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Giornata
d’autunno

A Monica
Seduto sulla panca davanti alla casa,
Pierre accarezzava la nuca della cagna. Belle era irrequieta, continuava a
cercare di intrufolarsi in casa e ogni volta che lui usciva, gli ronzava attorno,
gli si strusciava addosso.
Pierre non si stupì. I cani sono molto
sensibili e avvertono molto di più di quanto noi pensiamo. Anche Gros, il
maschio, era agitato, ma ora si teneva a distanza. Quel pomeriggio, per ben
due volte, aveva cercato di impedirgli di entrare in casa. Gli
era addirittura saltato addosso, mandandolo a terra.
Pierre soffriva per i cani. Era
affezionato a loro, profondamente, e avrebbe voluto risparmiare loro
qualsiasi dolore.
Guardò il sole che si stava abbassando
all’orizzonte. Tra meno di due ore sarebbe tramontato. Era stata una
bellissima giornata, ancora calda, come a volte sono i giorni dell’estate di
san Martino. Il cielo era limpido, di quell’azzurro abbagliante che la calura
estiva non vela più. E il sole illuminava il tripudio di colori degli alberi,
nella grande festa dell’addio alla vita.
Per lunghi mesi Pierre aveva sofferto di
fronte alla bellezza della natura, al rigoglio della vita che trionfava,
incurante della follia e del dolore degli uomini.
Ora però era sereno. Dentro di sé non
c’erano più la speranza e la disperazione, l’attesa e l’angoscia, il vuoto e
il dolore lancinante. C’era una grande pace.
Solo il pensiero dei cani lo faceva
ancora soffrire. Passò la mano sul muso di Belle, che lo fissava. Gli
sembrava che quegli occhi contenessero un rimprovero.
Voleva bene ai suoi cani. E negli anni
della guerra aveva sempre potuto contare sulla loro vigilanza, che aveva
spesso salvato la sua vita e quella di coloro che gli si affidavano. Non
appena qualcuno si avvicinava alla fattoria di Pierre, piuttosto isolata,
Gros e Belle incominciavano ad abbaiare. Ed ogni
volta Pierre si alzava e richiudeva la botola che dava accesso alla camera
segreta, quella dove nel corso della guerra erano passate centottantadue
persone.
Centottantadue persone! Pierre era molto
preciso, di una precisione maniacale, lo rimproverava Joseph. Aveva tenuto il
conto di chi era passato, in un modo tanto semplice quanto sicuro: chiodi, semplici chiodi che venivano messi in uno scomparto.
Chiodi più lunghi per gli adulti, chiodi più corti per i bambini.
C’erano stati parecchi bambini, quasi
tutti ebrei. Pierre era l’ultimo della sua famiglia, non aveva mai avuto
molte occasioni di stare a contatto con dei bambini.
Ma negli anni della guerra le occasioni non erano mancate e Pierre aveva
rapidamente scoperto che si innamorava di quei bambini smarriti che
arrivavano da lui. E i bambini si innamoravano di Pierre. Come potesse
succedere, Pierre non avrebbe saputo spiegarlo, gli sembrava di essere sempre
così goffo, ma tutti i bambini che erano passati per la sua casa sembravano
avergli voluto bene, per quei pochi giorni o settimane che erano rimasti con lui. Molti avevano pianto quando erano
partiti. I bambini si affezionano facilmente.
Tra gli adulti che erano passati per la
casa di Pierre c’era stato di tutto. Pierre non chiedeva mai chi erano le
persone che gli venivano affidate, per un giorno, per più giorni.
Arrivavano, quasi sempre la notte, e qualche tempo dopo, un giorno, una
settimana, ripartivano. La stanza segreta era ampia
e piuttosto sicura, scoprire la botola impossibile. E infatti, nonostante
quattro perquisizioni accurate ed alcune altre intrusioni notturne, nessuno
c’era mai arrivato.
Di lui avevano sospettato, la casa era
stata perquisita, lo avevano anche interrogato ed
una volta i collaborazionisti lo avevano picchiato a sangue. Ma di quelle
vite che per un breve periodo gli erano state affidate, lui era riuscito ad
avere cura.
Pierre era felice di aver contribuito a
salvare quelle vite. Non sapeva se si erano salvati tutti, ma lo sperava, con
tutto se stesso. Sapeva che per ognuna di quelle vite, lui rischiava la sua,
che se i nazisti avessero scoperto che ospitava nella sua fattoria ebrei in
fuga e persone ricercate dalla polizia, lo avrebbero arrestato o deportato. E
quando ospitava partigiani rischiava di essere fucilato. Ma come sarebbe
potuto rimanere sordo davanti a quelle richieste di aiuto?
Accarezzò il muso della cagna, poi le
passò la mano sul dorso.
- Grazie, Belle, grazie di tutto. Vorrei
poterti spiegare.
La cagna guaì.
Pierre guardò il sole. Ormai non mancava
più molto al tramonto, poco più di un’ora, forse.
Gli sembrava che a ogni momento che passava, il mondo diventasse più bello.
Era davvero una grande festa.
Pierre si alzò e si diresse verso la
porta. In un attimo Gros fu davanti all’ingresso. Digrignava i denti. Pierre
avvertì di nuovo una fitta. Tese la mano per accarezzare il cane, ma questi
scansò la testa.
- Lasciami passare,
Gros.
Gros non si muoveva dalla porta. Pierre
si inginocchiò davanti a lui e cercò di accarezzarlo, ma il cane scostò la
testa e ringhiò. Gli morse persino la mano, un morso per finta, ma non per
gioco.
- Grazie, Gros, grazie di tutto.
Quando qualcuno si avvicinava alla
fattoria, i cani abbaiavano sempre, sempre. Anche quando i tedeschi avevano
mandato Louis Maréchaux, che viveva nella fattoria
vicina, a nemmeno tre chilometri, e conosceva benissimo i cani, anche quella
volta loro avevano abbaiato. Per fortuna, perché
quella volta aveva un’intera famiglia nella stanza segreta.
C’era una sola persona al mondo che
poteva avvicinarsi alla sua casa senza che i cani abbaiassero. C’era stata. I
cani sono davvero intelligenti. Come avessero capito, Pierre non avrebbe
saputo dire, ma così era successo. Quando arrivava Joseph, i cani tacevano. E
Pierre sentiva i colpi all’uscio, senza prima aver
sentito abbaiare. Le prime volte si era spaventato,
poi aveva compreso. I cani avevano dato diritto di cittadinanza a Joseph,
perché sapevano che anche lui faceva parte della famiglia.
Gros non ringhiava più, gli si stava
strusciando contro e Pierre si rese conto di essersi messo a piangere. Non
gli succedeva più da diverso tempo, da quando aveva deciso. Ma il pensiero di
Joseph era emerso all’improvviso.
Abbracciò il cane, poi si alzò di scatto
ed entrò in casa. Chiuse la porta alle sue spalle. Sentì che Gros raspava con
la zampa contro l’uscio. Perché? Perché doveva far soffrire, lui, che avrebbe
voluto poter cancellare tutta la sofferenza del mondo, lui, incapace anche
solo di veder soffrire? Lui, che da bambino aveva sognato di diventare
medico, per guarire tutti i malati del mondo. Medico! Aveva lasciato la
scuola a quattordici anni, per lavorare nella proprietà della famiglia. Non
che i suoi genitori non potessero permettersi di farlo studiare, ma suo
fratello era morto, schiacciato da un trattore, e lui era rimasto l’unico
figlio maschio. I suoi genitori volevano qualcuno che mandasse avanti la
proprietà, non un medico in famiglia. E lui non si era opposto, non aveva
detto niente neanche quando il suo insegnante di francese aveva cercato di
convincere i suoi genitori a farlo studiare.
Neanche se fosse stato medico avrebbe
potuto salvare i suoi genitori, portati via in pochi
giorni dalla difterite, subito prima dello scoppio della guerra. Ma allora
aveva pensato che se almeno fosse stato medico, avrebbe potuto lottare per
salvarli.
Sua sorella era andata a vivere a
Poitiers dopo il matrimonio e lui era rimasto da solo in quella casa.
La casa non era cambiata da quando sua
madre era viva.
Si diresse verso il vano dove teneva gli
strumenti. Tirò la tenda. Guardò il fucile, appoggiato al muro, la sicura
inserita. Lo aveva nascosto, durante la guerra. Non che lui fosse mai andato
a caccia. Gli era bastata quell’unica volta che suo padre l’aveva portato con
sé. Ricordava l’orrore di quell’anatra agonizzante. Gli sembrava di averla
ancora davanti agli occhi. No, il fucile l’aveva tenuto perché non si poteva
mai sapere, in tempo di guerra. Non si poteva mai sapere.
Prese dallo scomparto la scatolina con i
chiodi che corrispondevano alle persone che aveva ospitato in casa. L’aprì e
ne estrasse un chiodo d’ottone, l’unico che c’era. Quando aveva raccontato a
Joseph della scatola, Joseph gli aveva chiesto che chiodo era lui. Ma per
Joseph, Pierre non aveva messo un chiodo: i chiodi li metteva
quando le persone se ne andavano. E Joseph era ancora con lui, quando ne
avevano parlato. Allora avevano scelto insieme, dalla provvista di chiodi di
Pierre, un chiodo di ottone. Ricordava benissimo le
parole di Pierre:
- Così lo distingui dagli altri! Merda,
non voglio mica essere uno come tutti!
Rigirò il chiodo tra i polpastrelli. Non
l’aveva più tirato fuori negli ultimi due mesi, da quando aveva perso ogni
speranza. Gli sarebbe costato troppo. Ma ogni volta che scostava la tenda, lo
sguardo finiva in quella direzione, verso la scatoletta dove aveva racchiuso
centottantadue vite.
Qualcuno di loro gli aveva scritto,
quelli che erano rimasti più tempo ed anche alcuni che erano rimasti poco.
Uomini e donne che in qualche modo erano stati
colpiti da lui. Colpiti dalla sua infinita pazienza, gli aveva detto un uomo
anziano, una volta. Pierre aveva alzato le spalle: era solo la pazienza di
chi fin da bambino lavora la terra ed è abituato a non avere fretta, a
rispettarne i tempi. Gliel’aveva detto, ma il vecchio aveva scosso il capo.
Non sapeva come quelle persone fossero
riuscite a risalire al suo indirizzo. Eppure almeno una dozzina di loro ci erano riusciti. Spesso, nelle lettere che gli erano
arrivate negli ultimi mesi, dopo la fine della guerra, aveva trovato commenti
che lo avevano messo in imbarazzo. Lui non era un santo: aveva fatto quello
che aveva potuto, nulla di più. Non era stato molto, lo sapeva benissimo. Un
rifugio, da mangiare, da bere, un po’ di pazienza per ascoltare chi aveva
bisogno di parlare, un po’ di solidarietà a chi soffriva. Quante volte aveva
avvertito la propria, spaventosa, inadeguatezza, di fronte al dolore altrui!
L’incapacità a trovare le parole giuste. Avrebbe voluto mettere fine a tutte
le sofferenze, ma era un desiderio idiota. Una donna gliel’aveva detto:
- Non può farci nulla, non ha la
bacchetta magica.
Quando se n’era andata, due giorni dopo,
aveva continuato la frase, come se non fossero passate quarantott’ore:
- Ma se ce ne fosse una, di bacchetta
magica, credo che lei sarebbe la persona giusta per averla. Sarebbe in buone
mani.
Pierre si sedette sulla poltrona, la poltrona su cui si sedeva sempre, e lasciò che i ricordi
riemergessero. Aveva combattuto a lungo, contro i ricordi, perché non
riusciva a tollerarli. Li aveva usati quando ancora sperava, per ritrovare un
po’ di calore, come si agitano le braci perché una fiamma riprenda vita. Ma
nulla riprendeva vita.
Cercò di respirare a fondo, per calmare
il dolore che emergeva con i ricordi. Ma il dolore sarebbe passato, presto,
molto presto.
Fuori Belle guaì. Pierre si alzò, si
diresse alla finestra, l’aprì e si affacciò. La cagna si avvicinò
immediatamente. Sporgendosi, Pierre le accarezzò
ancora il muso. Cercò con gli occhi Gros, ma il cane non si vedeva. Dove si
era cacciato? Guardò il sole. Mancava una mezz’ora, forse tre quarti d’ora.
Il tempo non passava mai.
Chiuse la finestra, cercando di ignorare
i guaiti di Belle. Ignorare il dolore degli altri! Eppure, che cosa poteva
fare? Guardò la lettera che aveva messo sul cassettone. L’aveva scritta il
mattino. Aveva fatto ogni cosa a puntino, con la sua pignoleria, per cui
Joseph lo prendeva sempre in giro.
- Merda, Pierre, secondo me tu usi una
forchetta diversa ogni giorno della settimana: la prima della fila il lunedì,
la seconda il martedì e così via!
L’ordine era necessario. Non solo perché
rientrava nella sua natura, ma per sopravvivere. Una perquisizione improvvisa
e i pantaloncini da bambino dimenticati in un angolo potevano significare la
morte: come spiegarlo ad un ufficiale tedesco? E
come impedire che l’ufficiale lo facesse annusare al cane, che avrebbe
seguito la traccia? Lui aveva messo di fronte alla botola alcune provviste,
tra cui i formaggi e l’aglio, e periodicamente spargeva per terra un po’ di
pepe, per ridurre i rischi, ma il fiuto dei cani è incredibile.
Nei mesi che avevano passato insieme,
lui e Joseph avevano sempre mangiato con un unico piatto, un unico bicchiere
e solo un paio di posate. A volte mangiava prima l’uno, poi l’altro; altre
volte si alternavano sullo stesso piatto, ma mai la tavola era apparecchiata
per due. Il latrato dei cani dava a Joseph (ed a
tutti gli altri che erano passati) il tempo di scomparire ed a Pierre quello
di chiudere la botola e mettere a posto. Tanto i cani abbaiavano sempre. Una
volta Joseph si era lamentato, una notte in cui i cani avevano abbaiato
quattro volte:
- Merda, Pierre, io non ne posso più. La
prossima volta non mi alzo. O rimango a dormire sotto.
Joseph non dormiva mai sotto. Dormivano
insieme, avvinghiati l’uno all’altro, quasi ognuno fosse per l’altro un
tronco a cui aggrapparsi per rimanere a galla nel mare in tempesta, quasi
sapessero che i loro giorni erano contati. Ma gli abiti di Joseph erano
sempre nella stanza segreta.
Pierre guardò fuori dalla finestra. Il
sole era molto basso ormai. Venti minuti al tramonto. Lasciò che la mente
andasse a quel giorno d’inverno, inverno 1943, due
anni prima. Da tempo la sua casa era un punto di passaggio per profughi di
ogni tipo: i partigiani della zona si rivolgevano regolarmente a lui. Aveva
buoni rapporti con loro. Erano tutti molto giovani, sette-otto
anni meno di lui, a parte il comandante e un altro. Pierre aveva notato
subito Joseph, quando l’aveva visto. E come non notarlo? Un viso d’angelo e
un linguaggio infarcito di parolacce, con quel ricorrente “Merda!”, quasi a
smentire l’innocenza che il viso rivelava ed il
comportamento confermava.
Ma quel giorno all’inizio di dicembre,
sotto la neve che scendeva fitta, il viso di Joseph rivelava solo il dolore
di un uomo braccato e ferito, che lentamente si abbandona alla morte. I
compagni che lo sorreggevano erano anch’essi stravolti. Il rastrellamento
tedesco li aveva presi di sorpresa, ma erano riusciti a rompere
l’accerchiamento. Ora erano in fuga e dovevano allontanarsi il più in fretta
possibile, ma Joseph era ferito e loro non potevano farsi carico di un
ferito.
Il comandante aveva parlato chiaro,
quasi restio a gravare Pierre di quella responsabilità. Ospitare un ebreo,
era già un bel rischio, ma un partigiano, significava la morte immediata:
- Se non se la sente di prenderlo, me
lo dica pure, non posso darle torto. Se lo trovano qui, la mettono al muro.
- Voi la rischiate tutti i giorni, la
pelle. Datemelo. Cercherò di far venire il dottor Goudrier
senza che nessuno veda.
Ricordava quella notte, Joseph che
delirava, l’abbaiare dei cani, Joseph portato nel nascondiglio. Il cuore che
gli batteva all’impazzata. Se ci fossero state ancora delle tracce? Nevicava fitto fitto, ma forse c’erano
ancora le tracce. Ed anche i tedeschi avevano i cani. La perquisizione, la
casa piena di soldati, le domande, sì, sì, aveva sentito i cani abbaiare,
qualcuno era passato non lontano dalla casa, ma ore
prima, in che direzione, non sapeva, gli pareva che fossero andati verso il
mulino, ma nevicava troppo fitto e poi non era prudente farsi vedere,
inventava, inventava cercando di coprire i partigiani in fuga, inventava
sperando che gli credessero, sperando che non ci fossero tracce a smentirlo.
E poi la rabbia del capitano, che sembrava avercela con il mondo intero, il
ceffone che si era preso per non aver capito subito una domanda e a ogni
istante la paura che Joseph si lamentasse, che fosse rimasta una traccia di
sangue, un’impronta nella neve. E poi, quando se n’erano andati, lasciandogli
la casa a soqquadro e il sangue che gli colava dal naso, correre da Joseph,
temendo di trovarlo ormai morto.
Ma Joseph era ancora vivo, sull’orlo del
baratro, ma ancora vivo.
Si era preso cura di Joseph, come si era
preso cura di altri feriti, con le poche cose che aveva finito per imparare:
forse non così poche, se tra coloro che arrivavano da lui, stremati, malati o
feriti, più d’uno l’aveva creduto infermiere.
La ferita di Joseph non era leggera, ma
il dottor Goudrier se n’era occupato, non senza
dirgli: - Cristo, Pierre, se ti beccano con uno di questi
ferito in casa, ti fucilano senza neanche darti il tempo di dire il Pater
noster!
“Uno di questi”:
il medico aveva paura di dire “un partigiano”, come se qualcuno avesse potuto
sentirlo. Lui aveva risposto solo:
-
Sa, dottore, non è che preghi spesso.
Non pregava più, da tempo. La morte di
suo fratello, poi quella dei suoi genitori avevano
fatto vacillare una fede priva di radici profonde. E ciò che aveva visto in
quella guerra aveva spento quel poco che gli era rimasto. Uomini e donne
impiccati in piazza, come spettacolo e monito per chi non voleva chinare la
testa. Le storie di dolore di tutti coloro che ospitava. E il parroco, che
durante la predica tuonava contro gli ebrei, andava a cena con i nazisti e si
serviva delle confessioni delle donne per fare da informatore. I partigiani
l’avevano messo al muro, alla fine della guerra.
Ma
le violenze che avevano accompagnato la fine della guerra avevano fatto a
Pierre orrore come quelle avvenute negli anni precedenti. Sapeva che non
erano la stessa cosa, che giustizia andava fatta, ma gli sembrava che Dio, se
esisteva, dovesse davvero avere sete di sangue. Ricordava i collaborazionisti
processati, alcuni fucilati dopo un processo sommario.
Ricordava il ragazzo, aveva sedici
anni. Lui si era opposto. Lui, che si era sempre fatto i fatti suoi, quella
volta si era fatto avanti, aveva gridato la sua rabbia. E gli altri che
cercavano di dirgli che ne aveva combinato di tutti
i colori. Sì, Pierre se lo ricordava benissimo, quella sera che i
collaborazionisti lo avevano menato, lui aveva fatto la sua parte, si
ricordava di quel calcio feroce. Il ragazzo si era vantato in paese di
avergli spaccato i coglioni e poco era mancato. Ma aveva sedici anni. Pierre
non poteva accettarlo e, stranamente, per motivi che neppure lui aveva
capito, di fronte al suo no, avevano rinunciato a fucilarlo. La madre era
venuta a ringraziarlo per aver perdonato il figlio. Ma lui non aveva
perdonato nessuno. Pierre non aveva il perdono facile. Non intendeva
perdonare proprio nessuno, gli sembrava che perdonare
fosse accettare quello che era successo. Lui non era disposto ad accettare.
Non voleva fare il carnefice, ma non era un santo, anche se alcuni sembravano
crederlo.
Un santo senza
Dio, comunque, perché Pierre non sapeva se Dio esistesse o no, ma era certo
che se esisteva non gli importava nulla degli uomini. E a lui non importava
nulla d Dio.
Aveva assistito Joseph con tutta
l’ostinazione con cui aveva sempre lottato contro la morte e la sofferenza. E
l’aveva visto, giorno dopo giorno, ritornare alla
vita, uscire dal gorgo. E dopo alcune settimane, si era ritrovato per casa un
giovane vigoroso e attivo, che smaniava per fare qualche cosa, ma che non
poteva fare nulla, né aiutarlo nei lavori agricoli – troppo pericoloso uscire
di casa di giorno, e poi quali lavori? In inverno c’era ben poco da fare – né
raggiungere i suoi compagni, nascosti in luoghi diversi.
Ma l’intimità che le continue cure
avevano stabilito tra di loro, in qualche misura era rimasta, anche perché
Joseph sembrava privo di qualsiasi senso del pudore: né pudore
del corpo, né pudore dell’anima. Gli si apriva senza segreti, gli raccontava
del padre, fascista convinto, che l’aveva sbattuto fuori di casa per le sue
idee, della madre, morta quando era ancora bambino, di vaghi progetti per il
futuro, di ricordi d’infanzia.
Ma quella felice spudoratezza di Joseph
metteva a disagio Pierre, sempre di più, senza che lui riuscisse a dare un nome a quello che stava succedendo dentro di lui.
Fino a che un giorno, vedendo Joseph che si lavava (mai che chiudesse la
porta) aveva capito quanto quel corpo lo turbasse. E da tempo sapeva quanto
lo turbava quell’anima, che Joseph metteva a nudo con la stessa noncuranza.
Non si era stupito: ormai sapeva che le
donne non lo attraevano. Ma si era sentito sporco, si era vergognato di
desiderare un corpo che aveva curato, assistito, quasi ora volesse
rivendicare una ricompensa.
Aveva cercato di tenersi alla larga, ma
come negarsi al bisogno di confidenza di Joseph, come negargli un sorriso?
La tensione dentro di lui saliva, ogni
giorno di più. Spesso usciva di casa trovando il
pretesto di qualche lavoro da eseguire.
Come quella sera in cui era uscito e si
era messo a spaccare legna, continuando per un’ora ad abbassare quell’ascia,
come se avesse voluto spaccare il mondo. Continuando anche se ormai era buio
e si vedeva appena, ma di rientrare e guardare Joseph in faccia, non se la
sentiva.
E quella sera Joseph era uscito dalla casa e si era messo dietro di lui, senza dire
niente. Aveva aspettato che lui abbassasse l’accetta sull’ennesimo pezzo di
legno, poi lo aveva stretto tra le braccia.
Pierre aveva sentito che il suo cuore
smetteva di battere, il gelido vento invernale non soffiava più e la Terra non girava né su se
stessa, né intorno al Sole, immobile come era immobile lui, incapace di fare
un passo, di aprire bocca, di respirare. Sì, fermi così, per sempre, a lui
andava bene, quella gelida sera invernale poteva durare per millenni, perché
lui non sentiva più freddo, ma un calore violento che lo investiva.
- Non mi dire di no, Pierre, non mi dire di no.
C’era un tremito nella voce di Joseph,
che si era perfino dimenticato di dire “Merda!”, il suo intercalare
quotidiano.
Due mesi di felicità. Per la prima
volta, dopo la fine dell’infanzia, Pierre aveva conosciuto la felicità, lo
svegliarsi il mattino con il corpo di Joseph tra le braccia e la gioia di
Joseph nel cuore. Gioia di Joseph, perché la gioia
che invadeva Pierre veniva da Joseph, era la gioia dei vent’anni di Joseph
(così pochi in meno dei suoi, eppure gli sembrava un’altra età), una gioia
che gli si trasmetteva, lo avvolgeva, gli rendeva ogni momento della giornata
un incanto. E poi la festa selvaggia dei sensi, lo scoprire, improvviso,
inatteso, stupefacente, l’animale che in lui si risvegliava, ebbro di vita e
di piacere, pronto a piegarsi docile a ogni fantasia di Joseph ed altrettanto pronto a trasformarsi in un padrone
esigente. Due mesi di una felicità tanto perfetta da tener lontano la guerra,
anche se intorno a loro la guerra infuriava.
E poi la ripresa dei combattimenti, le
visite periodiche di Joseph. Era Joseph ad accompagnare le persone che Pierre
ospitava, quando queste passavano attraverso il gruppo dei partigiani. Le
poche notti che avevano ancora rubato alla guerra, alla morte. E la paura,
una paura folle, cieca, di quanto poteva succedere.
La breve felicità dei momenti in cui poteva nuovamente stringere Joseph.
Poi lo sbarco, i combattimenti, la partenza
di Joseph, il suo “Tornerò, Pierre, questa ormai è casa mia, merda, almeno
finché lo vuoi tu!”, Joseph lontano a combattere, Joseph catturato, il
delirio di angoscia, Joseph deportato, non fucilato, una speranza, la
liberazione del campo in cui era prigioniero Joseph, Joseph vivo e la guerra
alla fine, l’esplosione di una felicità immensa, Joseph che non tornava, i
primi dubbi, Joseph scomparso nel nulla, l’angoscia che cresceva ogni giorno,
i mesi che passavano, nessuna notizia, nulla, quelli che erano vivi erano
tornati, nessuna notizia, nulla, il dolore come un cane rabbioso che lo
azzannava e non lo lasciava un minuto, tanto violento che a tratti doveva
smettere di lavorare e si piegava in due, come se lo avessero colpito allo
stomaco, nessuna notizia, nulla, nessuna notizia,
nulla, ogni giorno una montagna da scalare e le forze che venivano a mancare,
nessuna notizia, nulla, la montagna era sempre più alta e lui sempre meno
forte, nessuna notizia.
Nulla.
Fino a quel mattino, due mesi prima,
quando si era dato un termine. Due mesi esatti, la sera di quel giorno di
novembre che ora stava finendo. La decisione aveva attenuato il dolore, gli
aveva permesso di convivere con se stesso.
Sempre nessuna notizia. Nulla. Ma presto
quel nulla si sarebbe dissolto nel nulla che lo
aspettava.
La luce del sole, entrando dalla
finestra, illuminava in pieno la parete di fronte alla poltrona. Era ora. Tra
due minuti il sole sarebbe scomparso all’orizzonte.
Pierre si alzò e raggiunse l’armadio a
muro. Tirò la tenda. Prese il fucile. Richiuse la
tenda. Sorrise di se stesso. Sì, anche ora, in quel momento, chiudeva la
tenda. Non c’era uno spillo fuori posto, nella casa. Aveva preparato tutto
per il commiato. Solo il fucile, quello non sarebbe più riuscito a metterlo a
posto.
Si sedette sulla poltrona. Il fucile era
già carico. L’aveva controllato alcuni giorni prima, l’aveva lubrificato e
caricato. L’aveva ancora provato il giorno precedente, poi l’aveva caricato
di nuovo.
Si infilò la canna del fucile in bocca.
Sentì il freddo del metallo che premeva contro il palato.
Stava per cancellare tutto, il dolore
infinito che lo avvolgeva, la breve felicità che aveva vissuto, l’angoscia
della vana attesa.
Tolse la sicura. Pensò a Joseph,
all’ultima volta che l’aveva visto. – Tornerò – aveva detto.
Fissò la parete illuminata dal sole. Era
bella la luce, ma faceva male. Ormai aveva bisogno della notte, del sonno.
Dormire, abbandonarsi al sonno.
Chiuse gli occhi, si concentrò sulla
sensazione della canna del fucile che premeva sul suo palato. Era ora.
La mano scese lentamente lungo la canna,
fino a raggiungere il grilletto, si appoggiò con dolcezza, quasi con
gratitudine, a quel ferro che cedeva alla sua pressione. Ora Pierre si
sentiva in pace. Aveva avuto molto dalla vita.
Aprì ancora un
attimo gli occhi, per dare un addio alla luce.
La parete
era illuminata dalla luce calda del tramonto. Da una parte il profilo di un
albero quasi spoglio.
Pierre sorrise. Era ora.
Mentre stava per chiudere nuovamente gli
occhi e la mano accarezzava il grilletto, un’ombra passò sul muro. Qualcuno
era nel cortile, qualcuno che stava dirigendosi verso la porta. Qualcuno era
quasi arrivato alla porta, ma i cani non avevano abbaiato.
I cani non avevano abbaiato.
2007
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