Postazione indifendibile

 

Postazione3

        

       

A quell'ora Simone doveva essere arrivato all'aeroporto. Tra meno di due ore avrebbe preso l'aereo.

Fabio versò le due boccettine di laudanum nel bicchiere. L'unica paura era quella di vomitare. Se avesse vomitato, non ce l'avrebbe fatta. L'avrebbero trovato ancora vivo. Il pensiero lo atterriva. Doveva farcela.

Avrebbe bevuto un po' per volta, accelerando solo se si fosse accorto di perdere i sensi. Un po' più tardi, però. Era ancora presto. Qualcuno magari sarebbe passato.

Guardò dalla finestra la stradina in salita che arrivava fino alla casa. Quanto tempo era rimasto lì? Quasi dieci anni. Troppi.

Troppi. Clara aveva ragione. Avrebbe dovuto andarsene tre anni prima, almeno. Andarsene, quando ormai si era esaurita la sua motivazione, quando la palude di quella realtà aveva cominciato ad avere il sopravvento.

Clara glielo aveva detto:

- Hai fatto un lavoro eccellente, che ha dell'incredibile, ma questa postazione non è più così importante, ora che la guerra è finita, e non è difendibile. Qui puoi solo accumulare frustrazioni. Saresti più utile in un sacco d'altri posti, dove c’è bisogno di uno come te. E saresti meno frustrato.

Aveva sempre ammirato Clara, il rigore delle sue analisi, l'acutezza delle sue osservazioni, il calore umano che sapeva trasmettere. Di lei gli piacevano perfino i piccoli manierismi, in particolare il linguaggio che gli sembrava un po' militare, come quel chiamare "postazione" ogni punto d'intervento dell'associazione.

Clara aveva ragione. Perché non se n'era andato? Perché non aveva accettato di riconoscere che le circostanze erano state più forti di lui, che ormai in quel posto il suo lavoro era sprecato, che dava cento per raccogliere cinque? Durante la guerra civile, il discorso era stato diverso. Allora, quando ogni giorno rischiava la vita, il suo lavoro era stato essenziale. Ma ora? In quella palude? Che cosa ci stava a fare?

Ricominciare altrove, questo avrebbe dovuto fare. Era stanco e demotivato. Ci aveva pensato, seriamente. Ci stava pensando, poco più di un anno prima.

E poi avevano mandato Simone. Bella idea, mandargli Simone. Un obiettore giovane, allegro, pieno di voglia di fare. Anche lui italiano. Bella idea. I mesi con Simone erano stati splendidi. Fin dall'inizio, fin da quando si era presentato, la prima notte. L'autobus da Cochaze arrivava tardissimo, verso le due di notte. Il ragazzo doveva avere alle spalle qualche cosa come venti ore di viaggio: ce ne volevano dodici per arrivare a Cochaze, da Maputo, ed altre sette, più una d'attesa, per il paese. Per non parlare del volo dall’Italia. Si era presentato stanco, ma sorridente.

Fabio aveva pensato che era bellissimo. Forse non era bellissimo, ma era giovane, solare, allegro, disponibile. Sbagliava, commetteva tutti gli errori tipici dei principianti, ma era attento ai suoi suggerimenti. E imparava in fretta.

Come se qualcuno avesse cambiato la lampadina. Sì, proprio così. Come se al posto di una di quelle lampadine da trenta candele avessero messo di colpo un intero lampadario. Il mondo aveva ripreso colori pieni ed anche la sua attività lì, per quanto spesso frustrante, aveva riacquistato un senso. Fabio si era ritrovato a ridere, a scherzare, a giocare, nell'orbita di Simone.

E poi, una settimana soltanto dopo il suo arrivo, quel dialogo, diretto, mentre erano seduti a tavola e cenavano, dopo una giornata di lavoro in comune.

- Ma a te piacciono le donne o gli uomini?

Fabio si era sentito a disagio, non aveva risposto subito, confuso da dubbi e paure. Perché Simone voleva saperlo? Che cosa avrebbe pensato se gli avesse detto la verità? Di fronte al suo silenzio, Simone aveva rilanciato.

- Sono indiscreto, lo so. Ma è che mi interessa saperlo, per regolarmi.

Fabio lo aveva guardato interrogativamente.

- Per regolarti?

- Sì, perché mi piaci moltissimo e vorrei sapere se ho qualche possibilità.

     

Avevano fatto l'amore quasi ogni notte, per oltre un anno.

Ogni notte. Fino a due notti prima. Simone era partito e Fabio l’aveva accompagnato fino a Cochaze. Assurdo: sette ore di viaggio e quattro di attesa per poi riprendere l’autobus ed altre sette per ritornare al paese. Ma così aveva trascorso con Simone un po’ di tempo in più, aveva ritardato il momento della separazione. Qualche momento in più da vivere.

Non erano state ore piacevoli. Simone era triste, irrequieto. Fabio aveva continuato a parlargli di quando sarebbe arrivato a Genova, di tutte le cose che avrebbe potuto fare, che avrebbe raccontato agli amici. Nei primi tempi dopo il suo arrivo, Simone parlava spesso di quando sarebbe ritornato a casa ed avrebbe narrato ciò che aveva visto, ciò che aveva imparato: - Quando dirò che qui l’unico telefono è quello della base, non ci crederanno… Quando gli racconterò che ho viaggiato sul tetto dell’autobus… Quando sapranno che per bere l’acqua… Quando…

Man mano che il tempo passava, quelle frasi erano divenute meno frequenti e nell’ultimo mese erano scomparse del tutto. Negli ultimi giorni anche il sorriso di Simone era scomparso. O almeno la sua risata. Quella risata fresca, che tingeva d’azzurro persino il cielo grigio. Alla fine era stato il grigio del cielo ad avere la meglio su Simone. Anche il sorriso di Simone aveva perso colore.

Man mano che si avvicinavano a Cochaze, Simone gli era apparso sempre più smarrito, quasi angosciato. Fabio avrebbe voluto consolarlo, per quello gli parlava del suo ritorno in Italia, di tutto ciò a cui Simone aveva rinunciato per un anno. Ma spaghetti al pesto e acqua potabile, focaccia di Recco e cinema, amici e nuoto, nulla sembrava rallegrarlo. Fabio aveva sparato tutte le sue cartucce, senza risultato.

Non doveva essere facile neanche per Simone, quel ritorno. Dopo un anno intero trascorso in Mozambico, a parte la breve interruzione di una licenza in Italia. Dodici mesi prima era stato catapultato in una realtà totalmente diversa da quella in cui era vissuto fino ad allora, lontanissima da tutto quello che poteva aver immaginato. Un’immersione completa per un anno. E poi, di colpo, chiuso, tutto finito.

A Cochaze erano rimasti alla stazione degli autobus, se si poteva definire tale il bugigattolo che serviva da biglietteria e sala d’attesa. E Fabio aveva cercato di lottare contro l’angoscia che gli saliva dentro. Poi l’autobus era arrivato. Ed allora Fabio aveva ceduto. Aveva preso un Simone confuso e privo di volontà, lo aveva spinto in un angolo e lo aveva baciato sulla bocca, fregandosene di tutto e di tutti. Era stato un bacio rubato, imposto, a cui Simone non aveva reagito. Poi Fabio aveva spinto Simone sull’autobus e gli aveva detto: - Addio, amore mio.

Non gli aveva mai detto prima che lo amava. Era sempre stato al gioco: due amici, che si vogliono bene, che si stimano e che stanno bene insieme, anche a letto. A che cosa sarebbe servito gridargli il suo amore? A far soffrire Simone. Soffriva già abbastanza lui, soffriva per tutti e due, per quell’amore che gli bruciava dentro.

C’erano stati i momenti in cui aveva sentito, violento, l’impulso di gridare a Simone di rimanere lì, di fermarsi. Avrebbero cambiato postazione, avrebbero contribuito insieme a costruire un mondo migliore. Una piccola goccia d’acqua su una lastra di ferro rovente, forse, ma insieme a tante altre gocce.

Non poteva farlo. Non poteva imprigionare Simone, lì o da un’altra parte. Simone aveva un’altra vita, in cui non c’era posto né per il Mozambico, né per Fabio. Aveva fatto una bella esperienza, che aveva contribuito ad arricchirlo. Aveva avuto una bella storia, perché la loro era stata una bella storia, per entrambi, su questo non aveva dubbi. Ed ora tornava al mondo a cui apparteneva.

Spinto da Fabio, Simone era salito, frastornato, poi, mentre l’autobus partiva, si era lanciato verso un finestrino e si era sporto, gridando il suo nome. Fabio aveva agitato la mano, cercando di sorridere, fingendo di non vedere l’angoscia di Simone. Quando l’autobus era scomparso dietro la casa, aveva lasciato che il suo sorriso svanisse e si era seduto sul gradino di legno.

Aveva tre ore da aspettare. Tre ore vuote. Tutta una vita vuota.

 

Il ragazzo era arrivato poco dopo. Parlava un portoghese scorrevole.

- Il tuo amico se ne è andato.

Fabio lo aveva guardato. Un mulatto, una delle tante eredità lasciate dai portoghesi. Troppo ben vestito per un posto come quello. Ma Cochaze era un posto di passaggio, aveva persino una stazione degli autobus, su una linea importante, cioè su una delle poche strade del paese. Ed offriva carne per tutti i gusti.

Fabio non aveva risposto. Ma il ragazzo aveva ripreso.

- Vieni con me.

Perché si era alzato? Perché lo aveva seguito? Non avrebbe saputo dirlo. Forse perché in quel vuoto totale quel ragazzo gli era sembrato uno spiraglio.

In breve erano arrivati ad una casetta di legno ed il ragazzo aveva aperto la porta. Fabio era entrato. Aveva guardato la stanzetta spoglia, il letto di legno.

Non poteva farlo. Si era arreso, sì, ma voleva conservare un minimo di dignità, di coerenza.

Aveva tirato fuori una banconota, l’aveva posata sul tavolo ed era uscito. Era ritornato alla stazione ed aveva aspettato.

Nella notte, verso le due, era infine arrivato al paese. Si era steso, ma non aveva dormito. Aveva atteso il mattino, gli occhi aperti nel buio. La certezza che presto avrebbe concluso gli dava forza. Soltanto, voleva essere sicuro che Simone avesse lasciato il Mozambico quando avrebbero scoperto il suo cadavere. Che la notizia non gli arrivasse. O, almeno, che lo venisse a sapere solo molto tempo dopo, quando ormai nella mente del ragazzo la sua immagine sarebbe stata sbiadita.

Aveva ancora ripensato a quell’anno, in cui avevano lavorato moltissimo, concedendosi un'unica vacanza: quando Simone era tornato dalla sua licenza, lui era andato a prenderlo a Cochaze ed avevano trascorso tre giorni a Beira, che non era propriamente una metropoli, ma rispetto al paese era New York. Lì Fabio si era procurato il laudanum. Perché nel periodo in cui Simone era stato in licenza aveva capito, anche se non se l'era ancora detto chiaramente, che con la partenza di Simone, se ne sarebbe andato anche lui. Da quel paese, dal Mozambico, dall'Africa, dalla vita.

Perché senza Simone non sarebbe riuscito a vivere.

Ora il sole era tramontato, no: era andato a scaldare altre regioni della Terra. Ma lui non viveva in quelle regioni.

 

Fabio sentiva freddo. Era tempo di riposare, di dormire, ora.

Prese il bicchiere e fissò il liquido. Riposare, dormire.

In quel momento bussarono alla porta. Era tardi, ma non così tardi che qualcuno non potesse ancora arrivare. Posò il bicchiere, lo coprì con uno straccio.

Era Maria Mabote. In lacrime. Prima ancora che Fabio la facesse entrare, cominciò a raccontare.

Fabio faceva fatica a seguire. Il racconto era confuso e la sua testa era altrove. No, doveva cercare di seguire. Cercò di concentrarsi e, progressivamente, cominciò a capire. Il figlio di Maria era stato arrestato tre ore prima, a Morruanza. La notizia era arrivata in paese solo allora. Arrestato per una rissa, pareva. Aveva opposto resistenza e l’avevano menato e portato in caserma. La donna aveva paura che lo picchiassero ancora, che lo uccidessero. Voleva che lui parlasse al sergente, che intercedesse, che il giorno dopo andasse alla caserma.

Fabio si alzò ed attivò il radiotelefono. Dopo alcuni tentativi riuscì a farsi passare il sergente. Aveva avuto spesso a che fare con lui e sapeva che il sergente lo stimava. Bisognava prenderlo con le molle, essere deferenti, sottomessi: allora il sergente si mostrava tanto generoso da impegnarsi a fare quello che era il suo dovere, per la sua bontà naturale e per il grande affetto che provava per Fabio.

Fabio ottenne notizie del ragazzo e l’assicurazione che il sergente avrebbe vegliato su di lui. Poi disse che sarebbe andato a trovarlo il giorno successivo. Di lì a Morruanza era solo un’ora di battello, o due su strada.

Tranquillizzò Maria, che si inginocchiò e cercò di baciargli le mani. La rialzò e promise che il giorno successivo sarebbe andato a parlare con il sergente per vedere che cosa si poteva fare. Maria era sicura che Fabio sarebbe ritornato al paese con suo figlio e riprese a benedirlo. Finalmente se ne andò, continuando a voltarsi per ringraziarlo.

Fabio pensò che tutta quella faccenda non aveva niente a che vedere con il suo lavoro lì, ma tutti si aspettavano che lui usasse l’influenza che aveva ed in fondo avevano ragione.

Fabio ritornò al tavolo, tolse lo straccio e prese in mano il bicchiere. Ora non poteva farlo. Aveva detto a Maria che l’indomani sarebbe andato a parlare con il  sergente. Coprì il bicchiere e lo mise nell’armadietto. Poteva aspettare. Poche ore non avrebbero cambiato nulla.

Si spogliò ed aprì la zanzariera per entrare nel letto. Si distese. Non dormiva dal mattino del giorno precedente, quando lui e Simone si erano svegliati presto per prendere l’unico autobus che passava per il paese, diretto verso Cochaze.

Per un po’ rimase ad occhi aperti nel buio, ma presto il sonno ebbe il sopravvento.

 

Lo svegliò un rumore di passi. Sussultò. Aveva il sonno molto leggero, anche dormendo il suo udito rimaneva vigile. Un’eredità dei tempi della guerra civile, quando un attimo di disattenzione poteva costare la vita a lui ed a tutti quelli che gli si affidavano. Quando la base era l’ultima casa del paese, cioè la prima, se uno arrivava dalla foresta. E nella foresta c’era la Renano. C’erano gli assassini.

In quegli anni aveva imparato a studiare i rumori, a riconoscere il fruscio dei piedi scalzi sul terreno.

Ora c’era qualcuno, qualcuno che si avvicinava all’ingresso. Qualcuno che veniva dal paese, ma non doveva essere qualcuno del paese: indossava scarpe, vere e proprie scarpe.

Fabio guardò l’orologio: erano le due. L’ora dell’autobus da Cochaze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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