Il Tricheco e il Delfino

 

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     La donna cercò di lanciarsi nella casa in fiamme, ma le altre due donne e il ragazzo la trattennero. McFren non capiva: perché quella donna voleva entrare nella casa? Pensava di riuscire a recuperare qualche oggetto, dei gioielli, del denaro? Era una follia. Sarebbe certamente bruciata viva.

      La donna urlò, torcendosi le mani:

          - Anne! Anne!

      Il sergente McFren capì. Guardò sgomento la casa che bruciava. In quella casa c’era una bambina.

      Albert McFren, sergente dell’esercito nordista, aveva paura del fuoco, una paura dannata. Aveva visto bruciare una casa del suo paese, nel Maine, quand’era bambino, e l’immagine della donna alla finestra che ardeva, chiedendo aiuto, non se l’era più scordata. Era ritornata spesso nei suoi incubi, con quei capelli e gli abiti che bruciavano e quell’urlo che non era più parole, ma solo strazio.

      Aveva paura del fuoco, Albert McFren, una paura fottuta, ma senza lasciarsi il tempo di ragionare era già sulla soglia della casa che ardeva. Con il cuore in gola, guardò le fiamme che guizzavano. Con un salto superò la striscia di fuoco e si trovò nella stanza, dove il fumo gli impediva di vedere, di respirare. Si chinò e gridò:

      - Dove sei?

      Nessuno gli rispose. Albert corse nella stanza accanto. Lì l’incendio non era ancora arrivato, solo il fumo, ma non c’era nessuno. Respirò a fondo, si voltò e ritornò nella prima stanza. Sempre correndo, passò nelle altre due camere. Ma non c’era nessuno. La bambina doveva essere al piano di sopra.

      La scala stava già bruciando e McFren pensò che, anche se fosse riuscito a salire, non sarebbe mai riuscito a scendere. Ricordò la donna che bruciava, trasformata in una torcia gigantesca. Con un salto si lanciò sulle scale. Era agile, nonostante la sua stazza.

      Per fortuna al piano di sopra l’incendio non divampava ancora. Nella seconda camera trovò la bambina. Era piccolissima, non doveva avere neppure un anno. Dormiva, non si era accorta di niente.

     Albert McFren si chiese che cosa fare. Calarla dalla finestra? Si affacciò: il fuoco aveva invaso tutto il piano terreno e guizzava alto. Troppo pericoloso. L’unica cosa era prenderla in braccio, ripararla con il proprio corpo e correre giù. Doveva arrivare fuori, prima che il fumo lo soffocasse. Doveva riuscire a portarla dalla madre, salvarla, anche se le fiamme lo avessero avvolto.

      Prese la bimba, l’avvolse in una coperta che stava su una sedia, le coprì il viso con un lenzuolino della culla e uscì dalla stanza. La scala ardeva, ma era ancora in piedi. Se non fosse crollata ce l’avrebbe fatta. Probabilmente gli abiti e i capelli gli si sarebbero incendiati e le fiamme lo avrebbero divorato, ma non aveva altre possibilità. E doveva salvare la bambina.

      Si slanciò per le scale, sperando che i gradini tenessero.

      Il penultimo gradino cedette e McFren quasi cadde, ma riuscì a saltare e toccare terra. Nel fumo che lo accecava e lo soffocava scorse la porta. Corse fuori, dicendosi che ce l’aveva fatta, ce l’aveva fatta. Ora la piccina piangeva.

      La donna fu su di lui e gli strappò la bambina, con una violenza che lo stupì. Un secchio d’acqua gli arrivò sulla schiena, dove la giacca aveva preso fuoco. Solo in quel momento si rese conto del dolore che sentiva, una fitta acuta, che per un attimo gli fece stringere i denti.

      La madre si stava allontanando con la figlioletta. Non gli aveva nemmeno rivolto la parola. Le altre due donne che stavano davanti alla casa e il ragazzo, quello che aveva ancora in mano il secchio, seguirono la madre, senza dire niente.

      Avrebbe voluto ringraziare il ragazzo, ma gli dava le spalle.

      Albert McFren chinò la testa. Raggiunse il suo cavallo, prese le redini e si allontanò. Non si voltò a guardare la casa che ardeva né il gruppetto di donne. Se avesse voltato la testa, loro si sarebbero girati dall’altra parte.

      Il sergente McFren aveva male alla schiena. Cavalcava con le spalle curve, schiacciato dal peso dell’odio che sentiva su di sé.

      Albert McFren si sentiva triste e infelice. Si era arruolato in nome degli ideali di giustizia e libertà, ma la guerra si era rivelata un’interminabile sequenza di orrori. Aveva fatto la sua parte e, semplice soldato, si era guadagnato i gradi, la stima dei suoi superiori e l’affetto dei suoi uomini. Ma il senso di solitudine era diventato ancora più forte.

      E se gli erano sembrati orrendi i corpi dilaniati dalle cannonate, la morte dei compagni, i campi di battaglia coperti di cadaveri, la realtà di quegli ultimi mesi di guerra era ancora più pesante.

      La guerra stava concludendosi, in quei giorni di aprile del 1865, la resa finale del Sud era questione di giorni, forse era già avvenuta ed a loro non era ancora giunta la notizia. Ma l’odio, l’odio infinito dei vecchi, delle donne e dei ragazzi, di coloro che ancora vivevano in quelle terre occupate e devastate, l’odio implacabile, quello non si sarebbe spento mai.

      Lui aveva avuto il compito di tenere sotto controllo la contea d aveva cercato di svolgerlo nel miglior modo possibile, ma ovunque non trovava altro che odio. Certo, sapeva che quell’avversione non era ingiustificata: le truppe nordiste avevano distrutto tutto e provocato sofferenze atroci. Il sergente Kelly, che era ancora di stanza nella contea, detestava i sudisti ed era ben felice di vessarli in ogni modo.

      Il risultato era stato la guerriglia di David Holston, il Delfino.

      E lui, che ormai desiderava solo più la pace e che era stato contento di non dover spargere altro sangue, doveva convivere con Kelly e con Holston, con un sergente fanatico che odiava i sudisti ed un maggiore sudista che li attaccava e li umiliava in continuazione.

      Per dire la verità, Holston prendeva di mira soprattutto gli uomini di Kelly. Sembrava si divertisse a sbeffeggiarli. E Kelly lo odiava: voleva vederlo crepare appeso a un cappio, contorcendosi nell’agonia. Kelly aveva giurato che se lo avesse preso un’altra volta, non se lo sarebbe fatto più scappare e gli avrebbe spaccato i coglioni, prima di impiccarlo.

      Perché Holston, se fosse stato preso, sarebbe stato impiccato. Non in quanto nemico, perché, finché l’ultimo esercito sudista non si fosse arreso, combattere non era un reato. Ma Holston era stato accusato di una rapina in cui erano stati assassinati due uomini che trasportavano un grosso carico di denaro. Non era stato certo Holston, McFren lo sapeva benissimo, come lo sapeva Kelly e come lo sapevano tutti. Il processo era stato una farsa, per avere un pretesto per eliminare un nemico.

      Albert McFren sospirò e spronò il cavallo per raggiungere l’accampamento. Era meglio che si facesse vedere la schiena, il dolore andava aumentando. Probabilmente non era niente di grave, ma doveva esserci una bella ustione.

 

      David Holston osservava il sergente McFren che cavalcava verso l’accampamento. David Holston sarebbe dovuto essere soddisfatto: aveva appena messo a punto un bel colpo contro Kelly, rubandogli buona parte dei cavalli.

      Ma David Holston non era contento. Umiliare le truppe nordiste era un divertimento, ma non serviva a niente. La guerra era stata persa, il Sud distrutto e quello che lui faceva al massimo poteva restituire un po’ di orgoglio ai suoi compagni sconfitti. E comunque presto sarebbe finita. La resa era questione di giorni, se non di ore. E poi?

      E poi avrebbe dovuto fuggire via, perché gli avrebbero dato la caccia, per un assassinio che non aveva mai commesso.

      David osservava il sergente McFren, che non poteva vederlo. Era a nemmeno cento metri da lui, ma questo McFren non poteva sospettarlo. Perché lo stava guardando?

      David avrebbe preferito non rispondere a quella domanda, ma non era abituato né a far finta di niente, né a raccontarsi balle. Quell’uomo gli piaceva, gli piaceva terribilmente. Lo aveva osservato molte volte e lo conosceva bene. Anche senza averlo sotto gli occhi, la sua mente era in grado di osservare quel viso tondo, con la barba e i capelli di un rosso scuro, quel corpo possente, con il ventre sporgente.

      L’aveva visto un’unica volta da vicino, quando Kelly era riuscito a catturarlo con l’inganno. Gli doveva la vita, in fondo, perché McFren aveva praticamente forzato Kelly a non impiccarlo subito, a chiedere una conferma dell’ordine al colonnello. E prima che la conferma arrivasse, lui era riuscito a scappare, beffando ancora una volta Kelly: il Delfino era sgusciato tra le maglie della rete, lasciando il pescatore con le pive nel sacco.

      Quel giorno, mentre McFren e Kelly discutevano animatamente in sua presenza, aveva guardato McFren a lungo. Aveva ammirato la determinazione di McFren, il suo senso di giustizia, la profonda onestà che traspariva dalle sue parole. Kelly si era rivelato per quello che era: un individuo meschino, indifferente alla giustizia, vendicativo.

      Aveva osservato bene McFren. E ricordava gli occhi, di un verde magico, come non aveva mai visto in vita sua. Il naso diritto, piuttosto grosso, le labbra carnose che spuntavano tra i baffi e la folta barba. E d’improvviso, prima di rendersene conto, aveva avvertito l’impulso di baciarlo, baciarlo sulla bocca.

      Non si era stupito: sapeva benissimo che gli piacevano gli uomini, anche se non l’avrebbe mai ammesso, anche se aveva orrore di sé. Ma non gli era mai capitato che un uomo lo attraesse tanto.

      Ed ora, guardando McFren, pensò che avrebbe potuto fargli uno scherzetto. In fondo aveva sempre preso di mira Kelly e i suoi uomini, che tutti odiavano. McFren era stimato, perché era giusto e cercava di alleviare le sofferenze. E soltanto tre giorni prima aveva salvato la piccola Anne Spones dall’incendio, rischiando la pelle. Nessuno gli avrebbe mai rivolto un sorriso, perché era uno yankee, ma tutti lo stimavano. David si diceva che quello era il motivo per cui non lo aveva mai attaccato, anche se non era raro che McFren si muovesse da solo, proprio lui che con i suoi uomini sembrava la chioccia con i pulcini, sempre attento a proteggerli. Ora però gli avrebbe fatto uno scherzo, solo uno scherzo. Avrebbe umiliato anche lui, tanto per far vedere a tutti che le truppe degli invasori non potevano considerarsi al sicuro. Uno scherzo un po’ diverso…

 

      Il temporale si avvicinava. Poche gocce di pioggia, per il momento, ma tuoni e lampi che sembravano voler annichilire proprio quell’angolo di mondo. McFren procedeva al trotto lungo la strada, cercando di calmare il suo cavallo, sempre più nervoso.

      Cavalcando solitario, ripensava alla propria vita. Gli capitava di rado, ma era il suo trentesimo compleanno e quel pomeriggio mille ricordi erano affiorati. Non era stata una vita molto felice. Suo padre era morto quando lui era ancora bambino e la madre lo aveva seguito pochi anni dopo. Gli zii che lo avevano allevato gli avevano dato tutto il necessario, tranne l’affetto di cui Albert aveva un bisogno disperato. Più tardi, l’ingresso nell’età adulta aveva portato nuovi problemi, perché Albert aveva capito di non essere come gli altri. Allora aveva cominciato a bere troppa birra. Non era diventato un ubriacone, no, ma la sera, per scacciare la tristezza, spesso beveva. E alla sua statura monumentale si era aggiunta la pancia. Lo chiamavano Tricheco, per quello, e il soprannome se l’era trascinato dietro anche nell’esercito.

      Albert McFren si disse ancora una volta che doveva rassegnarsi alla solitudine. Avrebbe ancora conosciuto il piacere del corpo, ma sarebbero sempre state brevi esperienze, senza un futuro. Non sarebbe mai riuscito ad avere al suo fianco un uomo che amava. Scosse le spalle. Erano sciocchezze. In quel tempo, poteva dirsi fortunato a essere arrivato quasi alla fine della guerra ancora vivo e sano. Molti dei suoi compagni a trent’anni non erano mai arrivati.

       In quel momento, a una svolta, vide un carro rovesciato in mezzo alla strada. Si avvicinò e scorse una donna, avvolta in un’ampia gonna, per terra, di fianco al carro. Era di schiena e sembrava svenuta.

      Albert McFren scese rapidamente da cavallo e si chinò sulla donna.

      - Signora…

      Non proseguì la frase, perché la donna si era voltata e ora il sergente McFren aveva una pistola puntata sul viso, mentre sotto la cuffia poteva vedere il ghigno di David Holston. Eppure, mentre capiva di essere caduto in una trappola, Albert si disse che non aveva mai visto un viso così bello. Quegli occhi scuri da demonio, quei lineamenti regolari, quella barba corta… McFren respirò a fondo e non disse niente.

      Holston si tolse la cuffia e si alzò. Gli prese la pistola e poi gli intimò:

      - Nel fienile, muoviti.

      Il fienile dei Grandson era a un centinaio di metri.

      McFren eseguì. Era turbato, ma non per essere stato catturato: non pensava che Holston lo avrebbe ucciso, non uccideva mai a freddo. Lo turbava la vicinanza di Holston, il desiderio che si accendeva nel suo corpo, assurdo, in quella situazione.

      Nel fienile c’erano quattro uomini di Holston.

      - Bene, sergente, adesso spogliati.

      McFren guardò Holston, poi ubbidì. Si tolse la giacca e la camicia. Anche Holston si liberò dai vestiti da donna, ma sotto aveva i suoi soliti abiti.

 

      Holston guardò il largo torace di McFren, attraversato dalla fasciatura che probabilmente copriva la scottatura alla schiena. Ora che poteva vedere la grossa pancia dell’uomo, coperta da un pelame rossiccio, provava una sensazione strana, che gli chiudeva la gola. Guardò le braccia, braccia robuste, anch’esse velate di rosso. Gli sembrava di vivere in un sogno, in cui era lucidissimo, ma incapace di agire. Udì, come se appartenesse a un altro, la propria voce:

      - Anche gli stivali e i pantaloni.

      McFren esitò un momento, ma nuovamente eseguì l’ordine, senza dire nulla.

      Holston deglutì. Guardò un attimo le gambe, non meno pelose del ventre. Avrebbe voluto dirgli di togliersi anche le mutande, come aveva previsto, ma provava vergogna. Gli sembrava che, se gli avesse detto di spogliarsi, avrebbe gridato a tutti il suo desiderio per quell’uomo. Perché lo desiderava, con forza.

      - Legatelo bene.

      In un baleno i quattro uomini furono addosso a McFren. Uno gli aveva appena messo le braccia dietro la schiena, quando la luce di un fulmine li accecò e un istante dopo il tuono esplodeva tanto vicino a loro da farli sobbalzare. Rimasero un attimo rintronati e confusi, poi ripresero l’azione interrotta: in un batter d'occhio legarono saldamente le braccia di McFren dietro la schiena e le gambe. Poi lo obbligarono a stendersi a pancia in giù e passarono ancora una corda che avvicinò caviglie e polsi, forzando McFren in una posizione alquanto scomoda. Lo mollarono così e fuggirono ridendo, portandosi dietro il cavallo di McFren.

      Fu solo dopo che ebbero percorso un centinaio di metri, che David Holston si voltò e vide il fumo che usciva dal fienile: il fulmine aveva incendiato il tetto! McFren era legato e non poteva certo uscire: sarebbe bruciato vivo!

      - Raggiungete l’accampamento, voi.

      Corse al galoppo verso il fienile, che ormai le fiamme stavano avvolgendo.    

     

      McFren avvertì l’odore di bruciato. Con uno sforzo girò la testa verso l’alto e vide che il soffitto stava ardendo. In pochi secondi l’intero fienile sarebbe stato distrutto.

      L’angoscia lo prese. Il fuoco, di nuovo il fuoco. Era destinato a morire bruciato vivo. Cercò disperatamente di trascinarsi verso l’uscita, ma legato in quel modo riuscì a percorrere forse due o tre metri e già il fieno incendiato volteggiava intorno a lui e al suolo si accendevano piccoli fuochi.

      Fu in quel momento che vide Holston davanti a lui. Lo vide estrarre la spada e capì che tagliava la corda che univa le gambe alle braccia, poi si accorse che anche le gambe erano libere. Si alzò e corse fuori, impacciato dalle mutande che mentre strisciava sul pavimento si erano abbassate e ora erano quasi all’altezza delle ginocchia.

      Adesso la pioggia scendeva, violenta.

      Holston prese il cavallo, che aveva legato ad un albero e fece per salirvi, ma in quel momento si sentirono due voci forti.

      - Fermo o sparo.

      - Sei sotto tiro.

      McFren vide due dei suoi uomini, con le armi puntate su Holston.

      - Posate le armi.   

      I due uomini lo guardarono, stupefatti.

      - Ma

      - È un ordine!

      I due uomini ubbidirono. McFren fece un cenno a Holston, che salì a cavallo e galoppò via.

      McFren si rivolse ai suoi uomini:

      - Quell’uomo è tornato indietro per salvarmi la vita. Non posso permettere che paghi con la sua. E ora, se volete, potete denunciarmi a Kelly.

      - Sergente, che cosa dice!

      - Noi?!

      A McFren venne da sorridere, vedendo le facce mortificate dei suoi uomini. Sapeva benissimo che non l’avrebbero mai denunciato. Con un tono burbero, continuò:

      - E allora liberatemi le mani, che possa almeno tirarmi su le mutande. O volete che vada in giro così, mettendo in mostra tutto?

      Bertson, che era un impudente, ridacchiò e, mentre tagliava le corde che lo legavano, disse:

      - Quando si ha un’attrezzatura come la sua, sergente, non c’è da vergognarsi a metterla in mostra.

      Anche l’altro soldato scoppiò a ridere. McFren si tirò su le mutande e disse solo:

      - Questa sera voi due siete in punizione!

      - Ma sergente, era un apprezzamento!

      - Spero almeno che abbiate un cavallo, qui vicino, o mi tocca fare tutta la strada in mutande e a piedi, sotto questa fottuta pioggia?

 

      A David Holston sembrava di respirare a fatica. Non si rendeva conto nemmeno di dove andava, avrebbe potuto finire in braccio a Kelly senza neppure accorgersene. Spinse il cavallo attraverso un prato fino ad una macchia di alberi e lì si fermò.

      Doveva cercare di calmarsi, di ragionare. Ma nella mente ritornavano in continuazione due immagini, con una nitidezza che lo sconvolgeva. Le aveva viste per pochi secondi, ma si erano stampate nella sua mente e sembravano non volersi cancellare.

      Era ritornato nel fienile pensando solo a salvare McFren, ma quando lo aveva visto sdraiato a terra, con il culo scoperto, aveva sentito la gola secca e un vuoto allo stomaco. Quel grande culo, spruzzato di un groviglio di peli rossi, il solco tra le natiche, la carne chiara. Aveva dovuto fare uno sforzo per non affondare le mani in quella carne, per non stringere, per non mordere, leccare…

      Aveva tagliato la corda a fatica e poi erano corsi fuori. Aveva pensato solo ad andarsene, scappare via, sapeva che non doveva guardare più quell’uomo, mai più. Ma c’erano i due soldati e quando McFren aveva parlato, lui l’aveva guardato. Aveva guardato il viso, il torace possente, che appariva ancora più largo perché le mani erano legate dietro la schiena. Poi il suo sguardo era sceso, senza che David riuscisse a fermarlo, era sceso fino a bloccarsi, un secondo soltanto, sul ventre e sul sesso. E David era stato preso da una vaga nausea, un’improvvisa debolezza che gli aveva tagliato le gambe. Il cenno di McFren aveva scacciato la sua debolezza, ma quello che aveva visto gli era rimasto conficcato nella testa.

      Sapeva che McFren era dotato: quando era arrivato nella contea, qualcuno dei suoi soldati lo aveva visto mentre si bagnava al fiume e aveva fatto qualche battuta sul fatto che doveva essere davvero un asino, ne aveva anche gli attributi. La battuta lo aveva lasciato indifferente, non aveva mai visto McFren, allora. Non pensava che quella vista potesse sconvolgerlo.

 

      David Holston guardò la strada lungo cui il sergente McFren avanzava. Si era ripromesso di non guardarlo più, mai più, ma aveva bisogno di parlargli. William era stato catturato e voleva chiedergli di lasciarlo libero, perché sua madre stava morendo. Era un’idea assurda. Proprio lui, andare a parlare con McFren, dopo lo scherzo che gli aveva fatto quattro giorni prima! E rivolgersi a lui per chiedergli di liberare uno dei suoi uomini, un nemico!

      Sapeva benissimo che c’erano ben altre motivazioni, ma aveva smesso di ragionare. Da quattro giorni gli sembrava di delirare.

      Ora McFren era solo vicino al ponte. Spronò il cavallo e lo raggiunse. McFren si voltò, sentendo il rumore del cavallo e lo guardò. Estrasse la pistola e gliela puntò addosso. 

      - Vengo disarmato, per una richiesta.

      McFren lo fissava e David Holston, senza riuscire a staccare lo sguardo da quegli occhi verdi, si disse che si era cacciato in una situazione assurda. Disse quanto aveva da dire, tutto d’un fiato:

      - Sergente, le sue truppe hanno catturato uno dei miei uomini. William Grandville. Sua madre sta morendo e chiede del figlio. Le chiedo di lasciare libero Grandville. Le garantisco che si riconsegnerà dopo la morte della madre e se per qualche motivo non riuscisse a farlo, ha la mia parola che prenderò il suo posto.

      Albert McFren aveva abbassato un po’ la pistola. Esitò un attimo, poi rispose:

      - Parlerò con Grandville. Dove sta sua madre?

      David cominciò a spiegare, ma vide McFren guardare alle sue spalle, irrigidirsi e sollevare nuovamente il braccio con la pistola.

      - Mi spiace, Holston, ma lei è in arresto.

      Rimase sbalordito. Non si era aspettato una cosa del genere, gli sembrava impossibile, da parte di un uomo come McFren. Di tanto si era ingannato su di lui?

      - Sono venuto in pace…

      - Lo so, ma è necessario che l’arresti io, altrimenti lo farà Kelly, che sta arrivando.

      Solo allora si accorse del rumore sempre più forte dei cavalli al galoppo.

      - Non si volti, alzi le mani e mi ubbidisca. Si fidi di me.

      Ubbidì. Di quell’uomo si fidava, anche se non capiva che cosa avrebbe potuto fare.

      - Fantastico, McFren, abbiamo catturato questo bandito!

      Kelly era di fianco a lui. La sua voce era acuta, come se la ricordava. McFren rispose con la sua voce grave:

      - Abbiamo? Non ho visto la sua partecipazione alla cattura, sergente Kelly.

      Kelly fece una smorfia, ma David la vide appena. Fissava McFren, incapace di staccargli lo sguardo di dosso. Finché aveva avuto da parlargli, la sua mente era stata occupata a cercare le parole. Ma ora non faceva altro che bersi McFren con gli occhi. Si disse che se non si fosse controllato, avrebbe finito per baciare sulla bocca McFren lì, davanti a Kelly.

      - Visto che è solo, sergente McFren, i miei uomini saranno un utile scorta. Il nostro accampamento è appena a due miglia da qui.

      - Se mi vuole dare una scorta per portare Holston alla base di Wilsontown, benissimo. Altrimenti mi arrangio da solo, come da solo l’ho catturato.

      - Wilsontown? Ma sono dodici miglia. Questo delinquente potrebbe scappare…

      - Dal suo accampamento è già scappato una volta. Adesso rimane mio prigioniero.

      La rabbia di Kelly traspariva dalla sua voce:

      - Badi, se fugge, ne risponderà alla corte marziale!        

      Vide che McFren alzava appena le spalle.

 

      Albert McFren sapeva che cosa avrebbe fatto. E sapeva quale prezzo avrebbe pagato. Ma non c’erano altre soluzioni. Aspettò che i suoi uomini fossero a dormire, poi prese la lanterna e uscì sulla soglia della casetta che utilizzava come residenza ed in cui aveva fatto imprigionare Holston. Parlò alle due sentinelle.

      - Io faccio un controllo delle finestre e poi salgo da Holston. Passerò la notte con lui. Non voglio sorprese. Voi controllate bene la porta, che è l’unica via da cui possono entrare i suoi uomini. Se non lo liberano loro, da solo non esce.

      - Conti su di noi, sergente!

      A McFren spiaceva ingannare così i suoi uomini, ma non aveva altre possibilità. Passò nelle quattro stanze che si trovavano al piano terreno e controllò la chiusura delle ante, dando grandi colpi. Voleva che i suoi uomini sentissero. E voleva che non sospettassero nulla. Nella stanza sul retro, in cui dormiva, diede i soliti colpi, poi tolse il blocco e socchiuse le ante. Sarebbe bastata una piccola spinta per aprirle del tutto e scavalcando si usciva in un attimo. Di lì sarebbe fuggito Holston, che sarebbe riuscito a sgusciare fuori dall’accampamento. Lì lui avrebbe aspettato. Sapeva che Kelly l’avrebbe denunciato e che la corte marziale l’aspettava. Aveva fatto quanto doveva fare ed avrebbe completato la sua opera, con un atto di giustizia. Aveva liberato Grandville quella sera stessa e sapeva che l’uomo si sarebbe riconsegnato.

      Salì al piano di sopra e controllò le ante allo stesso modo, poi si diresse nella stanza dove Holston stava disteso su una coperta, le mani ed i piedi legati.

      Non disse nulla. Controllò la finestra. Poi si mise a sedere davanti ad Holston, che si mise anche lui seduto e lo fissò.

      Albert McFren cercò di controllarsi, anche se guardare quel viso illuminato dalla lanterna accendeva in lui un desiderio prepotente.

      - Non avevo scelta, Holston. Kelly era troppo vicino. Se lei avesse cercato di fuggire, le avrebbe sparato.

      Holston non rispose immediatamente. Sembrava intontito. Eppure non gli era stato torto un capello. Aveva avuto da mangiare e da bere ed era stato legato solo un’ora prima, perché non cercasse di scappare. Anche quando parlò, McFren notò che faceva una certa fatica.

      - Meglio ucciso con una pallottola che impiccato come un malfattore.

      - Non sarà impiccato, Holston. Adesso taglierò le corde e poi lei scapperà via. Le consiglio di andarsene, di lasciare il paese. La guerra è ormai finita e la sua resistenza è inutile, esaspera soltanto gli occupanti ed aggrava la repressione. A pagare sono gli indifesi.

      - Non mi sembra che lei si sia mai comportato come dice.

      McFren scosse la testa.

      - Da domani non sarò più io il responsabile della contea.

      Si pentì di averlo detto. Perché aveva parlato? Per farsi bello davanti ad Holston, facendogli capire che avrebbe pagato un prezzo alto per liberarlo? Era stata una stupidaggine. Riprese subito, per evitare che Holston riflettesse sulle sue parole.

      - Adesso le taglio le corde.

      Aveva con sé un coltello e si avvicinò ad Holston. Ora che il suo corpo era tra la lanterna e il prigioniero, il viso di Holston era in parte in ombra. A McFren sembrò che fosse ancora più bello. Guardò le labbra, quelle labbra socchiuse. E un desiderio più forte di tutto lo invase. Sarebbe stato processato, sicuramente degradato, forse fucilato. Stava dando un calcio a tutto per salvare l’uomo che aveva di fronte. Almeno un bacio. Mormorò, con una voce roca che non riconobbe come sua:

      - Prima però…

      Avvicinò le mani al viso di Holston, appoggiò le palme su quelle guance e, protendendo il viso, posò le sue labbra su quelle del prigioniero.

      La sensazione fu tanto violenta da stordirlo. E si accorse che le labbra di Holston non si ritraevano, ma si aprivano ancora. Lasciò che la sua lingua sfiorasse i denti di Holston, che, senza incontrare resistenza, si spingesse ancora oltre, fino a trovare la lingua del prigioniero. Le due lingue si accarezzarono e quando quella di McFren si ritrasse, quella di Holston la seguì.

      McFren spinse il corpo di Holston sulla coperta, senza che le loro bocche si staccassero, e solo quando si appoggiò su di lui, la pressione contro il suo ventre delle mani legate di Holston gli rese la coscienza della realtà. Stava approfittando di un uomo legato.

      Si rimise seduto.

      - Mi scusi.

      Con il coltello tagliò le corde che legavano le mani ed i piedi.

         Holston non si mosse. Rimaneva disteso, davanti a lui e lo guardava.

      McFren era paralizzato. Il suo corpo urlava il suo desiderio, ma la sua mente cercava disperatamente di tenerlo a freno. Se avesse ceduto, non avrebbe più potuto rispondere delle sue azioni.

      Holston tese un braccio verso di lui. McFren afferrò quella mano e lasciò che Holston lo attirasse su di sé. E perse ogni controllo.

      Baciava la bocca di Holston, mentre le sue mani accarezzavano quel corpo, passando sugli abiti. Sentiva il calore della carne sotto la giacca. Poi le mani sbottonarono la giacca e la sensazione divenne più forte, tanto forte da far male. A McFren sembrava che le sue dita bruciassero quando, attraverso la camicia stringevano quella carne. Holston non si muoveva, ma il fremito che percorreva il suo corpo non lasciava dubbi sul piacere che provava.

 

      David Holston stava perdendo i contatti con la realtà. Non sapeva più dov’era, chi era. Non esisteva più nulla al mondo, se non quelle mani che scorrevano sulla sua camicia, trasmettendogli sensazioni inesprimibili; se non quelle labbra che cercavano le sue e poi si muovevano per il suo viso.

      A lungo rimase incapace di muoversi, di parlare. Lasciò che McFren lo accarezzasse, facendolo ardere. Poi, di colpo, le sue mani strinsero al suo quel corpo possente, scivolarono sulla giacca, scesero sui pantaloni e strinsero le natiche, mentre David nella sua mente rivedeva quel grande culo nudo e peloso, come lo aveva visto quattro giorni prima.

      Serrò con forza, afferrando a piene mani quella carne superba. McFren lo guardava, ora. Alla luce della lampada poteva appena vedere il verde dei suoi occhi. Una voce, che era la propria, disse:

      - Spogliati.

      McFren continuò a guardarlo per un buon momento. Poi si mise sulle ginocchia, a cavalcioni sul suo corpo, e si sfilò la giacca e la camicia. David guardò quel torace massiccio sopra di lui e immerse le mani nel groviglio di peli rossi. Quel contatto gli diede una scossa e le sue dita strinsero la carne. Poi risalirono fino ai capezzoli rosati, che sporgevano appena dal viluppo di peli. Li prese tra l’indice e il pollice e ne sentì la consistenza. Strinse, con forza. McFren lo fissava, senza reagire. Si chinò appena su di lui.

      Poi le mani di David salirono ancora, sul collo muscoloso, accarezzandogli la nuca, e infine sulle guance, mentre le dita affondavano nella barba. E allora le mani di McFren si mossero. Gli aprirono la camicia e scivolarono sul suo corpo, facendolo vibrare come la corda di un violino. E poi McFren si stese su di lui e le sue mani gli sfilarono la giacca e la camicia, mentre le sue labbra scendevano dalla sua bocca ai capezzoli, mordendo e strappandogli un gemito, poi la lingua scivolava fino all’ombelico, si fermava e accarezzava, risaliva, poi la bocca era nuovamente sulla sua, gli mordeva una guancia, l’orecchio, lo baciava di nuovo, gli mordicchiava il mento, scendeva ancora ai capezzoli.

      Il contatto venne meno e McFren si mise di nuovo cavalcioni su di lui. Le sue mani slacciarono la cintura e gli abbassarono i pantaloni e le mutande. McFren rimase un buon momento a guardarlo, poi la sua bocca scese verso il ventre di David, morse il sesso teso, un morso leggero, poi la lingua scivolò lungo il membro e sotto, accarezzando i testicoli.

      Ed ora McFren era di nuovo steso su di lui, la bocca cercava ancora la sua, mentre una mano gli accarezzava l’asta tesa, scendeva sotto, aggirando i testicoli, stimolava l’area dietro lo scroto.

      David si tese in uno spasimo di piacere.

      McFren era di nuovo accovacciato su di lui e le mani di David si mossero, slacciarono la cintura, abbassarono i pantaloni e le mutande, liberando dall’impaccio degli abiti il randello nodoso che ora batteva sul ventre del sergente.

      Una vertigine prese David, forse una paura, forse un desiderio. Le sue mani si unirono per accarezzare quel palo che incombeva su di lui. Di scatto McFren fu in piedi. Visto così, da sotto, il ventre di McFren appariva enorme e il bastone che batteva contro quel ventre era un cannone. David si sentì minuscolo e disarmato di fronte ad una forza infinitamente più grande. Desiderava essere sconfitto, umiliato, annientato.

      McFren finì di spogliarsi e con gesti bruschi spogliò anche David.

      David lasciò che facesse. Quando aveva le gambe o le braccia di McFren vicine, le accarezzava, ma senza cercare di fermarlo. E quando infine McFren ebbe finito e rimase fermo, in piedi, le gambe a lato dei suoi fianchi, guardandolo, David si sentì sprofondare in un abisso. Sentì il peso del corpo su di lui e ogni lembo di pelle che veniva a contatto con quella di McFren accendeva una fiamma. In breve tutto il suo corpo fu un’unica fiammata, che aveva il suo centro nel ventre, dove premeva un randello, dove la mano di McFren scorreva, attizzando il piacere a tal punto da renderlo doloroso. Il viso di McFren, che la lampada lasciava in ombra, era sul suo e con forza David lo afferrò, abbassandolo fino a che poté baciargli le labbra, mordergli la guancia.

      Di colpo non vide più nulla. Una diga si rompeva dentro di lui, il suo corpo si disfaceva in frammenti, mentre tutto il suo seme sgorgava libero, come in un’eruzione vulcanica. Ondate di piacere lo travolgevano, ondate ogni volta più alte, ogni volta più potenti. E a quel piacere David si abbandonava, come una trave sbatacchiata da una tempesta.

      Quando, molto lentamente, recuperò la coscienza, vide il viso di McFren sopra il suo, un sorriso dolcissimo sulle labbra. Sulla guancia colava un po’ di sangue. Lo aveva morso a sangue, ma non importava, non aveva nessuna importanza. Quello che contava era quel sorriso, era il peso di quel corpo, era il pelame in cui le sue mani affondavano mentre le dita ancora stringevano il culo di McFren.

      - Alzati.

      McFren ubbidì. Era bellissimo vederlo così, mentre lo sovrastava, la sua arma protesa, minacciosa. David gli accarezzò le gambe. Amava sentire il gioco dei muscoli possenti sotto la pelle, amava accarezzare quell’intreccio di peli.

      Poi, con un tuffo al cuore, capì che il momento era giunto e si voltò sulla pancia. Passò un attimo, solo un attimo, prima che McFren fosse su di lui ed il contatto dei loro corpi accese nuovamente il desiderio. Quel corpo massiccio lo schiacciava, contro il culo David poteva sentire l’arma terribile, che presto sarebbe entrata in lui. Aveva paura, ma non desiderava nulla di più al mondo. Avrebbe dato la vita per sentirla dentro di sé. La bocca di McFren gli mordeva la nuca, la spalla, la lingua percorreva il suo orecchio, passava dietro l’orecchio, scendeva sul collo.

      Poi il contatto diminuì e David sentì la lingua di McFren che percorreva il solco tra le natiche. Si contorse, in un guizzo disperato, ma non cercò di sottrarsi. Aveva l’impressione di dibattersi in fondo al mare. Un mostro marino lo teneva prigioniero e divorava le sue carni. I tentacoli gli avvolgevano il culo e presto la zanna del mostro lo avrebbe trafitto. David si agitava, per sfuggire alla creatura mostruosa, ma sapeva che non sarebbe riuscito a sfuggire, sapeva che non voleva sfuggire: desiderava soltanto che il mostro continuasse la sua opera, desiderava lo strazio del suo corpo ed era felice di sapere che nessuno mai aveva preso ciò che offriva alla creatura.

      Sentiva i denti del mostro affondare nel suo culo e gemeva, sentiva la lingua sfiorare, poi affondare fino a indugiare a lungo sull’apertura segreta. Sentiva le mani che gli stringevano il culo, facendogli male. Sentiva il desiderio che saliva sempre più in alto.

      Poi la belva si impossessò di lui completamente, la bocca ora stringeva la nuca, i tentacoli ancora martoriavano il culo, ma a tratti risalivano lungo i fianchi e le braccia ed una zampa gli afferrava la testa, stringendo i capelli.

      David voltò la testa e vide, immense, proiettate sulla parete, le ombre dei loro corpi.

      Poi, di colpo, David sentì l’immensa zanna che premeva, con delicatezza, forzando la carne a cedere, ad aprirsi. E allora, in un delirio di piacere e di dolore, la zanna cominciò lentamente a penetrarlo, trapassandogli le viscere. Sconfitto e senza speranza di fuggire, David si abbandonò all’abbraccio del mostro che lo divorava, assaporò il calore di quello spiedo arroventato che lo stava infilzando, la violenza delle mani che gli stringevano il culo, dei denti che affondavano nella spalla.

      E quando infine il grande spiedo cominciò a muoversi freneticamente, in una serie di spinte che lo laceravano, David sentì, più forte ancora di prima, la violenza del piacere che si faceva strada in lui, sconfiggendo il dolore ed annichilendolo. La tensione salì, incontrollabile, e quando si sciolse infine in una serie di scosse, David non riuscì più a contenere l’urlo che gli premeva in gola.

 

Albert McFren si abbandonò, completamente svuotato, su Holston. Le sue mani gli stringevano ancora il culo, come fossero rimaste pietrificate.

Mai, in una tutta la sua vita, aveva provato un piacere simile. Le esperienze che aveva avuto erano state spesso soddisfacenti, ma di fronte all’estasi che aveva raggiunto, non erano nulla.

Albert si disse che valeva la pena di morire, davvero.

Sarebbe voluto rimanere così, a lungo, per sempre, ma era ora che Holston scappasse.

Con una fatica indicibile si alzò. Holston si girò a guardarlo.

- Alzati.

Holston ubbidì.

- Rivestiamoci.

Holston lo guardò, parve sul punto di parlare, ma poi eseguì senza dire niente. Soltanto non gli tolse gli occhi di dosso mentre si rivestiva. Albert cercò di non guardare troppo quel corpo, perché sapeva che avrebbe perso il controllo.

Quando furono entrambi rivestiti, McFren parlò:

- Ora scendiamo sotto. Ho lasciato la finestra di una camera aperta, in modo che tu possa uscire senza far rumore. È notte fonda, hai tutto il tempo di scomparire.

Holston respirò a fondo, come se cercasse di riprendere contatto con la realtà, poi disse:

- No, non me ne vado. Se fuggissi, tu ti troveresti nei guai.

- Dirò che mi hai stordito.

Holston scosse la testa.

- No.

McFren sentì la rabbia invaderlo:

- Cristo, Holston, lo capisci o no che se rimani qui domani ti impiccano?

Vide che alzava le spalle.

Lo afferrò per il bavero della giacca.

- Cristo!

Ora che i loro visi erano vicini, non trovò più le parole. Gli prese la testa e lo baciò. Sentì che Holston ricambiava quel bacio.

Quando le loro labbra si separarono, parlò. Ora la rabbia era svanita.

- Ti prego, vattene.

- No!

McFren avrebbe voluto strozzarlo.

- Siete tutti uguali. Teste di legno, orgogliosi. E va bene, se vuoi così, come desideri. Voltati, che ti lego.

Sapeva che cosa fare e senza perdere tempo legò le braccia e le gambe di Holston.

- E adesso ti avviso che se dici una parola, mi fai arrestare e fucilare.

E prima che Holston riuscisse a capire, lo afferrò e se lo mise in spalla.

Holston non era precisamente leggero: pur essendo più basso e avendo una corporatura molto meno massiccia di McFren, era ben piantato. Ma McFren era forte come un toro e senza vacillare, uscì dalla stanza e scese la scala.

Posò Holston vicino alla finestra aperta e si recò dai due uomini di guardia alla porta.

- Tutto a posto, ragazzi?

- Sì, sergente.

- Bene, io torno su. Holston dorme e non credo che ci saranno problemi.

Rientrò, andò alla finestra aperta, si caricò nuovamente Holston in spalla ed uscì.

Uscire dall’area militare richiese una serie di manovre, che la presenza, piuttosto ingombrante, di Holston, non facilitò. Ma McFren era la massima autorità e, nascondendo Holston alla vista, poteva intimare ai suoi uomini di spostarsi, inventando scuse più o meno plausibili. Poi poteva caricarsi Holston in spalla e proseguire. In queste manovre fu talvolta un po’ rude con Holston, ma quel peso lo faceva sudare e cominciava ad essere nervoso. E poi ce l’aveva con quella testa di cazzo di sudista orgoglioso. E poi… l’attrazione che provava era troppo forte. Il contatto con il corpo di Holston lo stava facendo impazzire, il suo uccello aveva alzato la testa e tutto il suo corpo gli urlava di gettare a terra la sua preda, di abbassargli i pantaloni e di prenderlo ancora. Mantenere la lucidità era uno sforzo continuo.

Si lasciarono alle spalle il quartier generale. Non c’erano più grossi rischi, ormai. L’unico pericolo ora era quello di incontrare qualche soldato sudista, ma tutto sommato McFren preferiva che gli facessero la pelle i sudisti, piuttosto che venire fucilato dai propri uomini.

Aveva appena finito di pensarlo, quando sentì la voce:

- Se ti muovi, spariamo.

McFren si fermò. Sentì la voce di Holston.

- Ottimo, Johnny! Disarmalo e poi slegami.

- Maggiore! Cercavamo di capire come liberarla e ci arriva tra le braccia!

Gli furono addosso in sei o sette. McFren si lasciò disarmare senza opporre resistenza. Holston diede ordine di legargli le mani dietro la schiena.

- Lo portiamo con noi, alla base.

Uno degli uomini si avvicinò a Holston e gli parlò all’orecchio. Holston rispose ad alta voce.

- Non c’è problema, mi assumo io la responsabilità.

Raggiunsero i cavalli. Holston parlò nuovamente:

- Legategli anche i piedi.

Poi lo caricarono sul cavallo, come un sacco di patate. Il duro aveva chinato il capo, ma sul cavallo di Holston McFren poteva sentire il calore di quel corpo che premeva sul suo. Il duro rialzò la testa.

Partirono. Holston usava l’estremità delle briglie del cavallo come una frusta, con cui gli colpiva il culo. All’inizio erano colpi leggeri, che lo stuzzicavano appena. Ormai ce l’aveva tanto duro che gli faceva male. Poi i colpi divennero più forti, vere e proprie frustate, che dovevano lasciare il segno. Ma l’eccitazione non diminuiva. 

Mentre cavalcava verso il rifugio dei ribelli, la sua testa cercava di dare ordine al caos di sensazioni e pensieri.

Desiderava David Holston, con una violenza che lo stupefaceva. Lo desiderava tanto che gli sembrava di non riuscire a respirare.

Ma al di fuori di quel desiderio, non aveva certezze. Holston non gli avrebbe torto un capello. Perché lo aveva voluto con sé? Probabilmente per evitare che lui tornasse dai suoi uomini, rischiando un processo. Ma come poteva pensare di salvarlo?

La base era un gruppo di capanne, un tempo abitate dagli schiavi di una piantagione. Della casa padronale, bruciata, erano rimasti in piedi solo i camini di mattone, che sembravano dita scheletriche alzate verso il cielo.

Lo misero in una capanna, lo lasciarono lì a lungo. Poi Albert sentì lo scalpitio di diversi cavalli che si allontanavano.

David Holston entrò. Teneva in mano una lanterna e Albert si disse che in tutti quei giorni lui e David si erano scambiati le parti, catturandosi e liberandosi a vicenda dopo essersi catturati. Ora David era davanti a lui, che aveva le mani e i piedi legati, come poche ore prima lui era stato davanti ad un David legato allo stesso modo.

Albert si alzò. David posò la lampada a terra. Poi aprì la giacca di Albert e la camicia, facendole scivolare, fino a che si impigliarono nelle braccia legate dietro la schiena.

Poi slacciò la cintura di Albert e gli calò i pantaloni e le mutande. Liberata dalla guaina, la grande spada si drizzò in tutta la sua potenza.

Albert vide che David la fissava, ammaliato.

Poi David cominciò a spogliarsi e in breve fu completamente nudo.

Anche lui ce l’aveva duro.

David si inginocchiò davanti ad Albert e cominciò a passare la lingua sul grande uccello del sergente. La lingua saliva, stuzzicava la cappella, poi scendeva, accarezzava i coglioni. Intanto le mani di David martoriavano il culo di Albert.

Poi David prese in bocca la punta dell’arma, forzandola a inclinarsi in avanti. Quando la bocca inghiottì, con una certa fatica, la cappella, Albert ebbe un capogiro. Guardò la testa di David. Avrebbe voluto accarezzarla, ma David non gli aveva sciolto i lacci.

- Liberami, David!

Era la prima volta che lo chiamava per nome.

David scosse la testa, senza lasciare la sua preda.

Albert sentì che nuovamente la marea del piacere stava salendo, che stava per sommergerlo. Urlò:

- David, sto per venire.

Ma David non liberò l’arma, neppure quando il flutto proruppe inondandogli la bocca. Albert si trovò a mormorare:

- David, David, David…

David era in piedi, ora. Lo baciò sulle labbra e Albert cercò con la lingua nella bocca di David la traccia del seme che vi aveva versato.

David passò dietro di lui e gli sciolse i legacci, facendo cadere la camicia e la giacca. Albert si tolse le scarpe e si sfilò i pantaloni e le mutande.

 

David guardava il corpo Albert, davanti a lui. Passò una mano, con delicatezza, sul torace, intorno ad un capezzolo, sul ventre, fino a sfiorare il grande uccello. Desiderava Albert, come non aveva mai desiderato.

Albert lo attirò a sé e lo strinse, baciandolo di nuovo sulla bocca. David sentì che le mani di Albert scendevano lungo la sua schiena, in una carezza dolcissima, che divenne una stretta vigorosa quando le mani arrivarono al culo.

- Stenditi, Albert. Voglio il tuo culo.

Albert si inginocchiò davanti a David, gli baciò il ventre e il sesso, poi si stese, allargando le gambe.

David fissò quel grande culo peloso. Il desiderio troppo irruente lo travolse. Affondò le mani nella carne, strinse con forza. Guardò la punta della propria arma che si infilava nel solco tra le natiche, che si avvicinava al buco tra i peli, che entrava, senza pietà, trafiggendo.

Albert emise appena un gemito, che accese ancora più il desiderio di David. Cercò di controllarsi, per gustare a fondo la sensazione della sua arma che affondava in quella carne calda, delle sue mani che stringevano il culo di Albert, del suo ventre contro la schiena di Albert, della sua bocca che mordeva la nuca di Albert. A lungo si immerse in quel corpo e se ne ritirò, poi, quando capì che stava per venire, riprese a spingere con violenza, quasi volesse trapassare completamente quella carne che l’accoglieva.

Sentì il proprio urlo:

- Albert!

Crollò esausto su Albert, gli morse la nuca e si abbandonò completamente.

Rimase a lungo disteso su quel corpo, stordito dal calore che lo avvolgeva, dall’odore di sudore che ne emanava. Avrebbe voluto rimanere così per sempre, ma la notte era ormai molto avanzata. Il mattino non era più lontano. Occorreva agire.

Quando infine trovò la forza di uscire da Albert, si rivestì. Albert lo imitò, in silenzio. Poi David lo fissò e, sorridendo, gli disse:

- Bene, adesso mi riporterai alla base.

- Piantala di dire cazzate, David. Neanche se mi ammazzi.

- La guerra è finita. Johnston si è arreso.

- Bene, motivo di più per vivere.

- Se scappi, ti troveranno, Albert: qui nessuno intende nascondere uno yankee. I tuoi ti processeranno. Mi hai fatto fuggire. Hai disertato. È la fucilazione.

- Meglio dell’impiccagione. Meglio una pallottola della corda, ha detto qualche tempo fa un saggio di mia conoscenza.

- Io non ho speranze. La guerra non è finita, per me.

- Allora non rimane che fuggire anche a te. Siamo nella stessa situazione, no?

- No, se tu mi riporti alla base e dici che mi hai inseguito e catturato.

- Te l’ho già detto una volta: piantala di sparare cazzate. Hai altre soluzioni?

David scosse la testa. Avrebbe voluto forzare Albert. L’idea che Albert rischiasse la fucilazione per colpa sua lo atterriva, ma che cosa poteva fare?

 

Albert guardava l’uomo che amava. Aveva paura a lanciare la sua proposta, anche se era l’unica via d’uscita. Se David si fosse rifiutato, allora la morte era meglio. Si fece forza e disse.

- Vuoi venire con me, David? Insieme ce la possiamo fare. Io e te. Fuggiamo insieme. Verso l’Ovest.

David lo guardò, quasi non capisse.

- Verso l’Ovest, dove costruirci una nuova vita. Due cercatori d’oro o due coltivatori. Senza schiavi, però, sporco sudista. Dovrai imparare a lavorare.

David sorrise.

- E tu, lurido yankee, non potrai sfruttare le nostre ricchezze, dovrai contare solo sulle tue forze.

Albert rispose al sorriso di David. Gli sembrava che il cuore fosse impazzito.

- Dove andiamo?

- Con te, Albert, posso andare anche all’inferno.

Albert rise, un riso di felicità incontenibile. Abbracciò David e lo baciò sulla bocca.

- Ci andremo senz’altro, se continuiamo come questa notte.

- Io non intendo cambiare.

- Ed io neanche.

 

      La scomparsa del sergente McFren e del bandito Holston destò molte perplessità: Holston si era liberato e McFren lo aveva inseguito? Ma perché non aveva avvisato i suoi uomini? Holston aveva costretto McFren a farlo uscire dall’accampamento, minacciandolo? Ma come aveva potuto liberarsi e impadronirsi di un’arma? E che ne era di McFren? Era stato ucciso da Holston?

      Le domande rimasero senza risposta: nonostante le ricerche condotte sistematicamente dal sergente Kelly, nessuno riuscì mai a trovare traccia dei due uomini.

      Solo vent’anni dopo, un ex-soldato del sergente McFren, un certo Bertson, incontrò in Oregon un boscaiolo che conosceva bene, un uomo sui cinquant’anni, molto ben piantato (e molto ben dotato), che viveva con un altro boscaiolo, più magro. Bertson rimase con loro molto a lungo.

 

2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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