Una richiesta di trasferimento

La baracca era sul fianco della collina. Ci poteva
arrivare dal sentiero, ma era piuttosto rischioso. Quell’uomo era fuori di
testa. Se era nella baracca, si aspettava una visita. E anche se non se
l’aspettava, probabilmente teneva il sentiero sotto controllo. Meglio salire
lungo il pendio: da quella parte la baracca non aveva finestre.
Il pendio era molto ripido, doveva badare a non
scivolare. Comunque, anche se fosse caduto, si sarebbe fermato presto, contro
qualche cespuglio o contro uno dei pini.
Bruno cominciò a salire, lentamente. I cespugli
erano troppo bassi, non offrivano nessuna protezione. E i pini troppo radi.
Era completamente allo scoperto.
Aveva fatto una stronzata a venire da solo, lo
sapeva. Ma non c’era nessuno, a parte Sergio, quando Emilia gli aveva
riferito il messaggio. E a Sergio non aveva voluto dire nulla, Sergio
l’avrebbe accompagnato e non se la sentiva di fare quel viaggio con lui, non
se la sentiva di fare più nulla con Sergio.
Si fermò, irritato con se stesso.
Il pensiero di Sergio gli impediva di concentrarsi
e in quella situazione l’ultima cosa che poteva permettersi era una
distrazione. Cercò di cancellare Sergio dalla mente e riprese ad avanzare, controllando
con cura il pendio sopra di lui.
Ora era più vicino alla baracca, ma non sembrava
esserci segno di vita. Che la telefonata fosse lo scherzo del solito
perditempo? Difficile, Emilia lo escludeva e nell’intuizione di Emilia, Bruno
aveva fiducia piena: su queste cose non si sbagliava mai. Riusciva a cogliere
sempre, nel tono di voce dell’interlocutore, se stava dicendo
la verità o stava mentendo.
Un rumore secco alla sua sinistra, di ramo che si
spezza, lo fece sussultare. Voltandosi verso la direzione da cui proveniva il
rumore, vide l’uomo che sbucava da dietro un albero. Aveva già il braccio
alzato e in mano stringeva la pistola.
Saltò di lato, mentre portava la mano alla
fondina. Non abbastanza in fretta. Il colpo lo prese alla spalla. Cadde al
suolo e istintivamente si afferrò ad un cespuglio
con la sinistra per non rotolare a valle. La destra non era più in grado di
utilizzarla.
Guardò l’uomo. Era a pochi passi.
Era finita, ora quell’uomo lo avrebbe ucciso. Come
aveva ucciso i due gestori. Si tirò su a sedere.
L’uomo si mise di fronte a lui, il volto
impassibile, lo sguardo fisso. Lo sguardo di un folle. Alzò la pistola.
Bene, era giunto il momento di morire. Aveva fatto
la stronzata di venire da solo ed ora pagava. Guardò
la canna della pistola puntata su di lui.
In quel momento risuonò
uno sparo. L’uomo si inarcò, girò su se stesso e stramazzò al suolo. Scivolò
lungo la parete, fino a fermarsi tra i rami di un cespuglio, parecchi metri
più in basso.
Bruno lo guardò,
incredulo.
- Commissario, commissario,
è ferito?
La voce di Sergio. Lo vide
arrivare di corsa, la pistola ancora in mano. Come aveva saputo?
- Niente di grave,
Sergio. Sei arrivato in tempo.
- Avrei
dovuto arrivare prima.
Si chinò su di lui e Bruno
lo vide osservare intento la ferita, ancora ansimante per la corsa.
- Niente di grave, Sergio.
Guarda come sta quello.
A malincuore, Sergio si
raddrizzò e cominciò a scendere con cautela lungo il pendio, fino a
raggiungere l’uomo ferito. Si accovacciò vicino a lui, esaminò la ferita, gli
prese il polso. Rimase un momento fermo, poi risalì.
- Mal messo. Mi spiace. Ma
non potevo rischiare di mancarlo. Chiamo subito l’ambulanza per tutti e due.
Lei cerchi di venire giù con me fino all’auto. Quello lo mandiamo a prendere.
Bruno guardò Sergio.
Appoggiandosi a lui, si alzò. Il dolore esplose e gli chiuse gli occhi, ma le
braccia di Sergio lo sostenevano.
Rientrò in ufficio dopo
quasi un mese di assenza.
Nella tarda mattinata
Emilia gli annunciò una telefonata del questore.
Il questore! Bruno si
stupì.
- Buongiorno, Santoni. Sta
bene? Si è rimesso?
Il questore gli telefonava
per sapere se stava bene? Impossibile.
- Sì, la ringrazio. La
ferita si sta cicatrizzando. Niente di grave.
- Le faccio i miei
complimenti per aver risolto il caso.
- Grazie, molto gentile da
parte sua.
Ci fu un brevissimo
silenzio. Ora il questore avrebbe sputato il rospo.
- Visto che la sento, ne
approfitto per chiederle una cosa.
Eccoci. Quello era il vero
motivo della telefonata. Ma il questore, da buon politico, prima i
complimenti, poi quello che gli serviva.
- Sto esaminando la
richiesta di trasferimento di Maggiora.
Rimase di sasso, incapace
di tirare fuori una sillaba. Sergio aveva chiesto il trasferimento! Senza
dirglielo. Lo prese una rabbia sorda, feroce. Avrebbe voluto averlo davanti,
per colpirlo.
- Santoni, mi sente?
Riuscì a tirare il fiato e
a emettere un quasi inintelligibile:
- Certo, signor questore.
- Non mi dica che non era
informato. La domanda deve essere trasmessa per via gerarchica. Mi è arrivata
una settimana fa…
Ma una settimana prima lui
era in convalescenza. Quel figlio di puttana di Sergio l’aveva sostituito, in
quanto suo vice, e aveva trasmesso la richiesta, senza dirgli niente.
- …non
mi dica che non ne sapeva nulla.
Ritrovò l’aplomb.
- Certo, signor questore, naturalmente ero informato.
Il questore sembrò sollevato.
E arrivò al dunque.
- Mi dice che cosa pensa
di lui, in due parole.
Aveva voglia di piangere,
ora. Che cosa pensava di Sergio, in due parole?
- È un ottimo poliziotto, signor questore. Intelligenza, coraggio, onestà, estrema
serietà nel lavoro. Non credo di aver mai incontrato un poliziotto tanto
capace.
La verità. La pura verità,
senza una parola di troppo. Avrebbe voluto aggiungere altro, ma della
sensibilità umana di Sergio, al questore Dalla Piccola non faceva un baffo.
Eppure era stata proprio quella umanità a colpirlo,
quel giorno in cui lo aveva visto parlare con la donna che voleva buttarsi dal
quarto piano. E poi tante altre volte. Una sensibilità fatta di
partecipazione, di empatia con la sofferenza. Lo aveva visto piangere dopo
aver parlato con la madre della bambina uccisa e quelle lacrime silenziose
gli erano scese dentro.
La voce del questore lo
ricondusse al presente:
- Bene, sono contento di
sentirglielo dire. A Livorno hanno bisogno di un elemento di punta, per
un’inchiesta delicata.
- Maggiora è senz’altro
l’elemento adatto.
Il questore esitò un
attimo. Un po’ sorpreso che lui non si lamentasse della perdita del suo vice,
di un elemento che aveva appena descritto in termini così elogiativi.
- Ma…
lei ha un’idea del perché ha chiesto il trasferimento? Abita a pochi
chilometri da Massa, no? Non ha dei problemi a lavorare in squadra?
Il questore cominciava ad
avere dei dubbi, trovandolo tanto remissivo: temeva che lui non gliela
contasse giusta. Bruno cercò di trovare le parole. Gli venne fuori una voce
fredda, scortese, ma non gliene poteva fregare di meno.
- No, nessuno, signor questore: è benvoluto da tutti e va d’accordo con
tutti. Non mi ha detto il perché. Motivi personali, credo.
Non gli aveva detto il
perché, non gli aveva nemmeno detto che se ne andava. Ma lui lo sapeva
benissimo il perché.
- Va bene, la ringrazio, commissario. Accoglierò la domanda, ma
naturalmente le manderò presto un altro uomo. Arrivederci. E ancora
complimenti.
- Grazie, signor questore.
Riattaccò. Il dolore
saliva, lo sommergeva. Sergio aveva chiesto il trasferimento. Sergio se ne
andava. Non lo avrebbe mai più rivisto.
Sapeva perché se ne
andava. Perché da tre mesi lui lo stava escludendo da tutto. No, non da
tutto, da tutto quello con cui aveva a che fare lui. Gli dava
incarichi anche importanti, tanto Sergio era bravissimo, ma non lo faceva mai
lavorare con lui. Lo aveva tenuto all’oscuro persino della spedizione alla
cava vecchia. Ed alla baracca aveva rischiato di
farsi ammazzare, solo per non andare con Sergio.
Quella volta Sergio era
venuto a saperlo, da Emilia, aveva intuito il pericolo ed era intervenuto,
salvandogli la vita. Sarebbe stato meglio se non l’avesse fatto.
Sapeva benissimo di aver
spinto Sergio a chiedere il trasferimento. Non c’era altra soluzione, ormai.
Non poteva più averlo vicino.
Qualcuno bussò.
- Avanti.
Sergio entrò. Non
sorrideva. Da tempo sorrideva di rado. Una volta il suo sorriso era un sole
che brillava sempre e rischiarava la giornata, anche quando fuori era grigio
e l’umore era tetro.
Bruno lo fissò. E glielo
disse:
- Sei uno stronzo, Sergio.
Sergio lo guardò negli
occhi. Che cosa c’era in quello sguardo? Non avrebbe saputo dirlo. Non era
offeso. Aspettava. Aspettava una spiegazione.
Non aveva nessuna
intenzione di spiegargli. Sergio sapeva benissimo perché era uno stronzo.
Aveva fatto domanda di trasferimento approfittando della sua assenza. Senza
dirgli niente.
Sergio era lì, immobile.
Lo guardava e non diceva nulla, non gli chiedeva la ragione di quell’insulto.
E Bruno non aveva nessuna intenzione di domandargli perché aveva richiesto il
trasferimento. Non voleva sentirsi dire la verità,
perché se Sergio gli avesse detto che si era sentito emarginato,
sistematicamente, lui avrebbe dovuto spiegare. E non era in grado di farlo.
Rimasero a guardarsi un
buon momento.
Fu Bruno a cedere:
- Che cosa vuoi?
- C’è qui l’incartamento
del caso Colosi. Lo vuole vedere?
- Lasciamelo qui.
Sergio posò il fascicolo
sulla scrivania, tenendo gli occhi bassi. Poi si voltò ed
uscì, senza dire una parola.
Sergio fu trasferito la
settimana successiva. Tempi rapidissimi, ma l’inchiesta di Livorno scottava.
I colleghi fecero una festa d’addio. Sergio sembrava un cane bastonato. Evitò
di guardarlo per tutto il tempo. Non avevano mai parlato del trasferimento.
Bruno si disse che almeno
ora era finita. La ferita si sarebbe cicatrizzata, come quella al braccio, e
lentamente avrebbe recuperato la voglia di vivere, il gusto per il suo
lavoro.
Non fu così. Nei sei mesi
seguenti Bruno si rese conto di essere ogni giorno più stanco e depresso, svuotato
di ogni energia, di ogni desiderio. In parecchi gli dicevano che aveva
ripreso a lavorare troppo presto, che avrebbe dovuto
rimanere in convalescenza più a lungo, che aveva un’aria stanca.
Fregnacce. Tutte
fregnacce. Bruno sapeva benissimo che non era la ferita alla spalla quella
che gli faceva male, non era quella l’origine del suo dolore. E il riposo gli
avrebbe fatto sentire ancora più forte la sua sofferenza. Le domeniche erano
un incubo e neppure la montagna riusciva più a restituirgli un po’ di pace.
Ogni giorno, prima di
entrare nel suo ufficio, guardava la scrivania di Sergio, ora vuota. Il
sostituto di Sergio doveva ancora arrivare. Promesse da questore. Ma vedere
quella scrivania occupata da un altro sarebbe stato ancora peggio.
Si era illuso che il tempo
e la lontananza avrebbero spento la sua sofferenza. E il suo amore.
Quell’amore senza speranza, ma bruciante, che lo
aveva spinto a tener lontano Sergio, costringendolo ad andarsene. Perché non
poteva dire a Sergio che l’amava. Non voleva leggere nei suoi occhi il
disgusto. Ma non poteva vederlo ogni giorno davanti a sé.
Era stata un’enorme cazzata.
Ogni giorno stava peggio e alle sue spalle sentiva i borbottii dei suoi
agenti per i suoi scatti d’ira, la sua perenne insoddisfazione. Nulla andava
mai bene, Sergio l’avrebbe fatto in un altro modo. Sergio l’avrebbe fatto
meglio.
Emilia aveva intuito,
perché un giorno gli aveva detto:
- Non sono affari miei,
commissario, ma perché non prova a parlargli? Qualunque cosa sia, lui è in
grado di capire.
Non aveva detto chi
era “lui” e Bruno non aveva finto di non capire. Le
aveva soltanto risposto:
- Lasciami in pace, Emilia.
Quel venerdì mattina passò
come al solito dal giornalaio, prima di andare in ufficio. L’edicolante
parlava con un cliente.
- Ma sì, lavorava qui. Oh,
giusto lei, signor commissario, vero che Maggiora
era il suo vice qui, fino a qualche mese fa?
Gli stava porgendo i
giornali, piegati in due, come al solito. Bruno sentì che le gambe non lo reggevano
più. Provò un desiderio acuto di fuggire via, lontano.
Bofonchiò appena:
- Sì.
Era già fuori dalla porta,
mentre il giornalaio commentava:
- Non so che cosa gli è
successo. Una volta era gentile, simpatico, scherzava. Adesso è diventato un
orso.
Barcollò fino alla
macchina. Mise in moto e uscì dal paese. Arrivato a una strada secondaria,
voltò e si fermò sul bordo.
Rimase lì, fermo, a
guardare davanti a sé, senza vedere nulla. Aveva paura, una paura terribile, come non aveva mai avuto in vita sua,
neppure quando l’assassino dei due gestori gli aveva puntato la pistola
addosso, per finirlo.
Paura di scoprire che cosa
era successo.
Sulla prima pagina della Repubblica
non c’era niente, ma sulla prima pagina del giornale regionale, c’era un titolo:
POLIZIOTTO UCCISO IN UN
AGGUATO
DAI TRAFFICANTI DI EROINA
C’erano due foto. Una era
di Sergio.
Bruno chiuse gli occhi,
cercando di trattenere il dolore che stava salendo.
Non ce la faceva, non ce
la faceva.
Urlò. Urlò. Tre
volte. Un suono inarticolato.
Rimase ancora ad occhi chiusi, stringendo i pugni. Urlò ancora, un no,
ripetuto all’infinito.
Riaprì gli occhi.
Si morse il labbro per non
piangere e prese il giornale. Guardò le due foto. Scorse l’articolo.
Un agguato ad una pattuglia... L’inchiesta sul traffico di eroina… Un
poliziotto ucciso…
Alessio Santelli.
Le mani cominciarono a
tremargli, senza che riuscisse a fermarle. Cercò di bloccare il giornale
appoggiandolo sul volante, ma le mani continuavano a tremare. Alessio
Santelli. E la foto di Sergio. … grazie all’intervento di Sergio Maggiora,
che ha ucciso uno dei due killer e ferito l’altro… Prosegue nelle pagine
interne.
Era vivo, era vivo. Non era uno sbaglio. Era vivo.
Nelle pagine interne
risultava che Sergio era vivo, non aveva ferite,
niente.
Bruno si rese conto di
aver cominciato a piangere.
Arrivò in ufficio con
un’ora buona di ritardo, ma aveva avvisato. O meglio, l’avevano chiamato sul
cellulare ed allora doveva aver inventato una scusa,
su quella piazzola in cui continuava a piangere ed a ridere come uno scemo.
Non si ricordava più la scusa, ma non aveva importanza. Nulla aveva
importanza. Era troppo felice. Felice e determinato. Sapeva che cosa voleva
e, in un modo o nell’altro, l’avrebbe ottenuto.
Comunicò che quel
pomeriggio sarebbe uscito prima.
Telefonò al questore. Menò
il can per l’aia, fino a che il questore gli chiese:
- Che cosa posso fare per
lei?
Allora glielo disse, diretto, diretto:
- Voglio che Maggiora
ritorni qui. Abbiamo bisogno di lui. Sono senza vice, mi aveva promesso un
altro uomo ed adesso mi serve. E mi serve lui, che
conosce il territorio e sa come muoversi. A Livorno l’inchiesta è conclusa,
può tornare qui.
- Santoni, sta scherzando?
Maggiora ha chiesto il trasferimento, lei non ha obiettato, io gliel’ho
concesso. Adesso sta da un’altra parte. E non posso certo trasferirlo di mia
iniziativa, come se dovessi punirlo. Vedrò se posso mandarle qualcuno…
Lo interruppe.
- Mi serve Maggiora. Cosa
devo fare per riaverlo?
Sapeva che il questore
aveva stima di lui e soprattutto che al questore faceva comodo il commissario
Santoni, che gli faceva fare bella figura,
risolvendo alcuni casi difficili. Giocava su quello.
- Santoni, se un altro mi
facesse la sua domanda, lo manderei a stendere. Visto che è lei, la risposta
è: se Maggiora presenta domanda di trasferimento presso il suo ufficio, io
l’accolgo. Ma solo perché devo premiarlo per la brillante azione di ieri.
- Lo farà. Grazie, signor questore.
Il questore grugnì un saluto,
senza sforzarsi di apparire cortese.
Bruno lavorò in un vago
stato di euforia tutto il giorno ed alle quattro
uscì fischiettando. Prese l’auto ed in meno di
un’ora raggiunse Livorno.
Entrò nel commissariato,
accolto dal sorriso di un poliziotto che non conosceva.
- Commissario Santoni, che
piacere vederla di persona e non solo in televisione o sui giornali.
Bruno si stupì
dell’accoglienza. Per sua fortuna in televisione non ci finiva spesso, e
neanche sui giornali, anche se l’arresto del “mostro” di Sarzana l’aveva
sbattuto in prima pagina e sulle reti nazionali ed anche la sua ferita aveva
contribuito a regalargli una fetta di indesiderata notorietà.
Il poliziotto lo
introdusse dal commissario Babbone.
- Illustre collega, che
cosa ti spinge a scendere tra noi mortali? È un onore raro. Problemi di
lavoro? Avrò il privilegio di collaborare con il più celebre commissario
della Toscana? Un po’ della sua notorietà ricadrà anche su di me? Apparirò in
un angolino mentre Telelivorno intervista l’impavido
difensore dell’ordine?
- Non prendermi per il
culo, Babbone, solo perché ho
avuto la sfiga di finire sotto i riflettori qualche volta. È una visita
privata. Volevo salutare il mio ex-vice, Maggiora.
- Ah, il nostro Maggiora.
L’ho inviato a Portoferraio per una faccenda riservata. Arriverà tra un po’. Do ordine che lo facciano passare subito qui, quando
arriva. E intanto avrò il piacere di scambiare due chiacchiere con te.
Bruno sapeva che le due
chiacchiere le avrebbe fatte tutte Babbone, noto per la sua loquacità, ma era troppo di buon
umore per prendersela e poi Babbone era simpatico e
cordiale. Non gli dispiaceva passare una mezz’oretta con lui. Più di mezz’ora
no, i padiglioni auricolari avrebbero cominciato a dolergli.
Babbone
comunicò alla segretaria di far accomodare Maggiora nel suo ufficio non
appena fosse arrivato. Bruno gli chiese di dire che nessuno avvisasse Sergio
del suo arrivo: voleva fargli una sorpresa. In realtà voleva vedere come
avrebbe reagito, preso alla sprovvista.
Dopo aver parlato con la segretaria, Babbone riprese la sua conversazione.
- Maggiora è davvero in
gamba. Per noi è stata una manna dal cielo. Il questore me lo aveva descritto
come un elemento eccezionale, ma sai, parola di questore…
Sono tutti favolosi gli uomini che ti manda, anche
se poi scopri che uno è il fratello deficiente della nuora del sindaco e
l’altro il figlio ritardato di un vecchio compagno di scuola del prefetto. Ma
Maggiora è un’altra cosa. Una capacità di osservazione rara, una grande capacità di lavorare in gruppo, nessun protagonismo,
coraggio. Quello di cui avevamo bisogno per questa inchiesta. Che infatti lui ha contribuito a risolvere.
- Eh sì, sapevo che
avevate bisogno di un elemento di punta e lui aveva bisogno di respirare per
un po’ un’altra aria.
- Mi chiedevo perché aveva
chiesto il trasferimento. Pensavo che magari si
trovasse male con il grande Santoni, che forse si sentiva messo in ombra da
te, ma ho scoperto che Maggiora ha una vera venerazione per te. Pensa che una
volta uno dell’ufficio ha detto qualche cosa di te,
niente di male, del tipo che forse non meritavi tutti gli elogi che ricevevi.
Maggiora quasi se lo mangiava vivo, gli ha detto di non permettersi una
parola di critica su di te in sua presenza. È stata l’unica volta che l’ho
visto incazzato...
Chiacchierarono ancora un
po’. O, piuttosto, chiacchierò Babbone, e Bruno
ascoltò, inserendo poche repliche, più che sufficienti perché Babbone lo intrattenesse per mezz’ora.
Finalmente Sergio arrivò
e, in base alle istruzioni ricevute, fu fatto passare nello studio di Babbone.
Non si aspettava di
vederlo. Bruno studiò la sua espressione con attenzione. Ci fu un lampo di
gioia. Solo un lampo, ma di gioia intensa.
- Caro Sergio, sono venuto
a trovarti e a complimentarmi con te. E quindi, approfittando della cortesia
dell’amico Babbone, ti porto via e andiamo a
prenderci qualche cosa.
Riuscì a liberarsi della
loquacità cortese di Babbone e uscirono.
Quando furono fuori, Bruno
si sentì sommergere dal panico.
Aveva progettato la
telefonata al questore, la visita al commissariato, tutto, fino a quel
momento. Aveva deliberatamente accantonato quello che sarebbe successo dopo,
quando sarebbero stati soli.
Il suo piano d’azione a
quel punto si riduceva a due frasi: avrebbe chiesto a Sergio di tornare a
Massa; Sergio avrebbe acconsentito, perché lui glielo chiedeva.
Fregnacce. Ma davanti a
Sergio era un coniglio e se avesse pensato prima a come affrontare
l’argomento, non avrebbe mai alzato il culo dalla sua poltrona.
Il silenzio che era sceso
gli fece rimpiangere Babbone.
Aveva bisogno di
un’idea brillante. Gli venne in mente che potevano prendere qualche cosa al
bar.
Se avesse affrontato le
indagini con la stessa preparazione e la stessa genialità di cui stava dando prova in quel frangente, a quest’ora, invece di
dirigere un commissariato, il suo compito nella Polizia di Stato sarebbe
stato quello di raccogliere le lamentele delle anziane signore sui vicini
rumorosi.
Al bar, Bruno cominciò a
chiedere a Sergio dell’ambiente di Livorno, delle sue inchieste. Sergio
rispondeva a tono, senza dilungarsi troppo. Era evidente che si chiedeva che
cazzo voleva il commissario, perché era venuto fino lì.
Sergio non faceva molti sforzi
per sostenere la conversazione. Gli chiese della ferita, dei colleghi.
Man mano che il tempo
passava, Bruno si sentiva mancare l’aria. Ma il coraggio di dire a Sergio che
lo voleva di nuovo a Massa, quello non riusciva a trovarlo.
Al terzo momento di
silenzio, in preda alla disperazione, Bruno lanciò un incongruo:
- Perché non mi fai vedere
dove abiti ora?
Sergio lo guardò sorpreso,
ma acconsentì.
- Sono tre chilometri.
Prendiamo la mia auto e poi la riaccompagno o mi segue con la sua?
Bruno scelse ovviamente la
seconda soluzione, che almeno gli dava la possibilità di tirare un attimo il
fiato.
Solo un attimo, perché non
ci misero più di cinque minuti dal commissariato all’abitazione di Sergio, in
una casetta di periferia.
Sergio abitava al secondo
piano, in un appartamento composto di camera, tinello e cucinino. Semplice e
spoglio, ma dalla finestra si vedevano i campi e i monti.
Quattro banalità
sull’appartamento permisero a Bruno di galleggiare per i successivi cinque
minuti, forse dieci. E poi cominciò ad annaspare.
Per darsi un
contegno, prese il libro appoggiato sul tavolo.
Vide Sergio irrigidirsi e
la reazione lo stupì. Il suo cervello si mise a funzionare, finalmente.
Cominciò a porsi domande. Sergio non voleva che lui vedesse che cosa stava
leggendo, ma ormai lui ce l’aveva in mano. Guardò il titolo, Jours
de colère. Merda! Straniero, francese. Fosse stato inglese, avrebbe potuto dare un’occhiata. Non leggere in
inglese, no, quello no. Ma almeno capire di che cosa parlava. Già, Sergio era
istruito. Il nome dell’autore, Sylvie Germain, non
gli diceva niente. La copertina neppure: un quadro, con due case rosse, un
cielo blu, verde e grigio che si rifletteva in un fiume davanti alle case. Un
quadro moderno. Non era in grado di cavarci niente.
- Leggiamo anche in
francese. Siamo istruiti, eh?
Odiava la propria voce,
quel tono strafottente, come se lui non ammirasse l’istruzione di Sergio e
quel suo non ostentarla mai. Come se l’istruzione non valesse una sega.
Sergio non disse
nulla. Bruno continuò:
- Perché non ci
siamo laureati?
Di nuovo, si odiò per il
tono che stava usando. Sergio lo guardò, lo sguardo che aveva nell’ultimo periodo
trascorso a Massa. Uno sguardo tremendamente serio.
- Perché mio padre è
morto e con il lavoro di mia madre in due all’università non ci andavamo. C’è
andata mia sorella.
Bruno abbassò la testa, preso da un senso di
sconforto totale, per la propria stupidità, per la propria vigliaccheria. A
che cosa serviva far ritornare Sergio? Sergio non avrebbe mai potuto amarlo.
E neppure stimarlo.
Sapeva che non era così, le parole di Babbone glielo avevano confermato. E la gioia negli occhi
di Sergio quando lo aveva visto non era stata un’illusione. Ma in quel
momento si sentiva troppo idiota, troppo incapace.
Guardò Sergio.
Era ancora teso, a disagio. Perché? Riabbassò lo
sguardo sul libro.
Fu solo allora che notò la busta che faceva da
segnalibro.
Aprì alla pagina in cui si trovava e la prese in
mano.
- Lascia quella busta.
Sergio aveva fatto un passo avanti, il viso
contratto in una tensione che lo spiazzò, come quell’improvviso passaggio al tu. Quella busta era il motivo per cui Sergio era così
teso, quello che lui non doveva vedere.
Bruno non mollò la presa. Sergio gli afferrò il
polso, con rabbia. Bruno cercò di liberare la mano. Il contenuto della busta
scivolò. Fotografie. Cinque o sei fotografie, che caddero sul pavimento.
Bruno le guardò e rimase di sale.
Sergio gli lasciò il polso. Si voltò. Si diresse
alla finestra e si mise a guardare fuori, dandogli le spalle.
Non aveva detto una parola.
Lentamente Bruno si chinò e raccolse le
fotografie. Sette fotografie. In una, lui e Sergio,
il braccio l’uno sulla spalla dell’altro, quel giorno che erano andati alle Cinqueterre, a Vernazza. Nelle
altre sei, lui. Bruno guardò la propria faccia, che gli sorrideva da tre
fotografie. In un’altra, scattata sempre a Vernazza,
lo si vedeva a torso nudo, quando si erano stesi sui massi, al porto.
Un’altra, bellissima, era stata presa mentre lui non guardava l’obiettivo.
Aveva un viso rilassato, ma assorto. Nell’ultima lo
si vedeva tutto, sullo sfondo di Vernazza.
Si ricordava quella gita. La macchina fotografica
era di Sergio, che aveva fatto foto a tutti e si era
fatto fotografare con lui da Gianni. Aveva portato le foto, una volta, in
ufficio. Le aveva date a tutti. Bruno aveva le sue; quella in cui era insieme
a Sergio l’aveva guardata molte volte, durante la sua convalescenza, prima di
strapparla quando aveva saputo che Sergio aveva chiesto il trasferimento.
Queste erano altre copie, tranne la foto presa di sorpresa, che Sergio non
gli aveva mai dato.
Quello che pensava era
vero?
Sergio gli dava la
schiena.
Bruno gli si avvicinò. Lo
cinse con le braccia, stringendo.
Lo sentì rigido, un
pilastro di cemento.
Appoggiò la testa
sull’incavo della spalla di Sergio. E sentì il dolore di quei mesi
sommergerlo. Avrebbe voluto piangere.
Strinse ancora di più le
braccia attorno a Sergio.
Rimasero così a lungo.
Avrebbe voluto parlare, ma aveva paura delle parole, paura
di non trovare quelle giuste.
Lentamente ritrovò la
calma.
Sentì che Sergio si stava
rilassando. E che il suo desiderio stava irrigidendosi.
Cominciò ad accarezzarlo.
Gli passò con delicatezza una mano sulla guancia. La mano gli tremava, ma
sentì che a quella carezza, qualche cosa vibrava in Sergio. Allora scese sul
torace, prima sul capezzolo sinistro, poi sul destro. Ed
in Sergio saliva una tensione nuova, che nulla aveva a che fare con la
rigidità di prima.
La voce di Sergio gli
impedì di abbandonarsi alla gioia che lo stava invadendo:
- Perché?
Bruno esitò un attimo
prima di rispondere: sapeva qual era il perché di Sergio, ma avrebbe preferito
non parlare ora, rimandare a dopo le parole, a quando i loro corpi avessero
ormai parlato abbastanza da dirsi tutto quello che era necessario.
Ma Sergio aveva bisogno di
sapere.
- Perché mi hai trattato così… Mi hai escluso…
Sergio si interruppe. Non
occorreva che dicesse altro.
Deliberatamente Bruno
lasciò che la sua destra scivolasse in basso e le dita stringessero
delicatamente i testicoli, attraverso la stoffa dei pantaloni, mentre il
palmo premeva sul sesso. Tranquillizzato dall’abbandonarsi di Sergio a quel
contatto, dal pulsare del desiderio che si ergeva impetuoso, trovò le parole.
- Perché volevo mandarti
via. Non pensavo che tu potessi desiderarmi. Ed io ti desideravo. Ti desidero, Sergio.
Fece uno sforzo, per
continuare, ma era solo più un piccolo sforzo:
- Ti amo,
Sergio.
E d’improvviso si sentì un
leone e morse la spalla di Sergio, strappandogli un gemito. Ce l’aveva fatta ed il corpo che stringeva tra le braccia
non era più il pezzo di legno di quando l’aveva abbracciato, ma un animale
caldo ed impaziente.
Passarono la sera e la
notte a prendersi e a darsi, a chiedere ed a
spiegare, a costruire l’intesa dei loro corpi ed a ricostruire ciò che era
avvenuto.
- E se non avessi
accettato di richiedere il trasferimento?
Bruno rise. Aveva
recuperato la sua baldanza, ora.
- Ti avrei spaccato la
faccia.
Anche Sergio rise.
- Non avresti ottenuto
niente. L’unico modo era spaccarmi il culo, non la faccia. Hai scelto la
tattica giusta, come sempre, commissario. Lasciandomi dolorante e sottomesso.
Sottomesso era una
frottola, perché a letto Sergio aveva accettato ogni iniziativa di Bruno, ma
aveva ogni volta rilanciato e sarebbe stato difficile dire chi aveva diretto
il gioco. Difficile e inutile. Dolorante, era un’esagerazione, con ogni
probabilità. Semmai, indolenzito, ma quello lo era anche Bruno.
Bruno rise e rimandò:
- Ti ci dovrai abituare.
In ufficio sei il mio vice. Ma a letto sei il mio schiavo.
Guardò ghignando Sergio
che chinava la testa in segno di sottomissione e aggiunse:
- Ed io il tuo.
2007
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