Bufera di novembre

 

Bufera4

 

Claudio fermò l’auto nello spiazzo vicino alle case della borgata. Scese e guardò il cielo. Era nuvoloso, ma le nuvole non avevano un aspetto minaccioso. Solo dalla parte della Serra c’erano nuvoloni neri, di tempesta.

Le previsioni del tempo erano chiare: rapido peggioramento delle condizioni atmosferiche, perturbazione in arrivo da ovest e forti nevicate a partire dal tardo pomeriggio. Claudio aveva pensato di non muoversi, ma la giornata precedente era stata così serena.

Claudio sentiva il bisogno di fare una bella camminata. Il colle del Vento era una buona meta. Partendo presto, sarebbe arrivato prima di mezzogiorno. Il tempo di mangiare due biscotti e giù. Per le tre al massimo sarebbe arrivato alla macchina e, prima della nevicata, sarebbe ritornato a casa, soddisfatto.

Forse era un’imprudenza, andare da solo, a novembre, in una giornata di brutto tempo, ma conosceva il sentiero benissimo e sarebbe tornato presto. Non se la sentiva di stare a casa da solo. Aveva bisogno di respirare un po’ di aria fresca, di camminare tra gli alberi, sui pascoli. Prima che la neve invernale rendesse più difficile muoversi.

A casa si sentiva irrequieto, insoddisfatto. La montagna gli restituiva un po’ di serenità.

Mentre si infilava gli scarponi, si disse che non avrebbe dovuto lamentarsi, lo sapeva. Aveva un lavoro, stabile e ben pagato, e la recente promozione gli prospettava la possibilità di una bella carriera in banca: a soli ventisette anni, dopo otto anni di lavoro, aveva superato colleghi con anzianità ben maggiore. Il lavoro d’ufficio non gli dispiaceva. La salute era ottima, c’erano gli amici, molti interessi. Che cosa gli mancava?

Chiuse l’auto, infilò le chiavi nella tasca della giacca a vento, controllando che ci fossero anche quelle di casa, richiuse la cerniera e si avviò.

Sapeva benissimo che cosa gli mancava. Gli mancava l’amore, gli mancava il sesso. Due cose che aveva sempre considerato importanti e legate l’una all’altra. Un’idea romantica, stupida, ma era fatto così.

A ventisette anni non aveva mai avuto un rapporto. Non aveva mai stretto qualcuno che amava tra le sue braccia.

C’era stato qualche bacio, qualche abbraccio, ma le limitate esperienze con le coetanee alle superiori non avevano fatto che confermare ciò che già vagamente intuiva. Non gli importava nulla delle donne.

Il ricordo di Eugenio emerse improvviso, doloroso come sempre. Eugenio era un amico di Antonio, veniva da un paese vicino a Novara. Loro tre avevano affittato un appartamento a Torino quando si erano iscritti all’università. Claudio aveva conosciuto Antonio al mare, l’anno prima, ed aveva accettato volentieri l’offerta di condividere un appartamento in città per il periodo universitario: nessuno dei suoi amici intendeva proseguire gli studi.

Claudio si fermò, guardando fisso davanti a sé. Si disse che neanche lui aveva proseguito gli studi.

Aveva cominciato a seguire i corsi. Tutto regolare. Aveva fatto conoscenza con l’amico di Antonio. Eugenio era un bel ragazzo, che dimostrava forse qualche anno in più dei suoi diciannove. Era già un uomo.

Aveva fatto amicizia con Eugenio: avevano gusti comuni, più che con Antonio. Andavano al cinema, a teatro. Stavano benissimo insieme, scherzavano, certe volte ridevano fin quasi ad avere le lacrime agli occhi, Antonio diceva che erano due scemi. Ma spesso parlavano di argomenti seri, si infervoravano per la pace, si scontravano sulla politica. Anche quando erano su posizioni opposte, ognuno rispettava le scelte dell’altro. Stavano bene insieme. Maledettamente bene.

Claudio si era innamorato.

Aveva diciannove anni e aveva deciso di dire tutto ad Eugenio. Era sicuro di poter contare sull’affetto di Eugenio, sulla sua comprensione, se i suoi sentimenti non fossero stati ricambiati.

Aveva cominciato a parlare. Aveva capito subito che le cose non stavano andando per il verso giusto, che la reazione di Eugenio era negativa, ma aveva deciso di continuare. Non voleva ritrattare, fingere.

Ricordava benissimo quello che era seguito, l’insulto urlato, la rabbia di Eugenio nei suoi confronti, e, quando lui aveva cercato di calmarlo mettendogli una mano sul braccio, un’altra serie di insulti ed il pugno.

Era fuggito, fuggito da quella casa, da Torino, dall’università. Aveva trovato un impiego in banca a Biella e si era gettato nel lavoro. Non aveva più sentito né Eugenio, né Antonio.

La ferita gli faceva ancora male. Non era una sofferenza d’amore: l’amore per Eugenio era svanito da molto tempo, non era stata una passione travolgente o un amore eterno, solo un fuoco di paglia che la burrasca di quel giorno aveva spento. Quello che rimaneva era l’umiliazione, il disprezzo e l’orrore nelle parole di Eugenio. Risentiva ancora nelle orecchie gli insulti.

Poi più nulla. Si era guardato bene dal manifestare il minimo interesse per un uomo e nessuno si era mai dimostrato interessato a lui. Salvo forse quella volta in Grecia, ma quel tedesco di mezza età non lo attraeva. Si vergognava di essere ancora vergine, ma non gli interessava scopare solo per potersi dire che aveva scopato. Se era solo per il bisogno, la mano destra era sufficiente. Il giorno in cui si fosse trovato a fare l’amore, perché era questo che voleva fare, non scopare, avrebbe barato un po’, cercato di non mostrarsi troppo ignorante. La sua teoria la sapeva. La pratica… avrebbe supplito all’inesperienza con la buona volontà e con un po’ di fortuna avrebbe evitato la brutta figura di farsi scoprire vergine a ventisette anni.

Scemenze. La possibilità di incontrare l’uomo giusto era remotissima. E allora? Che cosa contava di fare? Di rimanere per tutta la vita così? Il lavoro gli piaceva, ma non era abbastanza. La carriera non gli interessava più di tanto, anche se il riconoscimento degli altri gli dava soddisfazione.

Ripensò agli ultimi giorni, alla comunicazione della promozione, ai complimenti, più o meno sinceri, dei colleghi. Respirò a pieni polmoni l’aria, molto fredda. Il cielo era velato, ma la montagna, con gli ultimi colori dell’autunno, era sempre splendida. Il grumo oscuro dentro di lui cominciava a sciogliersi.

 

Il cielo si era rannuvolato. Forse avrebbe fatto meglio a tornare indietro.

La perturbazione era arrivata prima del previsto, erano appena le undici e le nuvole stavano avvolgendo le montagne. Sì, sarebbe stato meglio rinunciare a proseguire. Ma mancavano solo duecento metri al colle. Continuava a dirsi avrebbe dovuto tornare indietro, ma andava avanti, mentre le nuvole diventavano sempre più spesse e la visibilità si riduceva ad ogni metro.

Quando arrivò al colle, se ne accorse solo perché si trovò davanti la croce. Ormai non si vedeva a più di un metro di distanza. Si disse che aveva fatto una cazzata. Doveva tornare indietro. Subito. Fortunatamente il sentiero era ben tracciato e non c’era rischio di perdersi. Si infilò il berretto pesante ed i guanti e si avviò per il sentiero.

Aveva fatto pochi passi quando cominciò a vedere il pulviscolo bianco. Non era neanche mezzogiorno e stava iniziando a nevicare. Bah, non doveva preoccuparsi, prima che la neve coprisse il sentiero, sarebbe arrivato all’auto. Accelerò il passo, badando bene a non perdere la traccia. Vedeva appena dove metteva i piedi e cominciava a sentirsi inquieto.

I fiocchi sembravano moltiplicarsi e si era alzato un vento gelido, che gli sbatteva la neve in faccia. Meno male che era ben coperto. Cercava di camminare in fretta, ma i fiocchi che turbinavano sempre più fitti e la nebbia gli impedivano di vedere e doveva badare a non perdere il sentiero. Perdersi a fine novembre in montagna… Preferì non completare il pensiero.

Scese senza fermarsi, solo un momento per bere dal thermos una tazza di tè caldo. La sensazione di calore fu piacevole e disperse la preoccupazione.

Doveva aver fatto un bel pezzo di strada, quando notò che la neve cominciava a fermarsi, a formare uno strato sottile. Distinguere il sentiero diventava più difficile, in quella nebbia. Merda! Ora cominciava ad avere paura. Ma c’era poco da fare. Andare avanti, andare avanti. Non poteva fare altro. Doveva cercare di arrivare all’auto prima che la neve coprisse del tutto il sentiero.

L’auto era a meno di tre chilometri dal paese. Anche se non fosse riuscito a farla partire, se la strada fosse stata bloccata, al paese sarebbe potuto arrivare a piedi. Stava dicendo una cazzata, non sarebbe venuta tanta neve da bloccare la strada. Forti nevicate, avevano detto. Forti nevicate, ma entro due ore sarebbe arrivato all’auto. Non poteva esserci già tanta neve da impedirgli di passare. Guardò l’ora. Mezzogiorno e trenta. Aveva ancora un bel pezzo di strada. Avrebbe fatto meglio a tornare indietro subito, quando aveva visto le nuvole addensarsi.

Pochi minuti dopo si accorse di aver perso il sentiero. Sentì un tuffo al cuore. Si voltò e seguì rapidamente all’indietro le proprie tracce: almeno questo vantaggio la neve l’aveva. Ritrovò facilmente il punto in cui era uscito dal sentiero e riprese a scendere, cercando di fare più attenzione.

Lo strato di neve stava acquistando spessore e solo poche chiazze di terreno rimanevano scoperte. Claudio si fermò un attimo e respirò a fondo l’aria fredda. Doveva calmarsi. Non era pauroso, ma ora sentiva l’angoscia prenderlo. Sapeva che stava rischiando, rischiando grosso. Se avesse perso il sentiero, se non fosse riuscito ad arrivare all’auto, non aveva nessuna possibilità di uscirne vivo. C’erano alcune baite non molto lontano, ma non erano lungo il sentiero e non sarebbe mai riuscito a trovarle in quelle condizioni. C’era una borgata disabitata più in basso, ai margini del bosco, lì sarebbe stato al riparo dalla neve, ma doveva arrivarci. Ci voleva ancora almeno un’ora. Si mise le ghette e bevve un’altra tazza di tè. Era meno calda della precedente, ma gli fece bene.

Riprese a camminare, ma la neve lo accecava ed il terreno era ormai uno strato bianco compatto, da cui spuntavano solo i ciuffi d’erba. Non riusciva più a vedere il sentiero. Non lo vedeva più. Si fermò di nuovo. Cercò di ragionare, di pensare alla conformazione della valle. Doveva scendere. Non c’erano grandi dirupi, se non dal lato destro. Se si fosse tenuto sulla sinistra, sarebbe riuscito a scendere.

Lasciare il sentiero era una cazzata, avrebbe potuto cadere, rompersi una gamba e non se la sarebbe cavata mai più. Che cos’altro poteva fare? Non era più sul sentiero.

Cercò il sentiero, tornò anche indietro, a un certo punto trovò una traccia, ma si accorse che si spostava troppo verso destra, era pericoloso. No, la cosa migliore era scendere, scendere direttamente.

Cercò di scendere lungo la linea di massima pendenza. Per un bel momento tutto filò liscio e Claudio cominciò a sentirsi un po’ meno agitato. Poi la pendenza divenne più forte. Non c’erano arbusti a cui aggrapparsi, niente. Claudio non sapeva che cosa ci fosse oltre la nebbia che aveva davanti agli occhi. Scese con cautela, ma a un certo punto inciampò su un sasso nascosto dalla neve e cadde disteso.

Non si era fatto niente, per fortuna non si era fatto niente. Si rialzò. Si scrollò la neve di dosso, passando la mano inguantata sulla giacca e sui pantaloni. Doveva cercare di mantenersi asciutto.

Riprese a scendere, ma il pendio diventava sempre più ripido. Non poteva continuare così, c’era il rischio di finire in un precipizio. Risalì un po’, poi cominciò a spostarsi verso sinistra, ma la pendenza sembrava aumentare. Allora cambiò direzione. Procedette per un buon momento verso destra. La pendenza diminuiva. Si sentì sollevato. Fece ancora alcuni passi in quota, poi riprese a scendere. Scese un buon momento e nuovamente la coscienza di aver percorso un buon tratto gli restituì un po’ di tranquillità. Stava scendendo bene. La nebbia era sempre fittissima e la neve turbinava, spinta da un vento gelido, ma stava scendendo. Non sarebbe arrivato all’auto, ma prima o poi avrebbe raggiunto la strada e di lì sarebbe arrivato al paese.

Di colpo, il terreno divenne roccioso. Rocce grandi, su cui era difficile muoversi. La neve le aveva ricoperte in buona parte, nascondendo le cavità tra una roccia e l’altra. Claudio si muoveva con grande circospezione: se avesse infilato il piede in un buco nascosto, avrebbe potuto rompersi la gamba. Per due volte poco mancò che cadesse. Era troppo pericoloso. Cercò di tornare indietro, ma perse subito le proprie tracce. Ritornò sui suoi passi, ma non riusciva a trovare le orme lasciate sulla neve. Dopo diversi tentativi, ci rinunciò e riprese a muoversi, con estrema cautela. Cadde due volte, ma riuscì a non farsi male. Una terza volta cadde malamente e prese una storta. Niente di grave, solo un po’ di dolore. E si era bagnato completamente la giacca ed i pantaloni. Zoppicando riprese a scendere. Cercò di spostarsi verso destra, per uscire dalla pietraia. Dopo alcuni minuti ritrovò il terreno sotto i piedi e si sentì meglio. Riprese a scendere.

Scese un quarto d’ora. Cominciava ad avere freddo, ma non doveva mancare ancora molto. Doveva aver percorso parecchia strada. Erano… guardò l’ora: le tre. Accidenti, già le tre! Certo che a scendere in quel modo ci metteva molto più tempo. Avrebbe dovuto già essere arrivato all’auto, ma aveva perso un sacco di tempo. Bah, se erano le tre, doveva essere già piuttosto in basso.

Riprese a camminare, ma dopo pochi passi, di colpo, si trovò sull’orlo del precipizio.

Se ne rese conto vedendo che il terreno scompariva. Sentì una contrazione alle viscere.

Lentamente, cercò di tornare indietro. Ritrovò le proprie tracce, che la neve stava coprendo rapidamente. Quando raggiunse la pietraia, riprese a scendere, cercando di tenersi sul bordo. Sentiva la stanchezza e il freddo invaderlo. Si rese conto che c’era sempre meno luce. No, non era possibile che stesse diventando notte. Guardò l’orologio. Le cinque. Sentì un tuffo al cuore. Tra poco sarebbe diventato buio.

Scese ancora, ma ormai sprofondava nella neve, ogni passo gli costava fatica. Si rendeva conto che non ce l’avrebbe fatta.

Continuò a camminare e di colpo gli apparve davanti un abete. Per un attimo un senso di sollievo lo invase. Era ai margini del bosco. Poi si disse che non cambiava nulla. Avrebbe dovuto attraversare tutto il bosco e non ce l’avrebbe mai fatta. Ormai c’era tanta neve, che non avrebbe riconosciuto nemmeno la strada. Era finita.

Riprese a camminare, ma le gambe non lo reggevano più. Era sempre più buio. Aveva freddo. Non sentiva più le mani e i piedi. Agitò le braccia furiosamente, per fare affluire un po’ di sangue alle dita gelate. Prese ancora una tazza di tè, ma era appena tiepido. Riprese a camminare.

Sprofondava. Ogni passo era un’agonia. Sarebbe morto. Stava morendo.

Non ce la faceva più, non riusciva più a procedere.

Cadde una prima volta in ginocchio. Si rialzò, fece ancora pochi passi, ricadde. Rimase un buon momento in ginocchio nella neve. Era finita.

Un dolore acuto, una disperazione selvaggia lo spinsero ad alzarsi. Gridò:

- No, no, no!

Fece due passi e cadde in ginocchio. Lottò per rialzarsi, ma neppure la volontà lo sorreggeva. Disse ancora, piano:

-No!

Poi cadde in avanti, il viso nella neve.

 

Gli parve che qualcuno lo chiamasse, che lo sollevasse e lo prendesse in braccio, lo trasportasse. Il freddo lasciò lentamente il posto ad una sensazione di calore, le dita delle mani e dei piedi gli facevano male, molto male, poi il dolore arretrò ed un senso di pace infinita lo invase.

 

C’era una luce bianca davanti ai suoi occhi. Una luce accecante. Li richiuse, poi li riaprì, cercando di abituarsi. Man mano che emergeva dal torpore che lo avvolgeva, Claudio riacquistava il ricordo di quanto era successo. Si disse che era vivo. Vivo? Sì, era vivo, disteso in un letto. L’avevano portato in ospedale? L’avevano trovato, prima che morisse congelato!

Ora che gli occhi si erano abituati alla luce, poté guardarsi intorno. Era in una stanza, piuttosto piccola. C’era un uomo grande e grosso, con una spessa barba nera, che si stava avvicinando al letto.

- Ti sei svegliato? Come stai?

Claudio lo guardò. Aveva una faccia larga, in gran parte coperta dal barbone nero, che portava corto, due occhi di un azzurro intensissimo ed un largo sorriso che dava fiducia. Doveva avere più o meno la sua età, forse qualche anno in più, sì, doveva essere sulla trentina. L’uomo gli aveva chiesto come stava. Mosse un po’ le gambe e le braccia. Bene, stava bene.

- Sto bene. Dove sono?

Il sorriso dell’uomo si allargò.

- Nella mia residenza estiva. Una vecchia casa di caccia, ora capanno per i guardaparco, dove passo molto tempo in estate, ma vengo anche in inverno.

- Sei un guardaparco?

L’uomo annuì.

- Sì. E tu, che ci facevi da queste parti?

- Ho fatto un’escursione e quando è cominciato a nevicare ho perso il sentiero.

Il pensiero del giorno prima ritornò, ancora angoscioso.

- Credevo di morire. Sarei morto, se non mi avessi salvato tu. Come hai fatto a trovarmi?

- Ho sentito la tua voce. Hai urlato, allora sono uscito e ti ho chiamato. Non rispondevi, ma non è stato difficile trovarti.

- Ricordo di essere crollato nella neve, poi non so più nulla.

- Deliravi, quando ti ho portato qui. Ti ho messo vicino al fuoco, ti ho tolto gli abiti: erano fradici. Ho cominciato a strofinarti le dita delle mani e dei piedi: temevo potesse esserci un congelamento. Per fortuna non c’era ancora niente di serio, anche se ti sei lamentato parecchio, doveva farti molto male. Poi ti ho fatto bere un tè caldo ed infine, quando mi sembrava che fossi a posto, ti ho messo a letto. Ti sei addormentato subito, sembravi un angioletto, beato e sorridente. Hai dormito circa dodici ore.

- Dodici ore? Stai scherzando!?

L’uomo sorrise di nuovo e scosse il capo.

- No, no. Dodici ore ed anche qualche cosa di più. Si vede che ne avevi bisogno.

Claudio si riscosse.

- Beh, è meglio che mi alzi, adesso.

Aveva bisogno di svuotare la vescica. Fece per alzarsi, ma si rese conto di essere nudo. Cercò nella camera e vide i suoi abiti sul dorso di una sedia. L’uomo aveva seguito il suo sguardo.

- I tuoi abiti sono asciutti e li ho messi lì. La biancheria è ancora bagnata.

Claudio non capì. Come mai proprio la biancheria era ancora bagnata? Non poteva essere entrata la neve fino alle mutande. E poi sarebbero dovute asciugare prima.

L’uomo colse la perplessità di Claudio.

- Ieri sera l’ho lavata.

Claudio si sentì in imbarazzo. Che idea aveva avuto quell’uomo, di lavargli la biancheria?

- Ma non era il caso.

Una breve risata accolse le parole di Claudio.

- Certo che era il caso, l’avevi conciata proprio bene.

Claudio lo guardò, colto da un sospetto, ed il suo imbarazzo aumentò.

L’uomo capì e gli sorrise con dolcezza.

- È normale, in una situazione come quella in cui ti sei trovato. Uno non si rende neanche conto che si sta sporcando. Comunque, se vuoi alzarti, posso darti della vecchia biancheria di un mio collega che non viene più da queste parti. Qui c’è un po’ di tutto, come vestiario: i ricambi possono sempre servire.

L’uomo si alzò e tirò fuori da un baule un paio di mutande ed una canottiera logori, ma puliti, che Claudio si infilò. Poi finì di rivestirsi con i propri abiti.

- C’è un gabinetto?

- Non proprio, ma puoi usare il secchio in quello sgabuzzino. Poi lo svuoto.

Claudio si sentiva in imbarazzo, ma fece quel che gli aveva detto l’uomo.

Ritornò nella stanza, si avvicinò alla finestra e guardò fuori. La neve arrivava al davanzale e stava ancora nevicando, anche se assai di meno, e si vedeva il bosco: la nebbia si era diradata.

- Ma quanto è nevicato?

- Circa un metro.

- Allora non si può scendere?

- No, di certo, fino a che non si rassoda un po’. Adesso sarebbe pericoloso, anche se la strada non è molto lunga. Ho il radiotelefono, se vuoi parlare con qualcuno. Io ho avvisato i tuoi, ieri sera.

- I miei? Ma come…?

Claudio non capiva.

- Dopo averti messo a letto, ho aperto il tuo portafogli ed ho comunicato al mio collega guardaparco che ti avevo trovato qui e che stavi bene. Ha cercato a casa tua, ma non c’era nessuno.

- Vivo da solo.

- Poi ha cercato ancora ed in qualche modo è arrivato ai tuoi. Li ha avvisati che sei qui e che stai bene. Vuoi parlargli?

Claudio pensò un momento. Sua madre era senz’altro preoccupata.

- Se è possibile…

- Certo che lo è. La rete è sempre attiva, anche la domenica.

L’uomo contattò qualcuno a valle e Claudio poté parlare con la madre e dirle che stava benissimo. La pregò di telefonare alla banca l’indomani mattina, lunedì, e di avvisare che era bloccato e che sperava di scendere in giornata. Mentre riattaccava si disse che era un buon modo per festeggiare la promozione.

- Bene, adesso possiamo fare colazione. Caffelatte con due biscotti va bene?

Claudio si rese conto che non aveva mangiato niente dal mattino del giorno prima. D’improvviso ebbe coscienza di una voragine nel suo stomaco.

- Altroché! Ho una fame da lupi.

- Qui c’è da mangiare. Tengo sempre qualche provvista: pasta, miele, biscotti, scatolame vario. E quando vengo su mi porto dietro pane e formaggio. Anche se nevica tre giorni, siamo a posto.

L’uomo cominciò a preparare, poi riprese a parlare.

- Non ti ho neanche detto il mio nome. Mi chiamo Primo. Faccio il guardaparco, come sai.

- Io sono Claudio, lavoro in un banca a Biella.

- Ho lavorato anch’io in banca, ma ho retto tre mesi. Non sono tagliato per quella vita. Ho bisogno di stare all’aria aperta, ho bisogno dei boschi, dell’acqua, della neve.

Sorrise di nuovo.

Claudio si sentì a disagio. Anche lui si chiedeva se la vita che faceva aveva senso e si sentiva pienamente se stesso solo in montagna, tra i boschi e le vette. La vita in città gli pesava. Non solo quello. C’erano anche altre cose che gli pesavano. C’era un vuoto, di cui aveva paura.

Quando Primo gli mise di fronte la tazza di caffelatte fumante, un pacco di biscotti ed un vasetto di miele, Claudio si rese conto di essersi perso nelle sue riflessioni. Primo non aveva detto nulla e Claudio gli fu grato di non aver interrotto le sue fantasticherie.

Claudio si servì abbondantemente di biscotti e miele. Poi si rese conto che stava spazzolando tutto e si fermò. La risata di Primo lo fece sobbalzare.

- Mangia, mangia, ti ho detto che ce n’è in abbondanza. E tu devi recuperare le forze.

Dopo la colazione Claudio gli chiese del suo lavoro e Primo raccontò. Era un uomo sereno, soddisfatto della sua vita.

- Ti va di uscire? Ormai nevica poco.

Claudio annuì.

- Ma ce la facciamo? Si sprofonda.

- Ci mettiamo le racchette. Per muoversi solo qui intorno, sono sufficienti. Domani, se non nevica più, le usiamo per scendere.

Primo scostò la tenda che copriva una scaffalatura e tirò fuori due paia di racchette. Aprì la porta. Davanti alla porta la neve era molto più bassa: Primo doveva aver spalato quella mattina, prima che Claudio si svegliasse. Il casotto era ai margini del bosco. La finestra da cui Claudio aveva guardato fuori dava sul bosco. Un’altra, con le ante chiuse, dava invece su un ampio prato, che scendeva verso una borgata.

Primo fece alcuni passi e svuotò il secchio, poi si diresse verso il bosco. C’era un punto in cui la neve formava un avvallamento.

- Ti ho trovato qui.

Claudio pensò che aveva avuto una fortuna incredibile. Tra tutti i posti in cui avrebbe potuto crollare, gli era successo proprio a due passi dal casotto.

Ora che si vedeva, Claudio cercò di ricostruire il suo itinerario. Con l’aiuto di Primo non fu difficile capire la strada che aveva percorso e la massa di errori di valutazione che aveva commesso. Si disse che aveva davvero avuto una fortuna inverosimile.

Nel corso della giornata uscirono altre due volte. Claudio provava un senso di benessere, di fianco a Primo. Parlavano, ma rimanevano anche a lungo in silenzio, immersi nei propri pensieri. A mezzogiorno non mangiarono molto, ma la sera Primo preparò una vera e propria cena. Si muoveva ai fornelli con la stessa tranquilla sicurezza con cui usava le racchette, spalava la neve o svuotava il secchio. Tutto era semplice e naturale, tutto veniva svolto con attenzione, ma senza tensione.

Stava diventando buio. Primo accese una luce a gas. Non nevicava più, ma la neve arrivava a metà della finestra.

Dopo cena, Primo lavò i piatti. Claudio si offrì di aiutarlo, ma Primo gli disse sorridendo che era suo ospite e che non gli avrebbe permesso di lavorare.

Verso le dieci, Primo uscì di nuovo a spalare la neve, poi rientrò.

- Bene, ora a nanna. Vatti a mettere sotto le coperte, mentre io finisco di sistemare.

Claudio si spogliò, tenendosi però la canottiera e le mutande. Nel letto faceva caldo e la stanza era ben riscaldata, ma la temperatura sarebbe scesa. E poi si vergognava un po’, anche se era ridicolo: Primo l’aveva spogliato, lavato e messo a letto la sera prima.

Stava togliendosi le calze, quando si rese conto che nella stanza c’era un solo letto.

- Ma, tu dove dormi…

- Ti faccio vedere dopo.

Quando Claudio fu steso sotto le coperte, Primo accese una candela e spense la lampada a gas. Poi si avvicinò, stese un’altra coperta sul pavimento, ai piedi del letto, e si coricò.

- Per terra?

- Certo, come ieri sera. Si dorme benissimo.

- Ma neanche per idea. Io dormo nel tuo letto e tu per terra! No. Qui c’è posto per due!

- No, non c’è posto per due. Non per dormire, almeno.

Claudio insistette.

- Ci stiamo, ci stiamo benissimo. Mi sposto. Vieni qui.

- Claudio, in quel letto in due non ci si sta, non per dormire.

- Vieni, facciamo la prova.

- D’accordo, così vedi.

Primo si tolse la camicia, la canottiera ed i pantaloni, rimanendo in mutande. Aveva un ampio torace, con due chiazze di peli neri intorno ai capezzoli ed una striscia scura che scendeva verso il ventre.

Claudio si sentì turbato ed abbassò lo sguardo.

- Adesso vedi.

Primo sollevò le coperte, mentre Claudio si spostava e si stese prono. Era vicino al bordo, ma lo spazio che rimaneva era pochissimo e Claudio riusciva a stare soltanto su un fianco, proprio sull’altro bordo. Primo aveva spalle troppo larghe, un torace troppo possente. Claudio avrebbe dovuto dormire nella direzione opposta, con i piedi vicino alla faccia di Primo, ma non aveva senso.

- Visto?

- No, ci stiamo.

A Claudio l’idea che Primo dormisse per terra per lasciargli il letto non andava.

- Finisci fuori dal letto non appena ti addormenti.

- No, al massimo mi appoggio un po’ su di te.

Primo lo guardò. Claudio non sapeva che cosa c’era in quello sguardo. Cominciava a sentirsi a disagio.

- Proviamo.

Claudio appoggiò la testa sul braccio di Primo.

- No, così non va bene, mi schiacci il braccio, stai scomodo tu e mi vengono le formiche. Poggia la testa qui.

Con un gesto indicò il torace, mentre alzava il braccio.

Claudio appoggiò la testa sul petto di Primo. Una sensazione di calore lo avvolse. Primo gli appoggiò il braccio sulla schiena e lo avvicinò ancora. Ora il corpo di Claudio aderiva a quello di Primo.

Il suo corpo stava reagendo, con una rapidità ed una violenza che rendevano inutile qualunque sotterfugio. Claudio pensò ad Eugenio, ma non aveva paura. C’era in Primo un equilibrio, una pace interiore, che escludevano reazioni violente. Claudio però si sentiva imbarazzato, anche se non avrebbe voluto staccarsi per tutto l’oro del mondo.

- Come va?

La voce di Primo era sempre la stessa, anche se con ogni probabilità avvertiva la pressione contro la sua coscia, non poteva non avvertirla.

Claudio alzò gli occhi su di lui, ma Primo teneva la testa sul cuscino e Claudio non poteva vederlo bene.

- Io bene. E tu?

- Io sto comodissimo. Occupo tutto il letto, io.

Claudio aveva una mano sul torace di Primo. Senza riflettere cominciò ad accarezzargli l’area intorno al capezzolo destro. Poi si rese conto di quanto stava facendo e si bloccò, paralizzato. Si irrigidì, spaventato e confuso.

- Che ti succede?

- Perché?

- Sei diventato un blocco di pietra.

- Scusa… temevo di darti fastidio.

- Non mi davi fastidio, per niente. Era piacevolissimo.

Claudio sentiva il sangue pulsargli alle tempie e la bocca asciutta. Aveva paura.

La mano di Claudio riprese ad accarezzare il capezzolo, poi scese lungo il torace. Anche Primo era eccitato, l’erezione era ben visibile sotto la stoffa.

- Primo…

Primo si sollevò un po’, costringendo anche Claudio ad alzare il capo ed a guardarlo in faccia.

- Se tu lo vuoi, Claudio, io lo voglio.

A Claudio sembrò di svenire. Sussurrò:

- Lo voglio.

Primo gli sorrise, si appoggiò nuovamente sul cuscino, con le braccia potenti spostò il corpo di Claudio sul suo, con la testa a livello con la propria e con una mano sulla nuca di Claudio portò le loro bocche ad unirsi.

Claudio sentì le mani di Primo che lo accarezzavano e prima di abbandonarsi a quell’abbraccio, sentì il bisogno di dirgli:

- È la prima volta, Primo.

Primo lo accarezzò e non disse nulla. Non servivano parole.

 

Scesero con le racchette a Grange, il paese dove viveva Primo, nel pomeriggio del giorno seguente, dopo una notte e una giornata in cui i loro corpi si erano cercati più volte. Mentre guardava la figura massiccia di Primo, Claudio si chiedeva che cosa provava. Essersi innamorato in nemmeno due giorni gli sembrava ridicolo. Eppure non era sicuramente solo interesse a livello fisico. Primo esercitava su di lui un’attrazione fortissima, che andava molto oltre il piacere sconfinato che aveva provato la sera prima e quel mattino.

A Grange la strada era stata sgomberata dallo spartineve, ma la borgata dove Claudio aveva lasciato la sua auto era ancora bloccata. Primo si offrì di riaccompagnarlo a casa.

Quando furono arrivati sotto casa sua, Claudio si sentì perduto. Non sapeva che cosa dire, non voleva imporsi a Primo. Mentre sprofondava nelle sabbie mobili dei dubbi, Primo gli parlò, con la massima tranquillità.

- Claudio, a me farebbe piacere continuare a vederti. Forse è presto per dirlo, ma non parlo di vedersi una volta ogni tanto. Se ti va bene, bene. Se no, ci salutiamo qui e ti dico solo che è stato molto bello.

Claudio tirò il fiato. Com’era facile!

- Anch’io vorrei vederti spesso, molto spesso. Ad esempio nelle prossime due ore, se non devi tornare subito a Grange.

Primo rise, la sua risata vitale.

- Va benissimo.

 

Claudio lasciò a Primo le chiavi dell’auto e Primo si occupò di recuperarla quando sgombrarono la strada, due giorni dopo. Gliela portò la sera stessa e si fermò a dormire da lui. Claudio aveva paura che lo vedessero, ma l’idea di poter passare tutta la notte con Primo era troppo bella. L’indomani entrambi dovevano lavorare e Claudio prestò l’auto a Primo, in modo che potesse tornare a Grange.

Giocarono con l’auto una settimana, prestandosela e riprendendosela, poi la smisero. Non avevano bisogno di pretesti.

 

I pochi giorni di novembre volarono via e dicembre arrivò in fretta alla fine. Si erano visti quasi tutti i giorni e in quelle rare occasioni in cui non avevano potuto incontrarsi, Claudio si era sentito smarrito. Gli amici lo accusavo di essere diventato asociale, di avere qualche amorazzo, ma che l’amorazzo fosse l’uomo barbuto che intravidero in due o tre occasioni, non passò per la mente di nessuno.

Claudio era intenzionato a festeggiare capodanno con Primo, ma Primo non era tagliato per baldorie in piazza o grandi feste a casa di sconosciuti. Suggerì a Claudio di andare a divertirsi, senza preoccuparsi per lui.

- Non mi preoccupo per te, mi preoccupo per me. Vorrei cominciare bene l’anno, perciò vorrei passare capodanno con te.

- Che cosa vuoi fare?

- Io ho esaurito le mie proposte. Tocca a te farne una.

Primo sorrise, o ghignò.

- Andiamo al capanno.

- Al capanno? Ma saranno 20 sotto zero. E poi sarà sepolto dalla neve.

- No, ce n’è di meno di quando ti sei perso. E quanto al freddo, accendiamo la stufa.

Claudio era dubbioso, ma l’idea di ritornare dove aveva incontrato Primo lo allettava. Accettò.

 

Salirono al capanno con le racchette, nel pomeriggio del trentuno. Claudio si stupì vedendo delle orme.

- Qualcuno è salito. Chi può essere?

- Non ne ho idea.

Lo stupore aumentò quando arrivarono in vista del capanno. Le orme si dirigevano esattamente alla porta, dove la neve era stata spalata.

- Ma qualcuno è andato al capanno! Sono tracce fresche! Chi può essere?

- Forse qualche mio collega.

- Ma non mi avevi detto che sei l’unico ad usarlo?

- Vatti a sapere. Magari vogliono festeggiare.

Claudio si sentì smarrito. Al capanno, con altra gente! Stare al capanno aveva senso soltanto se significava stare da soli con Primo.

Il capanno era chiuso e dentro non c’era nessuno. Ma qualcuno era passato: il tavolo aveva una coperta pulita e soprattutto la stanza non era fredda: qualcuno aveva acceso la stufa in giornata ed anche se ora era spenta, la temperatura era gradevole.

- Bene, adesso riaccendo la stufa, così siamo a posto.

- Ma

Claudio intuì.

- Sei venuto su tu!

- Sì, sono salito ieri sera, ho acceso la stufa e l’ho tenuta tutta la notte, in modo che l’ambiente si scaldasse. Questa mattina ho cambiato le lenzuola, ho messo la tovaglia e sono sceso.

- Per questo mi hai detto che ieri sera eri occupato, manigoldo!?

Primo sorrise, senza rispondere.

 

Primo cucinò la cena. Non era un cenone da capodanno, ma Claudio si disse che non era mai stato tanto felice.

La stufa andava a tutto vapore e nella stanza faceva caldo.

- Forse puoi anche ridurre il tiraggio.

Primo scosse la testa.

- No, questa sera facciamo festa, dev’essere caldo.

Lo guardò un attimo e, con un sorriso malizioso, aggiunse:

- Questa sera ti faccio la festa.

Claudio ebbe la sensazione che gli mancasse il fiato. Sapeva a che cosa alludeva Primo. A quello che non avevano fatto nel loro primo incontro, perché Claudio aveva paura. Non era stato necessario dire niente: Primo aveva capito e non aveva domandato o detto nulla, si era offerto, ma non aveva richiesto che Claudio facesse altrettanto. Poi, nel mese che era seguito, Claudio si era reso conto di desiderare, con una forza sempre maggiore, ciò che nello stesso tempo lo spaventava. Voleva che Primo lo possedesse, ma, nonostante la sfacciataggine completa di cui entrambi davano prova nei loro giochi d’amore, si vergognava a chiedere. Primo aveva capito. 

Fu a mezzanotte e Claudio, malgrado il dolore che aveva accompagnato il piacere, fu felice, felice di appartenere a Primo.

 

La primavera e l’estate non modificarono il loro legame. Sciolsero alcune paure residue di Claudio, la sua ansia di non essere all’altezza, la paura che per Primo non fosse un sentimento profondo come quello che provava lui.

Claudio cominciò a informarsi sulle possibilità di avere un trasferimento a Sant’Anna, pochi chilometri sotto Grange, dove c’era anche la sede del parco. Si prese anche il bando di concorso per personale tecnico del parco, appena uscito. Ma prima di agire, doveva parlare con Primo.

Provava una vaga inquietudine. Primo sembrava soddisfatto del loro rapporto così com’era. Non era un rischio?

Forse, ma Claudio voleva correrlo. Glielo disse una sera che mangiava da lui, a metà settembre, due giorni prima che scadessero i termini per il concorso.

- Che cosa ne diresti se mi trasferissi a Grange o a Sant’Anna? Ti andrebbe bene?

Aveva aggiunto Sant’Anna, timoroso di una reazione negativa.

Primo lo fissò, senza rispondere.

Claudio era in imbarazzo. Balbettò:

- Era solo un’idea…

- Claudio, tocca a te scegliere, ma se vuoi sapere se mi piacerebbe, la risposta è no.

Claudio sentì una fitta.

Primo riprese:

- Io vorrei che tu venissi a stare qui, in questa casa. Vorrei dormire accanto a te, poterti stringere la notte, borbottare quando ti sciogli dal mio abbraccio per andare a pisciare, aspettare che tu abbia finito e ritorni a letto, per stringerti di nuovo. Vorrei fare colazione con te tutti i giorni, o magari lasciarti la colazione pronta, se mi devo alzare prima. Vorrei che mi portassi la colazione a letto la domenica. Vorrei vederti leggere su quel divano. Vorrei cucinare per te o rientrare a casa e scoprire che hai preparato per cena un piatto nuovo. Vorrei litigare con te perché hai dimenticato di comprare il sale. Vorrei poterti afferrare quando torni a casa, strapparti un bacio a forza, calarti i pantaloni mentre protesti… il resto puoi immaginarlo. Vorrei vivere con te, non abitare nelle vicinanze.

Claudio non riuscì a rispondere subito. Sentiva che se avesse cercato di parlare, gli sarebbero venute le lacrime agli occhi.

 

2007

 

 

        

                                                                          

 

 

 

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