicano, quell’uomo, il porco, gli pizzica il culo con le sue grandi dita. Il peso scompare ed Enrico ne soffre, gli spiace non sentire più quel contatto caldo, quella pressione che lo schiaccia al suolo, ma la lingua scava tra le cosce, la lingua, Dio mio, la lingua, quel porco è un porco, come si può passare la lingua lì dietro, Dio, la lingua ha raggiunto il buco e preme, Dio.

      - Porco, porco, porco, porco, porcoooooooooo!

      Enrico non ha neppure capito di essere venuto, Enrico non capisce più nulla, Enrico ha gridato e se c’è qualcuno in giro di certo l’ha sentito, ad Enrico non importa niente, ad Enrico non gliene frega niente, ad Enrico non gliene fotte un cazzo.

      L’uomo, il porco, lo volta di nuovo e lo bacia, lo accarezza con le mani esperte, lo stuzzica, la mano, ora dolce e delicata, ora ruvida, accarezza e stimola. Poi la lingua accarezza la punta del cazzo, ricerca le gocce che non si sono perse nell’erba, stuzzica ancora ed infine il cazzo di Enrico alza di nuovo la testa. Ha ventiquattro anni e non ha mai … come si dice? Come cazzo si dice? Scopare. Sì, lo sa benissimo, le sa tutte quelle parole che non voleva sentire. Non ha mai scopato. No, non aveva mai scopato. Adesso non può più dirlo, l’ha fatto due volte.

      L’uomo lo volta di nuovo a pancia in giù, l’uomo ripassa la lingua lungo il solco, l’uomo è un porco, un maledetto porco, un magnifico porco. L’uomo passa e ripassa, preme sull’apertura nascosta con la lingua, poi fa scorrere un dito, poi il dito si affaccia e chiede permesso ed Enrico ha paura, ma la paura è troppo lontana, dal suo cervello non riesce ad arrivare al culo, che si arrende a quel dito che stuzzica, a quel dito impiccione che si infiltra, a quel dito splendido che saggia il terreno, la pattuglia in avanscoperta, perché Enrico sa benissimo che sta per essere invaso e la paura è lì a ribollire nel suo cervello e non riesce ad uscire, assediata com’è dalla curiosità, dal desiderio, dall’amore, dalla felicità, dal piacere e da tante, tutte, mille altre cose che magari non c’entrano niente, non c’entrano un cazzo, ma che impediscono alla paura di lanciare l’allarme, di dire al buco del culo che deve chiudersi, perché lì la guardia ha abbassato la guardia, il posto di blocco non blocca più niente, la sentinella non sentinella più, gli invasori devono essere due ora, che si avventurano appena, scivolano piano dentro, ben bagnati nelle loro tute di saliva e poi i due escono ed Enrico ha paura, Enrico pensa che è un peccato che quei due siano usciti, ma sa che erano solo l’avanguardia, adesso arriva il grosso delle truppe, adesso arriva il grosso, il grosso arriva davvero, è davvero grosso, cazzo, se è grosso, cazzo, se è un grosso cazzo, cazzo se è bello sentire un grosso cazzo che con molta dolcezza si affaccia alla porta ed aspetta, senza fretta, che le porte si aprano bene per accoglierlo e poi avanza, solo un po’, per dare il tempo di preparare i festeggiamenti, poi ancora un po’, piano, ritorna indietro, poi avanti, poi indietro, poi più avanti, ora c’è un po’ di dolore ed Enrico si tende un po’. L’ospite si ferma.

      - Ti faccio male?

      Enrico non riesce a parlare. Sì, gli fa un po’ male, fa male, non è terribile, ma fa male, lui non è abituato, deve dirglielo, dirgli che forse è meglio lasciar perdere, dirgli che per questa volta preferirebbe di no, che non se la sente, adesso glielo dice:

      - Continua, ti prego!

      - Va bene, porcellino, tranquillo, che se me lo dici tu non smetto.

      E l’uomo, il porco, il grosso porco dal grosso cazzo, riprende ad avanzare ed Enrico sprofonda o forse sale, non sa, gli sembra di scendere sempre più in basso verso il fondo di se stesso e di salire sempre più in alto ed il dolore, se dolore c’è, non sa più arrivare al suo cervello, ogni collegamento è saltato, l’invasore ha tagliato le linee di collegamento e manda un unico messaggio: è bello, è bello, è bello, questo cazzo in culo è bellissimo, questo grosso cazzo in culo è bellissimo, non c’è niente di più bello di questo cazzo che ormai ha conquistato le ultime posizioni, Enrico non ha più difese, che cosa potrebbe ancora difendere? Enrico ha aperto ogni porta all’invasore e vive all’unisono con lui, il suo culo vibra insieme al cazzo che si agita dentro di lui e le spinte che ora divengono più forti lo squassano tutto, ma al cervello non arriva altro che quel messaggio: -Bello, bello, bello, bello, ancora, ancora, ancora!

      Grida, questa volta davvero ad alta voce:

      - Porco.

      E sente la voce, alterata da un piacere che già tende la corda, preparandosi a scagliare la freccia, alterata ma sempre calda, forte, avvolgente:

      - Hai un bel culo, porcellino!

      E ora il movimento diventa frenetico, le spinte schiacciano Enrico al suolo, il suo culo sembra esplodere alla pressione crescente di quel cazzo che avanza ed arretra, sempre più forte, senza più pietà, strappandogli un gemito.

      E allora succede. Succede che, mentre la scarica arriva, penetrando nelle sue viscere, Enrico sente nuovamente che dai suoi coglioni qualche cosa sale verso l’alto, travolgendolo in una nuova ondata, ma non è solo quello, non è solo il suo cazzo schiacciato a terra che vibra, è un’altra ondata, che dal cazzo dentro il suo culo si diffonde tutt’intorno e gli strappa un urlo di piacere puro. Le due ondate si incontrano e si alzano sempre più in alto, portandolo con sé, leggero come una piuma, in un piacere quale non ha mai immaginato.

      L’uomo, il porco, è immobile su di lui. Anche Enrico è immobile. Cerca, lentamente di affiorare, ma non sa se ne ha davvero voglia. Lì sott’acqua, si sta bene, lì, sotto quel corpo vigoroso e peloso, si sta bene, lì, con quel grosso cazzo ancora gonfio dentro di lui, si sta bene. E l’uomo, il porco, gli morde con delicatezza la spalla, gli passa due dita sulla guancia, in una carezza tanto lieve che Enrico si chiede se non l’ha sognata, gli dà un pizzicotto al culo, tanto forte che Enrico si lascia sfuggire un: - Ahi!

      L’uomo, il porco, gli passa le braccia sotto il torace e si volta con lui. Ora Enrico è sopra e guarda il cielo azzurro tra le fronde degli alberi. È bello stare distesi su quel tappeto caldo ed accogliente, è bello stare stretti tra quelle braccia forti ed avvolgenti. È bello, cazzo, se è bello!

      Le mani lo accarezzano. Enrico alza un po’ la testa per vederle. Mani grosse, pelose, braccia pelose. Accarezza quelle braccia, quelle mani che lo accarezzano.

      Rimane a lungo così, gustando l’aria fresca sulla pelle, il calore delle mani, la morbidezza del tappeto di carne su cui è disteso. Ora è sazio. Ed è felice.

      Avverte uno stimolo, fastidioso. Deve alzarsi, deve appartarsi un momento. Gli spiace però lasciare quel tappeto di carne, gli spiace sciogliersi da quelle braccia. Gli spiace soprattutto abbandonare quel cazzo che ancora, non più rigido, ma neppure moscio, è dentro di lui.

      - Devo alzarmi.

      L’uomo allarga le braccia e geme quando Enrico si sfila da lui.

     Anche Enrico geme. Enrico ha male al culo. Niente di terribile, ma gli fa male. Non è un grande problema, ne è valsa la pena.

          - Solo un attimo.

      Fa per allontanarsi, ma le mani dell’uomo lo bloccano. Sono intorno ai suoi fianchi, ora.

      - Dove vai?

      Enrico è imbarazzato. Niente di grave, deve solo svuotare la vescica, ma si vergogna.

      - Devi cagare?

      Enrico scuote la testa.

      - E allora?

      - Ho bisogno… Ho bevuto molto questa mattina…

      L’uomo ride.

      - Bene, se devi pisciare, è proprio quello che ci vuole. Mi piace.

      Enrico non capisce, fa finta di non capire, anche se sa benissimo che il suo cervello ha capito tutto e, quel che è peggio, quel che è molto peggio, il suo cervello è perfettamente d’accordo, consenziente, complice, di che cosa esattamente non sa, ma qualunque porcata sia, il suo cervello ha già detto di sì, se l’uomo cambiasse idea, ci rimarrebbe male, ci rimarrebbe di merda.

      Enrico si volta e guarda l’uomo, seduto ai suoi piedi. L’uomo non ha tolto le mani, le ha ancora sui suoi fianchi, solo che nel movimento hanno cambiato posizione.

      - Che cosa vuoi dire?

      - Che sono qui, pronto a bere un bel bicchiere di piscio caldo e a farmi una bella doccia di piscio.

      Fa effetto sentirselo dire, fa proprio effetto, anche se uno se lo aspetta, anche se Enrico sa benissimo che razza di porco è l’uomo davanti a lui. Quello che non sa ancora e che sta scoprendo in fretta, troppo in fretta per riuscire ad adeguarsi, è che razza di porco è lui, Enrico. Perché sul fatto di essere un porco, Enrico non ha più nessun dubbio.

      L’uomo apre la bocca e l’avvicina al cazzo di Enrico. Si passa la lingua sulle labbra, pregustando.

      Enrico si dice che non può farlo, non si fanno cose del genere, lui non è così porco, no, lui non è così porco. Ed allora perché sta pisciando in bocca all’uomo, che beve con gusto, perché gli piace la vista del suo piscio che scompare nella bocca e poi, adesso che la bocca è chiusa, scende sulla faccia, nella barba, sul torace dell’uomo, mescolandosi al sudore, scorrendo con un getto continuo tra i rivoli, scendendo giù verso il cazzo, verso il grosso cazzo, piuttosto duro ormai, perché?

      La vescica è vuota ed è davvero un peccato, perché lo spettacolo era piacevole, davvero piacevole.

      - Sei proprio un porco.

      L’uomo ride, una risata tranquilla.

      - Sì, te l’ho detto, non c’è porcata che non mi piace. Ma non sono solo un porco, sono anche un orso.

      - Un orso?

      - Oh, per il culo di Brad Pitt, non sai che cos’è un orso? È un uomo grosso e peloso, come me. Sono un porco e sono un orso. Un porcorso, insomma.

      E mentre dice queste parole l’uomo, il porco, l’orso, il porcorso, lo attira su di sé, lo costringe a sedersi davanti a lui. Protende il viso bagnato di piscio e ride:

      - Baciami, maialino, bacia il tuo porcorso.

      Enrico lo guarda, tanto indignato da non avere parole. L’uomo è un maiale, un maialorso, no, un porcorso, ma lui non è mica un porco. Lui non farebbe mai una cosa del genere, ma adesso che l’uomo lo sta baciando ed Enrico sente il gusto del proprio piscio sulle labbra dell’altro, Enrico non si tira indietro, per nulla. Enrico lascia che la sua lingua riceva la carezza di un’altra lingua, Enrico penserebbe, se osasse pensare, che il piscio non ha poi un gusto ed un odore cattivi, no, per niente, varrebbe la pena di assaggiare meglio, non sembra mica male, ma tutto questo Enrico non lo pensa, perché l’ha già pensato.

         - Prima che arrivi la sera, avrai imparato un sacco di cose, maialino.

      “Prima che arrivi la sera” ha un suono sgradevole, perché ricorda a Enrico che sta facendo una gara (di cui non gli fotte un cazzo), ma soprattutto che deve essere passato parecchio tempo, che gli organizzatori incominceranno a preoccuparsi non vedendolo arrivare, che forse è già molto tardi, che i suoi lo aspettano a pranzo, che…

      - Che ore sono?

      L’uomo lo guarda un attimo, poi si alza e raggiunge un mucchio di abiti che Enrico non ha notato prima.

      - Mezzogiorno.

      - Mezzogiorno! Devo andare!

      - Accidenti, sei proprio un cagacazzo. Mi metti la voglia e poi scappi.

      - Devo andare, devo andare.

      - E vai, va’ a farti fottere da qualcun altro…

      - No, non è questo…

      L’uomo non dice più niente. Enrico si sente male, ora. Vorrebbe sapere il nome dell’uomo, vorrebbe poterlo rivedere. Ora deve andare, perché la gara devessere finita, i suoi lo aspettano tra mezz’ora e ci vorrà un’ora tra arrivare alla partenza e poi tornare a casa. Può telefonare, certo, può telefonare e dire che non torna, ha il numero degli organizzatori. Sta per dirlo, ma l’uomo sta già scendendo al laghetto, una minuscola pozza d’acqua, e si è tuffato.

      Enrico è solo ed infelice. Enrico non vuole perdere il suo porcorso. Enrico ha voglia di mettersi a piangere.

      Il porcorso risale, grondante, il pelo bagnato che gli si appiccica al corpo.

      - Beh, sei ancora qui? Non avevi tanta fretta?

      Enrico lo guarda, sconfitto e rassegnato alla sconfitta.

      - Mi do una lavata anch’io.

      Si sciacqua la faccia, il ventre ed il culo. Poi risale. L’uomo gli porge i vestiti, almeno è gentile, forse non ce l’ha più con lui. L’uomo incomincia a rivestirsi anche lui.

      - Vieni via anche tu?

      La voce che gli risponde non è dura, ma è fredda, lontana.

      - Sì, ormai mi hai rovinato la giornata, cagacazzo.

      Enrico è contento che l’uomo venga via con lui, così forse avrà modo di chiedergli chi è, dove abita, di scoprire come ritrovarlo.

      L’uomo però si avvia in una direzione diversa e a Enrico il cuore dà un tuffo.

      - Non vieni alla partenza?

      - Alla partenza di che?

      Enrico abbassa la testa. Ha detto una sciocchezza, una cazzata. L’uomo non sa nemmeno che lui stava facendo una gara.

      - Non so nemmeno come ti chiami.

      L’uomo lo guarda un attimo, poi risponde:

      - Matteo.

      Si volta e scompare.

      Enrico si avvia, il culo gli fa male, ma le lacrime che premono per uscire non sono per il male al culo.

      Arriva zoppicando alla partenza, dice di essere caduto e di essersi fatto male, respinge chi vorrebbe aiutarlo, magari accompagnarlo in macchina, avvisa i suoi del ritardo, sale in auto e torna a casa. Pensa che vorrebbe morire.

 

      A casa mangia senza appetito, poi va a stendersi sul letto. Non ha voglia di parlare con i suoi, né di uscire. Sprofonda nella tristezza, guardando il soffitto, il tristissimo soffitto bianco, senza colore, senza vita. Com’è triste quel soffitto!

      Il telefono squilla, sua madre risponde. Sente la voce che lo chiama.

      - Enrico, è per te.

      Enrico si alza, svogliato. Dalla porta della camera chiede:

      - Chi è?

      - Un certo Matteo Porcorto, no, Portorso, non ho capito bene.

      Adesso Enrico è la dimostrazione vivente che il battito del cuore e il respiro sono del tutto superflui per vivere: il cuore è del tutto fermo, non osa battere e quanto a respirare, come si fa, come cazzo si fa?

      Sua madre lo fissa, stupita, ed Enrico si scuote, cerca di dare una parvenza di normalità, di nascondere la festa selvaggia della sua testa, del suo cuore (ha ripreso a battere, ma ha raddoppiato il ritmo, ora, quello scioperato deve aver visto che il padrone lo stava osservando e si mostra solerte, adesso, dov’era quando Enrico aveva bisogno di lui?), l’urlo di trionfo del suo cazzo, dei suoi coglioni, del suo culo, della sua lingua.

      Sorride e dice:

      - Ah, sì, quel cagacazzo.

      La signora Aliotti sgrana gli occhi e la mandibola del signor Aliotti precipita, divaricando l’articolazione oltre la misura del possibile: è sicuramente una slogatura.

      Enrico non si rende ben conto di quel che è successo, ha detto qualche cosa che non va, cerca di rimediare:

      - Sì, volevo dire, quel rompicoglioni.

      Raggiunge il telefono e il suo cuore sta per sfondare la cassa toracica. Enrico si chiede se il cuore andrà a pezzi contro le costole o se saranno le costole a finire in frantumi per le spinte del cuore, non lo sa, ma sa che il cuore lì dentro non riesce più a stare.

      - Pronto.

      La voce è quella che ha imparato a conoscere la mattina.

      - Allora, cagacazzo, la recuperiamo la giornata?

      Quel porco penserà mica che lui, Enrico, sia a sua disposizione? Quel porco che deve aver frugato tra i suoi documenti per vedere chi era e poterlo recuperare, altro che porgergli i vestiti, una cortesia, come lui era stato tanto ingenuo da credere, e poi lo ha lasciato andare via come un cane bastonato. Adesso Enrico gliela fa pagare, con gli interessi. E interessi da usuraio.

      Non fa in tempo a finire il pensiero (non parliamo di formulare una frase) che il porco prosegue:

      - Sono sotto casa tua, muoviti.

      E adesso Enrico si vendica, si vendica alla grande di quelle tre ore di angoscia e tristezza, della camminata solitaria e zoppicante fino alla partenza, del velo di lacrime mentre guidava, del pranzo insipido e del soffitto tristissimo della sua camera da letto. Quel porcorso penserà mica che lui sia a sua disposizione (questo l’ha già pensato, è che oggi il cervello di Enrico è un vecchio disco rigato, che ogni tanto s’inceppa e prende a ripetere sempre le stesse cose), a sua disposizione, dicevamo, per la terza volta, come una battona, che basta fare un fischio e lui arriva? No, l’insulto grida vendetta e adesso Enrico si vendica sul responsabile di tutto quello che gli ha fatto patire, si vendica con la ferocia e la determinazione di chi è perfettamente padrone di sé. Ora si vendica:

      - Scendo subito.

      Per vendicarsi c’è tempo, ci si vendica meglio faccia a faccia, e poi si sa che la vendetta è un piatto da gustare a freddo ed adesso è ancora caldo, è proprio caldo, è tutto caldo, Enrico si sente bollire dalla punta delle dita dei piedi alla punta dei capelli, passando per tutto quello che c’è in mezzo, soprattutto per quello che c’è in mezzo, è il culo a bollire ed il cazzo ed i coglioni e poi c’è anche la bocca, già, la bocca è un po’ decentrata, non sta in mezzo, ma non ha importanza adesso, non è il caso di fare aspettare Matteo, che bel nome Matteo, è il nome più bello del mondo per l’uomo più bello del mondo, beh, più bello forse no, ma con il cazzo più bello del mondo, il porcorso dal bel cazzo, il porcazzo.

      - Enrico, esci?

      Certo che esce, perché avrebbe aperto la porta di casa, se non uscisse? Che razza di domande fa sua madre, certe volte dice cose assurde!

      - Sì, scendo a parlare con uno, un momento solo. Non so se torno per cena.

      La signora Aliotti non batte ciglio, non dice nulla sulla perfetta coerenza della frase del figlio, si limita a suggerire:

      - Allora, magari, mettiti le scarpe.

      Enrico si guarda i piedi nudi. Superfluo mettersi le scarpe, superfluo cambiare i pantaloni consunti che tiene in casa, del tutto superfluo, tanto si toglierà tutto, ma non vuole fare brutta figura davanti a quel porco di Matteo. Si cambia i pantaloni, la maglia, si mette le scarpe, vola, scendendo le scale, verso Matteo.

      Esce, non c’è nessuno sul marciapiede. Enrico si guarda intorno smarrito, ma un colossale rutto arriva da un’auto parcheggiata a pochi metri e ovviamente dentro l’auto c’è Matteo. Enrico si avvicina e sale.

      - Sei un porco.

         Matteo, il porcorso, il porcazzo, ride e replica, mentre già è partito:

         - Non mi piace suonare il clacson per attirare l’attenzione. Disturba tutti. È da cafoni.

      Enrico guarda imbambolato Matteo. Matteo è bellissimo. È l’uomo più bello del mondo. Enrico gli guarda tra le gambe.

      - Sì, proprio quello, fai che aprirmi la patta, così non perdiamo tempo.

      In macchina? Mentre guida? È pericoloso, è una follia. È anche scomodo ed infatti Enrico ci mette un buon momento ad effettuare l’operazione e a tirar fuori il suo cazzo preferito. È bello sentirlo tra le mani, spesso, caldo, giocherellare un po’ con i coglioni, belli anche loro, bisogna riconoscerlo, così tutti pelosi, con la pelle ruvida.

      La destra di Matteo, quel porco, prende la testa di Enrico e la schiaccia, portandola in direzione del cazzo.

      - E muoviti!

     Enrico sa che è una follia, ma ha ancora la lucidità per dirsi che è meglio non opporre resistenza: Matteo, il porcorso, il porcazzo, sta guidando, meglio che tenga le mani sul volante, lui eroicamente non opporrà resistenza, e perché mai resistere? Lui è un collaborazionista nato, tanto non è in grado di resistere, non ha nessuna intenzione di resistere, e se adesso Matteo, il porco, si tirasse indietro, lui andrebbe avanti lo stesso, perché si è reso conto che non conosce il gusto del cazzo di Matteo, non l’ha mai assaggiato, vuole sentirne il calore, la consistenza.

      - Datti da fare.

      Enrico è del tutto inesperto, ma la buona volontà non manca e innegabilmente c’è anche, bisogna riconoscerlo, un certo talento naturale. La voce di Matteo, del porco, lo guida, invitandolo a rallentare, a scendere, a salire. Enrico esegue, Enrico è sempre stato un allievo diligente e pronto, Enrico vuole che il suo insegnante sia soddisfatto di lui. E poi quel cazzo è proprio buono, è proprio grosso, è proprio caldo.

      Enrico non si è accorto che la macchina si è fermata. In realtà non si è nemmeno accorto che stava andando. Non sa dove sia e non gliene fotte un cazzo, gli fotte solo di quel cazzo che sta succhiando e che è proprio buono. Matteo sta reclinando il sedile all’indietro, è completamente reclinabile ed Enrico guarda la prospettiva di quel corpo maialorsesco, di quella pancia ursoporcina, di quel grosso cazzo porcorsino, anzi, porcorsone, porcazzone.

      - Lavora, pigrone!

      Enrico lavora, lavora con impegno, lavora con gusto, a lui lavorare piace, non è mica uno scansafatiche, lui è un grande lavoratore, non smette neppure un minuto, non smette mai, come potrebbe smettere, ora che sente quel grosso cazzo ursino e porcino duro come un pilastro di cemento e caldo come un filone di pane appena sfornato?

      La mano di Matteo, del porcorso, gli blocca la testa, ma Enrico non la ritirerebbe, Enrico vuole assaggiare quella bevanda che non ha mai gustato prima, il nettare degli dei, l’ambrosia che infine arriva, con un sapore acido, quasi amaro, disgustoso e splendido. E splendide sono le vibrazioni di quel grande cazzo nella sua bocca, quel suo movimento frenetico che gli solletica il palato, la lingua. Vorrebbe bere per sempre, ma purtroppo Matteo ha finito. Enrico succhia ancora, cercando di ottenere ancora un po’ di miele, ma non c’è più nulla.

      - Inutile che tu sprema la bottiglia, lo sborro è finito.

      Enrico ci rimane un po’ male, ma Matteo lo solleva con la forza, guidandolo su di sé. Matteo ha la camicia aperta ed Enrico si abbandona su quel torace villoso, come un uccellino in un nido, mentre il suo, di uccellino, ha alzato la testa e si guarda intorno, ma nessuno gli bada, nemmeno il proprietario, troppo felice di accovacciarsi in quella tana calda: la foresta amazzonica che ricopre il corpo del porcorso, di Matteo, che bel nome, Matteo!

      Rimangono un buon momento così, mentre le mani grosse e pelose di Matteo accarezzano Enrico, che si sente ritornare bambino, bambino ma con il cazzo duro, perché quelle mani sono mani sporcaccione, gli hanno aperto la camicia, gli hanno calato i pantaloni e i boxer, giocano svergognate tra le sue chiappe, stuzzicano il buco del culo, scendono lungo le cosce, gli tirano i capelli, gli pizzicano la guancia o il culo, insomma, non lo lasciano un attimo in pace a godersi il suo paradiso peloso, quelle manacce porcacce orsacce, vorrebbe che non smettessero mai…

      Un dito più sfacciato degli altri avanza oltre la soglia ed Enrico sussulta.

      - Usciamo.

      Così? Con i pantaloni ed i boxer abbassati, la camicia aperta? Enrico non capisce bene. E allora gli viene da chiedersi dove si trovano, loro due, in quel momento. Di certo in un bosco o

      C’è una casa, di fianco all’auto ed Enrico quasi lancia un urlo.

      - Una casa. Ma sei matto? Ci possono vedere.

      - No, non c’è quasi mai nessuno, lì.

      Quasi? Che cazzo significa quasi? E se è la volta che c’è qualcuno?

      Matteo, quel porco, ha già aperto la portiera e quasi butta fuori Enrico, che, tenendosi i pantaloni con la mano, scopre di essere davanti ad una vecchia cascina rimessa a nuovo, sicuramente abitata. Dall’altra parte dell’auto, un boschetto, almeno da quella parte non dovrebbe vederli nessuno.

      Matteo, il maledetto porcorso, è sceso, con i pantaloni abbassati, pancia, cazzo e coglioni al vento, senza la minima preoccupazione. Ha in mano un paio di chiavi e ne infila una nella serratura. Enrico si dice che se Matteo ha le chiavi, la casa deve essere la sua. Complimenti, Sherlock Holmes!

      - Avanti, pigrone.

      Nell’ingresso, immerso nella semioscurità, l’aria è fresca, ma appena sono dentro, Matteo gli salta addosso e finisce di spogliarlo, poi getta anche i propri vestiti nel mucchio e si dirige in un’altra stanza, la cucina.

      - Apri le imposte. Ti piace lo zabaione?

      Enrico è un po’ confuso, ma ormai ci ha fatto l’abitudine, oggi se tornasse lucido si sentirebbe a disagio, anzi, a dire la verità, proprio non gli passa per la testa di ritornare lucido, ci sono troppe cose che non è molto sicuro di essere in grado di affrontare a mente lucida, meglio quella leggera ebbrezza. Leggera? Se avesse bevuto una bottiglia di vodka, lui che non beve neanche vino (non si sa mai, può far perdere il controllo, però un bicchiere ora potrebbe berlo, in fondo perdere il controllo non è mica male, anzi, che cazzo se ne fa uno del controllo? E poi il controllo l’ha completamente perso, si è liberato di quel rompicoglioni del controllo), dicevamo, se avesse bevuto una bottiglia di vodka, non potrebbe essere più ubriaco di com’è adesso.

      Enrico ha aperto le imposte e Matteo, nudo come un bel Giove panciuto (ma il cazzo è più da Priapo e la faccia da satiro), ha preso uova e marsala e sta dandoci dentro.

      Enrico osserva, confuso. Gli sembra che Matteo si stia dedicando a qualche gioco erotico particolare, che lui non conosce ed a cui vorrebbe partecipare, ma Matteo non lo incoraggia, non gli dice che cosa fare, non gli suggerisce niente ed Enrico rimane lì, con il cazzo teso ed offeso (come si fa ad ignorare in quel modo il suo cazzo, il suo bel cazzo, l’ha detto Matteo che è un bel cazzo?!), e non sa bene che fare di se stesso. Avrebbe un sacco di idee, a vedere Matteo nudo le idee vengono, e come se vengono, mica solo le idee vengono, ma Matteo non lo incoraggia.

          - Niente di meglio dello zabaione per ritemprare le forze.

      E quando infine la crema è pronta, con un aspetto più che invitante, Matteo la versa in una scodella. Poi intima ad Enrico.

      - Stenditi sul tavolo.

      Enrico non capisce bene, d’altronde oggi il suo Q.I. dev’essere sceso a livelli tra la deficienza acuta e la stupidità cronica, ma a che cosa serve un Q.I.? Quello che serve nella vita lui ce l’ha perfettamente funzionante, come è visibile a chiunque voglia vedere.

      - E muoviti, cagacazzo, stenditi sul tavolo, supino.

      Enrico guarda il grande tavolo di quella vecchia cucina di campagna, e, decidendo che tanto capire è inutile, l’importante è ubbidire, sale sul tavolo e si stende.

      La crema che Matteo gli versa addosso, sul torace e sul ventre, è calda, ma non tanto da ustionarlo.

      - Lo zabaione bisogna farlo raffreddare.

      Enrico guarda allibito la crema che si spande sul torace e sul ventre, poi sussulta quando Matteo balza sul tavolo, gli divarica le gambe e si accovaccia davanti a lui. La lingua di Matteo comincia percorrergli il ventre, risalendo verso il torace, indugia in qualche punto particolare, poi molla un morso ad un capezzolo. Matteo succhia, lecca, mangia, morde ed Enrico non ce la fa più, perché lui è da questa mattina che non viene, quel porco che adesso si mangia lo zabaione è venuto poco fa e lui niente, a stecchetto come un monaco. Ventiquattro anni di astinenza Enrico li ha sopportati senza battere ciglio, ma dopo essere venuto tre volte, tre ore di astinenza sono troppe, lui non è mica di Comunione e Liberazione, Matteo, quel porco, non può fargli una cosa del genere, non può.

      Enrico spera che ora la lingua scenda un po’ più giù, dove aspetta un cazzo ben diritto, ben visibile, impossibile non vederlo, ma perché Matteo, quel porco, non scende un po’ più giù, anziché leccare, succhiare, mordere, tutto lo zabaione. C’è di meglio da mangiare, rispetto allo zabaione, non lo vede? No, non lo vede, proprio non lo vede.

      - Buono, vero?

      E come saperlo, se quel porco non gliene ha lasciato neanche una goccia?

      - Ne vuoi?

      Certo che ne vuole, vuole anche lui leccare, succhiare, mordere, quel porcorso che ha davanti, sopra, e lui non si limiterà allo zabaione, di certo. Non potrebbe comunque limitarsi allo zabaione, perché Matteo è sceso, ha preso la scodella e, con un gesto rapido, l’ha portata sotto i suoi coglioni e ci ha immerso cazzo e coglioni. Muove un po’ la scodella, in modo da imbrattare bene il tutto, e con un salto sale sul tavolo. Ora è in piedi sul tavolo davanti ad Enrico, e lo zabaione gocciola dal suo cazzo e dai suoi coglioni. Enrico si mette in ginocchio e assaggia lo zabaione. È buono lo zabaione, ancora tiepido, gustoso, non vuole perdere una goccia di quello zabaione, ce n’è dietro i coglioni e bisogna andarlo a prendere, ce n’è tutt’intorno al cazzo e bisogna controllare che non se ne sia infilato sulla cappella, ce n’è, ce n’è… ed anche se non ce n’è più, non ha importanza, ora che il cazzo dell’orso, del porcorso, del porcazzo, è bello duro e teso, verifichiamo che la cappella non conservi traccia di quel gusto o magari di un altro gusto ed infatti, dopo un lungo lavoro di ricerca, Enrico sente una goccia di un gusto che ha scoperto forse un’ora fa ed allora ci dà dentro e la sua costanza è premiata, perché di nuovo riceve un po’ della più gustosa bevanda del mondo.

      Matteo rimane in piedi sul tavolo, Enrico in ginocchio davanti a lui, a guardare affascinato il grande cazzo che ritorna alla posizione di riposo. Ci vuole un buon momento, ma le mani di Matteo che gli accarezzano la testa gli impediscono di avere nozione del tempo che passa.

      - Hai sete?

      Enrico guarda la punta del cazzo a due dita dalla sua bocca e il suo cervello, benché completamente oscurato (c’è mai stato un cervello nella sua testa? Enrico direbbe di no, se qualcuno gli ponesse la domanda, ma che cazzo se ne fa uno del cervello, quando è in quella posizione, quello che serve è la bocca), il suo cervello coglie benissimo, certe cose Enrico le capisce benissimo, oggi, è come se dieci anni di sforzi per non capire avessero affinato in lui un intuito infallibile per tutto ciò che non ha mai voluto sapere.

      Enrico annuisce, sapendo che sta per scendere un altro gradino nella scala e spera che quella scala non abbia fondo, perché non c’è niente di più bello che scendere. Apre la bocca e accoglie la punta del cazzo e poi il liquido che scorre caldo. Matteo si ferma due volte, per permettergli di respirare. Enrico è confuso. Enrico è felice. Enrico ce l’ha duro e Matteo non sembra badarci, oggi vuole farlo soffrire.

      - Ti piace la Nutella?

      Enrico ha un po’ paura, non sa bene che cosa intende Matteo, ha paura di aver capito male, ma sa che farà tutto quello che Matteo gli propone, anche se non lo vuole, perché comunque lo vuole. Annuisce.

      Matteo salta giù dal tavolo, apre l’anta di un armadio, prende un barattolo di Nutella da un ripiano, si avvicina, infila tre dita nel barattolo, fino in fondo e le estrae, coperte di Nutella. La mano scompare tra le natiche di Matteo. L’operazione viene ripetuta due volte, poi Matteo tende le dita ad Enrico. Enrico incomincia a succhiare l’indice, poi lecca il medio, morde l’anulare, lo accarezza appena con la lingua, poi succhia anche quello, fino a che ha ripulito le dita.

      Ora Matteo si è steso sul grande tavolo, a pancia in giù. Tra le natiche ha la massa scura della Nutella. Enrico si inginocchia tra le gambe divaricate, passa le mani su quelle grosse gambe, forti e muscolose, accarezza la selva di peli neri, sale sulle natiche, affonda le mani nella carne, pianta un morso deciso, che fa sussultare Matteo, respira a fondo, come se dovesse buttarsi, perché intuisce che sta per buttarsi ed in effetti si butta. La Nutella è buona, non bisogna lasciarne, di Nutella; è buona, ce n’è tanta, impigliata tra i peli, tanta soprattutto nella piega della carne, nel solco nascosto, tanta e bisogna mangiarla tutta, non si può sprecare la Nutella ed è bello vedere la carne che torna ad apparire, i peli bagnati dalla saliva che si liberano della Nutella, qualche pelo rimane in bocca, ma non ha importanza, Enrico pulisce bene, bisogna pulire bene, molto bene, la lingua di Enrico sta facendo cose che il cervello di Enrico preferisce non registrare, in certe situazioni è meglio far finta di niente, ma il cazzo di Enrico registra benissimo, perché se continua così rischia di venire lì, su due piedi, anzi, in ginocchio, se continua così e chi mai ha intenzione di smettere? È mica matto a pensare di smettere. Non si può smettere.

      Ma Enrico smette, perché le sue mani hanno divaricato il culo e appare, invitante, l’apertura scura che si apre tra i peli. Enrico ha sete, ora, una sete terribile, la gola è asciutta, lo zabaione, la Nutella, il culo di Matteo, Enrico guarda e non sa che fare, non sa che dire, fino a che un rutto sonoro non lo scuote, seguito dalla voce di Matteo:

      - E dagli, ci vuole tanto? La strada è aperta, come si fa, te l’ho fatto vedere questa mattina, l’attrezzatura è pronta, muoviti.

      Enrico si muove, si tuffa come da un trampolino, forse il suo ingresso non ha la delicatezza di quello di Matteo, ma cerca anche lui di trattenersi, ma come si fa a trattenersi, quando è un vortice che ti risucchia, con una violenza che ti annichilisce? Enrico entra con la forza gagliarda dei suoi ventiquattro anni e veder scomparire il suo cazzo in quel culo grande, caldo e peloso è una sensazione che lo stordisce. Ora è dentro Matteo, dentro il suo porco, dentro il suo amore, perché lui è sicuro di amare alla follia Matteo e che vivrà con lui per sempre. Ormai può dirlo, ha già fatto in tempo a perderlo e ritrovarlo e poi ha già scopato con lui un numero imprecisato di volte e poi quel culo è troppo caldo, quel culo è troppo forte, quella schiena pelosa su cui si adagia è troppo confortevole e poi c’è di nuovo qualche cosa che imperioso sale dentro di lui e lo spinge a tuffarsi sempre più in profondità nel corpo di Matteo, fino a scomparire completamente, inghiottito nel corpo di Matteo, ormai Enrico è solo un cazzo che penetra sempre più in profondità Matteo, Enrico è dentro Matteo, Enrico è nel culo di Matteo, Enrico urla un piacere inimmaginabile, mentre il suo seme, il suo sangue, la sua vita si rovesciano nel culo di Matteo. Enrico grida, grida e si affloscia, senza forze, su quel tappeto di carne.

      Gli ci vogliono parecchi minuti per emergere da quella felice semincoscienza in cui è sprofondato. E allora abbraccia forte Matteo. Rimane ancora così, a lungo. E infine grida a Matteo tutto il suo amore:

      - Sei un porco.      

      Matteo rutta, rumorosamente. Poi risponde.

      - Quel che mi piace di te, cagacazzo, è che hai una conversazione molto variata.

      Enrico ha uno sprazzo di lucidità, il primo e l’unico della giornata (o forse della sua vita, si dice), e replica a tono:

         - Io, invece, apprezzo la tua raffinatezza.

 

2007

 

 

 

 

 

 

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