Partita a quattro

 

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Mi siedo sulla panca, senza fiato.

- Ehi, ehi! Sarai mica stanco?

- Sta’ zitto, disgraziato. Oggi mi avete ammazzato.

- E che sarà mai, due orette di allenamento…

- Più una giornata in ufficio.

Il problema è quello: arrivo agli allenamenti già piuttosto stanco, perché le mie giornate sul lavoro sono molto faticose. Devo sempre affrontare un mare di problemi e spesso non ho neanche tutti gli elementi che mi servono per prendere una decisione. A volte mi dico che se avessi saputo quello che mi aspettava, non avrei accettato l’offerta della Brandstone, per quanto molto allettante: duemilacinquecento euro al mese sono una gran bella cifra, ma se proseguo così, mi serviranno per il monumento funebre. Un angelo di marmo? Preferirei un bell’orso in calore (di quelli a due zampe, non a quattro). Però non ho fretta di avere la statua sulla tomba. Neanche di avere la tomba…

Comunque so benissimo che avrei accettato in ogni caso: la ditta per cui lavoravo stava per chiudere e comunque io avevo bisogno di cambiare aria. Dopo la fine della storia con Marcello, Roma era diventata invivibile. È brutto camminare per una città che hai scoperto con un uomo che amavi. Dopo che l’amore è finito, ogni via, ogni piazza, ogni negozio, ogni locale ti ricorda uno dei mille piccoli episodi che costituiscono la trama di una storia d’amore. Ho amato Marcello sei anni e davvero pensavo che sarebbe stato l’uomo della mia vita. Peccato che lui non pensasse allo stesso modo.

E allora perché non trasferirmi, sfruttare la mia esperienza per ottenere un lavoro pagato molto bene e ricominciare da capo, oltretutto in una città più vicina ai miei fratelli? Sì, è stata la scelta giusta, lo so.

Ma non sapevo che quel coglione che lavorava alla Brandstone prima di me avesse combinato tanti di quei casini da essere cacciato a pedate. Meritatamente: se lo avessi davanti, lo prenderei a pedate anch’io, ogni giorno, tutte le volte che scopro un nuovo pasticcio e devo sbrogliare la matassa. In pratica lui passerebbe la vita a prendere calci in culo ed io mi allenerei per il calcio, invece del rugby. È dura rimediare a tutti i guai che quello stronzo ha combinato.

Il risultato è che lavoro come una bestia: un po’ perché i casini da sistemare sono tanti, un po’ perché l’ambiente è nuovo e quindi sto imparando solo ora a muovermi, un po’ perché ci tengo a fare buona impressione. Ma il motivo vero è un altro, lo so: sono fatto così, cerco sempre di dare il meglio; se c’è un problema da risolvere, invece di accantonarlo, cerco a tutti i costi di trovare una soluzione. Marcello mi diceva che sono bacato nella testa. Credo che avesse ragione.

Ecco perché esco dal lavoro sempre stanco. Il rugby è un buon modo per rilassarmi e risponde al bisogno di movimento che ho sempre avuto. Ma dopo una giornata in ufficio, anche l’allenamento… Forse, se avessi previsto tutto quanto, non sarei corso a iscrivermi al club di rugby. Però è un buon modo per farmi degli amici in un ambiente nuovo.

- Allora, non ti muovi? Non vuoi vederci tutti belli nudi?

- Capirai lo spettacolo!

- Di’ la verità. È che ormai non ti tira più.

- A vedere te mi si ammoscerebbe completamente anche se non scopassi da tre mesi.

Ogni tanto Vins mi prende in giro, da quando ho detto di essere gay. Non lo fa in modo pesante, perché gli altri non lo accetterebbero, ma mi chiedo se in un ambiente diverso si porrebbe tanti limiti.

Io l’ho detto subito, appena si è presentata l’occasione. Anche a Roma lo sapevano tutti, pure sulla pagina di Facebook l’ho scritto. Preferisco mettere le cose in chiaro e se a qualcuno non va bene, cazzi suoi. I miei compagni di squadra non hanno detto nulla, anche se qualcuno è rimasto spiazzato.

Il cazzeggio con Vins prosegue:

- Ma come, non sono attraente?

- Forse per le mosche.

Scoppiano tutti a ridere. Vins non sa come replicare e se ne va.

Io respiro a fondo, mi faccio coraggio e mi decido a spogliarmi. Questa sera me ne starò a casa a leggere tranquillo: cazzo, che bello! Non avrei mai creduto di apprezzare tanto la mia casetta e una serata sul divano.

Ci facciamo tutti la doccia. Vins mi passa davanti due o tre volte, mettendo bene in mostra il culo (niente di speciale) e il cazzo (idem come sopra).

- Senti, Vins, vuoi proprio togliermi l’appetito?

- Ma come, non ti fa venire fame?

- Guarda che l’unico modo per renderti desiderabile sarebbe cuocerti al forno con una buona salsa e un contorno di patate arrosto.

Scoppiano tutti a ridere.

- Questa te la sei proprio voluta, Vins.

- È inutile che tu ci provi, con Nico non la spunti.

È una bella squadra, anche se certo non scalerà i vertici della classifica. Guardandoli da un punto di vista estetico, gli uomini interessanti sono pochi. Uno mi piace davvero, Matteo, che è nato e vissuto a lungo a Londra. Ha due anni in più di me ed è un bell’orso, con quel giusto sovrappiù di chili, la quantità ideale di pelo, una buona dotazione e un difetto di base: quello di essere un etero impenitente. Non si vanta delle sue conquiste (e questa è una cosa che apprezzo di lui), ma fa strage di cuori e so per certo che colpisce anche più in basso.

Un altro bell’uomo è Carlo, che ha un gran bel fisico, ma, oltre ad essere etero (una perversione purtroppo molto diffusa) è troppo giovane per me: ha appena ventidue anni, dieci in meno di me.

In ogni caso evito di pensare a loro come possibili prede: sono mesi che non scopo, dalla fine della storia con Marcello, e l’astinenza potrebbe mettermi in situazioni alquanto imbarazzanti. Vero è che ogni tanto faccio da me, ma piuttosto di rado: non sono un segaiolo. 

Conclusa la doccia, ci rivestiamo, parlando della partita di domenica, e torniamo a casa.

Mangio, poi leggo qualche pagina sul divano e crollo stravolto. Mi risveglio a un’ora indefinita della notte e raggiungo il letto. Mi riaddormento in qualche nanosecondo.

 

Abbiamo giocato a una cinquantina di chilometri da casa. Durante il viaggio di ritorno, mi trovo di fianco a Carlo. È stato lui a sedersi vicino a me.

Parliamo un momento della partita, persa, tanto per cambiare, poi Carlo mi dice che forse l’anno prossimo smetterà di giocare.

- Come mai?

- Perché in autunno mi sposo.

Sono un po’ stupito.

- Congratulazioni. Ma sei giovanissimo per sposarti.

Detesto farmi i cazzi altrui, ma mi è scappato. Ventidue anni mi sembrano proprio pochi.

- Anche i miei si sono sposati giovanissimi. Ma ero in arrivo io.

- Guastafeste ancora prima di nascere, eh?

Carlo ride.

- Certo che hai sempre la battuta pronta, tu!

Torno al rugby:

- Non ti spiace lasciare il rugby?

Carlo alza le spalle.

- No, non più di tanto. Ho iniziato a giocare più che altro per far contento mio padre.

Il padre di Carlo, che in effetti è molto giovane, era un bravo giocatore e ha lasciato la squadra solo l’anno scorso, per raggiunti limiti d’età. Viene spesso a vederci e passa regolarmente negli spogliatoi. Devo dire che è il mio maschio ideale: un fisico possente, un bel viso, incorniciato da una bella barba corta, occhi chiari, grandi mani. Altro non ho visto: Romano purtroppo non fa la doccia con noi.

Carlo continua:

- Ho provato volentieri, ma non è che ci tenga a continuare. Mi piace cambiare spesso.

- Intendi cambiare spesso anche per quanto riguarda la moglie?

A volte penso che la mia lingua parli per conto suo. Non è che mi succeda sempre, ma ci sono occasioni in cui mi sembra di non riuscire a controllarla. Carlo ride di nuovo.

- Vatti a sapere…

Poi aggiunge:

- Mi piace provare cose nuove. Secondo me un uomo dovrebbe provare un po’ di tutto.

C’è qualche cosa nel tono che non mi convince. Vorrebbe essere molto casuale, ma non lo è. “Un po’ di tutto” è una di quelle frasi che possono non voler dire niente o avere un significato molto preciso. E ho l’impressione che in questo caso valga la seconda ipotesi. Faccio finta di non aver colto e rimango sul vago.

- Proprio di tutto, non direi. Solo le cose che a uno piacerebbe fare.

- Come fai a sapere che una cosa ti piacerebbe, se non hai mai provato?

- Essere bastonato non mi piacerebbe, ne sono sicuro anche se non ho mai provato.

Carlo ridacchia. Ma sta andando in una direzione precisa e ormai so benissimo quale:

- D’accordo, ma altre… non puoi sapere finché non provi.

- Va bene, su questo sono d’accordo. Bisogna vedere se ti interessano. Per dire, a me dell’ecstasy non potrebbe fregarmene di meno. Non intendo provarla.

Marcello qualche volta prendeva pasticche. Molto di rado, devo dire. A me la faccenda non piaceva, per nulla, ma non potevo decidere per lui.

- Io l’ho provata. Non è male. Ti dà una bella sensazione. Anche la cocaina.

A ventidue anni ha già provato ecstasy e cocaina. Mi sembra che sia su una buona strada. Ma forse io sono solo vecchio e moralista. Tra un po’ proverà anche una moglie. Poi proverà dei figli, ma si stuferà e lascerà perdere il tutto, per provare qualche cosa di nuovo. E quando non ci sarà più nulla da provare?

Sì, devo riconoscerlo: sono vecchio. A trentadue anni sono vecchio. Anche Marcello me lo diceva. Credo che dipenda dall’educazione che ho ricevuto (anche i miei fratelli sono così) e dalle mie esperienze: la morte di mia madre, quando avevo appena nove anni; il lavoro a diciannove anni, per pagarmi l’università e non pesare su mio padre; il contratto all’estero per due anni dopo la laurea e l’adattamento a una realtà del tutto nuova (e devo dire che tra un paese del Vercellese e Londra c’è davvero un abisso); poi il calvario di mio padre. Non riesco a vedere la vita con la leggerezza di Carlo.

È Carlo a riprendere:

- Ti scandalizza?

- Non credo che tu abbia bisogno della mia approvazione.

- Che comunque non ho, ho capito. Uno come te dovrebbe essere più aperto di idee.

Anche l’espressione “Uno come te” ha un senso preciso e mi fa girare i coglioni.

Chiedo:

- Uno come me?

- Ma sì, dai! Per te dovrebbe essere più facile vedere le cose da un punto di vista diverso.

Certo, se uno è gay allora è normale che sia trasgressivo in tutto. Ne ho conosciuti diversi che la pensano così. Io sono fatto in altro modo, giusto o sbagliato, non lo so. E detesto quelli che generalizzano: ci sono gay di tutti i tipi . E lo stesso posso dire per gli etero.

Non ci tengo molto a spiegare il mio punto di vista a Carlo, mi sembra che siamo troppo distanti. E non è che lui mi interessi molto. È un gran bel ragazzo, ma non è un motivo sufficiente per legarmi a lui.

Scrollo le spalle.

Per fortuna Vins si alza dal suo posto e si avvicina a noi:

- Nico, stai mica cercando di traviare questo povero ragazzo?

Vorrei dirgli che al massimo potrebbe essere il “povero ragazzo” a traviare me, ma gli risponde Carlo:

- Vins, perché non parli solo quando hai qualche cosa d’intelligente da dire?

Questa volta sono io a replicare:

- Perché starebbe sempre zitto.

La battuta mi è scappata. Ormai ho capito che dovrei fare più attenzione a quello che dico con Vins. Mi punzecchia sempre, ma quando replico a tono la faccenda lo irrita. Pensa che dovrei stare zitto: un frocio non ha diritto di parola, deve essere ben contento se viene tollerato. Non esterna i suoi pensieri, perché sa benissimo che sarebbe lui a trovarsi isolato. Però le mie battute gli fanno girare i coglioni.

La risata fragorosa di Andrea riecheggia per tutto il pulmino. Si alza e ad alta voce ripete agli altri il nostro scambio di battute. C’è un applauso tonante, con urla di incoraggiamento per me. Vins non sembra troppo contento, Carlo neanche, ma a me va bene: la conversazione non mi piaceva per niente.

Matteo si avvicina e inevitabilmente ci mettiamo a parlare d’altro. Adesso che siamo vestiti e non corro rischi (eventuali gonfiori saranno nascosti dagli abiti), me lo guardo per bene. È proprio un magnifico maschio, uno di quelli accanto a cui fa piacere svegliarsi il mattino.

Era bello svegliarsi la domenica e vedere Marcello che dormiva accanto a me. Era bello alzarsi in punta di piedi per non svegliarlo nei giorni lavorativi, quando io uscivo di casa molto prima di lui. Era bello preparare una cenetta per due. Era bello condividere una quotidianità.

L’amore per Marcello è finito, lo so. Non ne è rimasto nulla, se non il rimpianto per quell’intimità.

 

Sono passate due settimane, ma non ho più avuto occasione di parlare a tu per tu con Carlo. Oggi nuova trasferta, ma Carlo non si siede vicino a me.

Scesi dall’autobus, prendiamo le nostre auto. Matteo è venuto con Lucio, ma Lucio vuole passare dalla sua ragazza, per cui Matteo mi chiede un passaggio. Glielo do ben volentieri.

Quando siamo sotto casa sua, mi dice:

- Non ho voglia di mangiare da solo, questa sera. Vuoi salire da me? Due spaghetti aglio e olio e una bella bistecca con insalata, non offro di più.

- Neanche il dolce?

- Va bene, devo avere una cassata siciliana della Eismann in freezer.

- Una cassata siciliana? Vengo tutte le sere della settimana!

Matteo ride. Scendiamo, chiudo l’auto ed entriamo. In altre circostanze penserei a un dopo cena (o a un aperitivo), che sarebbe molto gradito, ma so benissimo che Matteo ha gusti diversi (che spreco di risorse, però!), perciò non ho aspettative.

Mentre Matteo prepara da mangiare, parliamo della partita di oggi, dei prossimi incontri, dell’allenatore. Poi, quando abbiamo finito, Matteo mi dice:

- Ci accomodiamo un momento in salotto? Così chiacchieriamo con calma.

Al mio cenno di assenso, prende due birre e ci sediamo.

Matteo ha qualche cosa da dire o da chiedere. Non riesco a capire di che cosa si tratti. So che, purtroppo, non intende farmi avances. Peccato, lo lascerei avancer fino in fondo, ma proprio in fondo.

- Tu vivi da solo, no? Non ti pesa la solitudine?

Anche lui vive da solo, perché me lo chiede? Non lo so, ma ho la sensazione che lo scoprirò presto. Oltre a essere un gran (in tutti i sensi) bel maschio, Matteo mi sta pure simpatico, sul piano umano (il suo unico difetto è quella brutta faccenda di essere etero, ma io sono tollerante, non ho pregiudizi, accetto i diversi). Perciò gli rispondo sinceramente.

- La solitudine in sé no, non mi pesa, da solo sto bene, come saprai benissimo è comodo non dover condividere la casa con nessuno. Però è bello stare con qualcuno che ami. Devo dire che rimpiango gli anni in cui vivevo in coppia.

- A Roma?

- Sì, cercai lavoro a Roma e mi trasferii là proprio perché ero innamorato. Sono stati sei begli anni, anche se alla fine la storia non stava più in piedi.

Matteo annuisce. E allora io gli chiedo:

- E tu, sei sempre stato solo?

Matteo rimane pensieroso, come se non avesse sentito la domanda, poi risponde:

- Sì. O quasi. Convivenze per periodi brevi, a termine, quando decidi di passare qualche tempo insieme, ma sai che non c’è un futuro. Ma sostanzialmente sono sempre stato solo.

C’è qualche cosa che non mi dice, ma che ha voglia di tirare fuori. Non lo forzo. Esita ancora un attimo, poi aggiunge:

- Ma adesso mi pesa.

- Come mai?

Matteo scrolla le spalle.

- Vorrei condividere la vita con qualcuno, avere una donna vicino quando mi alzo, aspettarla la sera. Una donna che amo, intendo. Inoltre… mi pesa dovermi sbattere per vedere qualcuno, mi pesa ritornare in una casa vuota. E poi… a un altro non lo direi, ma… vorrei una famiglia, vorrei avere dei figli, Nico. Ho trentaquattro anni, non voglio essere il nonno dei miei bambini. Voglio averli quando posso godermi la vita con loro. Vorrei avere una donna che amo accanto a me e allevare insieme dei figli.

Sono un po’ spiazzato, da Matteo non me l’aspettavo. Davvero è difficile giudicare le persone o forse sono io che non ne sono capace. Dai discorsi degli altri, non mi sembrava il tipo da pensare alla famiglia. Ma Matteo non parla molto di sé. Forse per questo mi è subito apparso simpatico: non amo quelli che si mettono in piazza e su Facebook raccontano anche cose che io direi solo a un amico.

Io ai figli ho rinunciato: non potrei adottarne e ovviamente non ho intenzione di sposarmi per farne. Ma capisco perfettamente che lui abbia voglia di avere una famiglia.

- Mi sembra molto naturale.

Matteo annuisce, di nuovo sovrappensiero.

- Ti stupirai un po’ che ne parli a te, ci conosciamo poco. Ho alcuni amici, ma non è un discorso che ho voglia di fare con loro, Nico, fino a che non sarò sicuro di quello che veramente voglio. Tu sei una persona sensata e sensibile, credo che tu mi possa aiutare a sbrogliare la matassa. E so che sei riservato.

Adesso capisco perché mi ha invitato a cena: ha bisogno di confidarsi un po’ e preferisce farlo con uno che conosce poco e con cui non gli importa di scoprirsi. Comunque è un bell’attestato di stima.

- Grazie. Non credo che ci sia niente di strano nel desiderio di creare una relazione stabile, formarsi una famiglia. Ed è giusto pensare a farlo senza aspettare troppo.

Matteo guarda la lattina di birra:

- Mi pesa sempre di più rientrare a casa ed essere da solo. Questa settimana ho combinato di uscire tutte le sere, perché a casa mi viene l’angoscia. Nico, se non avessi accettato di cenare con me, non so se sarei rientrato a casa.

La situazione è assai più grave di quello che mi sembrava. Matteo sembra molto forte, molto sicuro di sé, invece vive un momento di grande fragilità. È strano, non me lo sarei aspettato da lui. Mi rendo conto di non conoscerlo per niente, di essermi fatto un’immagine di lui sulla base di ciò che sentivo dire dagli altri e vedo che ho preso una serie di cantonate.

Matteo scrolla le spalle:

- È un momento, mi conosco e non credo che durerà a lungo, ma adesso è così. Dovevo uscire con un amico, ma lui mi ha mandato un messaggio per dirmi che non poteva, mentre rientravamo. Mi sono sentito perso.

- Mi spiace, Matteo, che tu stia così male.

- Nico, credo di non aver affrontato una serie di problemi e mi rendo conto che è ora di farlo.

Matteo mi parla delle sue difficoltà a trovare la donna giusta. Non dice che le donne sono tutte stronze, come certi che conosco (e che non sopporto). Si assume le sue responsabilità. In alcuni momenti mi rendo conto che ci sono cose che non racconta, che c’è una certa reticenza, ma la fiducia che dimostra in me mi sorprende.

- Nico, credo che il problema sia in me, non nelle donne che ho incontrato. Se solo fiutavo un desiderio di stabilità, scappavo a gambe levate.

- Ma adesso vorresti proprio la stabilità.

- Sì, ma non vorrei fondare una famiglia con nessuna delle donne che ho conosciuto.

- Ti sei mai chiesto il perché?

Matteo annuisce.

- Bella domanda, Nico, bella domanda, davvero. Ho paura della risposta.

C’è un attimo di pausa. Poi Matteo cambia deliberatamente argomento. Mi chiede della mia storia con Marcello, dei miei progetti di allora, del mio trasferimento. Io mi trovo a raccontargli cose di cui non parlo facilmente.

Infine ci lasciamo. Matteo mi sembra molto più sereno e mi ringrazia. Io gli rispondo che se ne ha bisogno, può anche telefonarmi nella notte. Lui mi guarda negli occhi e mi ringrazia di nuovo.

Scendo le scale in preda a sensazioni che non so definire, mi sento molto confuso. È buffo: quando siamo saliti eravamo due compagni di squadra che avevano stima uno dell’altro e si apprezzavano, ma si conoscevano poco, quando infine scendo per tornare a casa (tardissimo – domani sarà dura alzarsi) vorrei dire che siamo due amici. Spero di essergli stato d’aiuto. Mi ha fatto molto piacere parlare con lui.

 

Il martedì ci vediamo all’allenamento. Non ho occasioni di parlargli senza altri intorno, ma al momento in cui ci salutiamo, riesco a chiedergli come va. Storce la bocca e risponde:

- Meglio e peggio. Non ho più avuto attacchi di angoscia, ma…

C’è una pausa, poi riprende:

- …ma credo di avere le idee ancora più confuse di prima, dopo aver parlato con te.

- Devo esserti stato di grande aiuto!

La mia replica è scherzosa, quella di Matteo no.

- Lo sei stato, Nico, molto. Hai fatto piazza pulita di molte false certezze, hai fatto saltare muri e ponti.

Rimango molto perplesso. L’altra sera ho soprattutto ascoltato, perché mi sembrava che Nico avesse bisogno di questo. Mi sono guardato bene dal formulare giudizi o dare consigli.

- Credo che tu abbia fatto tutto da solo, Matteo. Non mi sembra di aver contribuito molto…

Matteo tace, sembra guardarsi i piedi. Poi risponde:

- Ci sono ancora alcuni muri, Nico. E vorrei che tu mi aiutassi a far saltare anche quelli.

- Se mi hai nominato artificiere, va bene. Quando vuoi.

Alza la testa e mi fissa:

- Vuoi venire da me?

Non faccio in tempo a rispondere, che subito aggiunge:

- Nico, non voglio approfittare della tua disponibilità. Se hai da fare, se sei stanco, facciamo un’altra sera. Non soffrirò di angoscia.

- No, per me va benissimo.

Vorrei aggiungere che preferirei non fare troppo tardi, ma non voglio porre limiti: so che non sta bene e posso tollerare un’altra notte con poche ore di sonno.

Matteo mi offre di nuovo la cena. Anche questa sera si tratta di una cena sostanziosa ma semplice. Non sembra essere un gran cuoco, ma con i fondamentali se la cava bene.

Durante la cena parliamo del più e del meno, ma siamo interrotti da una telefonata. Matteo guarda lo schermo e dice:

- Mia madre, scusami.

Esce dalla cucina mentre risponde. Lo sento parlare in inglese. Che lui conosca perfettamente l’inglese, lo so e non mi stupisce: so che è vissuto in Inghilterra molto a lungo, anche se non saprei dire esattamente quanto tempo. Ma che parli in inglese a sua madre, mi sorprende.

Matteo ritorna sulla porta e mi sorride, mentre continua a ripetere:

- OK, mom.

Lo dice tre volte, alzando gli occhi al cielo. Mi viene da ridere.

Poi saluta sua madre e si risiede a tavola.

- Ma, scusa, parli in inglese con tua madre?

Lui mi guarda, per un attimo non capisce, poi risponde:

- Certo, lei è inglese. Mi ha sempre parlato in inglese e mio padre in italiano.

- Quindi sei perfettamente bilingue.

- No, Matteo parla italiano e Matthew parla inglese.

Rido.                                                                 

- E sul lavoro?

- In base alla situazione, seleziono l’opzione Matteo o quella Matthew. Come quando hai due identità su Facebook.

- Ma ti chiami davvero anche Matthew?

- Sì, ho entrambi i nomi.

Parliamo un po’ della sua infanzia londinese. Con i suoi veniva spesso in Italia, ma di fatto è vissuto a Londra fino a quattro anni fa, quando la sua ditta lo ha mandato in Italia.

Dopo ci spostiamo in salotto e Matteo esordisce dicendo:

- Senti, non voglio essere un impiccione, ma vorrei che tu mi parlassi della tua storia con Marcello.

La domanda mi spiazza, anche se già martedì Matteo ha dimostrato interesse per il mio passato. Ma non credo che una storia gay, per di più finita male, possa costituire un punto di riferimento per uno che vorrebbe sposarsi.

- Che cosa vuoi sapere?

- Prima dimmi se ti fa male parlarne. Questo non lo voglio.

- No, magari mi mette tristezza, perché è stato un periodo felice, che si è concluso. Ma la sofferenza è alle spalle.

- Allora dimmi com’era vivere insieme.

- Guarda che non c’erano bambini che ci svegliavano strillando alle tre.

- Non ha importanza.

Annuisco. Da che parte incominciare? Da dove viene…

- Avevamo due lavori diversi e io mi alzavo sempre prima, ma la sera tornavamo più o meno alla stessa ora.

E mentre racconto ricordo i rientri a casa, le passeggiate insieme, le serate sul divano o fuori, l’opera che io mi sobbarcavo perché a lui piaceva, il gatto che veniva a dormire sul nostro letto e che si accoccolava ai piedi di Marcello.

È Matteo a fermarmi, dopo non so quanto tempo:

- Basta, Nico. Scusa, non avrei dovuto chiedertelo.

- Perché dici così?

- Perché ti ho fatto soffrire.

- È acqua passata, Matteo

- Nico, hai le lacrime agli occhi.

È vero, non me n’ero accorto. Mi asciugo gli occhi, un po’ in imbarazzo.

- Lo ami ancora, Nico?

- No, di questo sono sicuro.

- Ma ti fa ancora male.

- Sì, Matteo. Avevo sognato di costruire una vita insieme… Sogni…

- La vita è sogno…

Non lo dice a me, lo dice a se stesso, perso in suoi pensieri.

Poi sorride e prosegue:

- Guarda che dovevi essere tu a rallegrare me, non io a deprimere te. Hai capito male!

Allargo le braccia.

- Capita di sbagliarsi…

 

Carlo torna alla carica due giorni dopo, all’allenamento successivo. Mi chiede se ho voglia di andare a mangiare una pizza con lui quando finiamo. Ho abbastanza chiaro come potrebbe finire la serata. Esito un attimo e poi dico:

- Perché no? Per me va bene.

Forse non è il massimo di cortesia come risposta, lo so, ma non amo fingere. A me va bene, ma non è che ci tenga tanto. Comunque non ho motivo per negarmi. Perché dovrei dire di no? Quant’è che non scopo? Da qualche mese prima di lasciare Roma, diciamo quasi un anno. L’ultimo uomo con cui ho scopato è stato Marcello, in un assurdo tentativo di ricucire un rapporto che ormai era logoro.

Se Carlo vuole provare qualche cosa che a me interessa, perché no? È un gran bel ragazzo e se mi ricordo ancora come si fa, non mi spiacerebbe per niente. Sono stato sciocco a rispondergli in modo così poco gentile.

Carlo non sembra nemmeno accorgersi del mio scarso entusiasmo. Sorride e dice:

- Ottimo!

 

Quando abbiamo finito l’allenamento, ci spogliamo. Guardo Carlo e al pensiero che tra non molto gusterò quel bel culo forte (credo che sia questo che Carlo vuole, ma anche il contrario mi piacerebbe) mi accorgo che mi sta diventando duro. Cazzo (è il caso di dirlo)! Indugio un momento nello spogliatoio, cercando di pensare a qualche cosa di poco piacevole (immagino di trovarmi davanti Calderoli e Giovanardi), finché la situazione migliora un po’. Poi raggiungo gli altri, ma evito rigorosamente di guardare Carlo o di pensare a lui.

Mentre ci rivestiamo, Matteo mi sussurra nell’orecchio:

- Affamato, questa sera, eh?

Strizza l’occhio. Io annuisco. Gli sono grato di averlo detto a bassa voce, in modo che nessuno potesse sentire. La sua complicità mi fa piacere.

All’uscita, Carlo mi dice:

- Che pizzeria proponi, dalle tue parti?

“Dalle tue parti” significa che scoperemo da me e questo è logico, perché Carlo sta con suo padre e non vorrei che Romano ci trovasse a letto quando rientra a casa: sarebbe alquanto imbarazzante (se però volesse unirsi a noi, sarebbe il massimo).

Mentre sto pensando a che cosa scegliere, Carlo dice:

- Troviamoci sotto casa tua, mentre andiamo ci pensi.

Ho l’impressione che salteremo la pizzeria e in effetti, quando abbiamo parcheggiato le nostre auto e siamo tutti e due davanti al portone, Carlo dice:

- Saliamo?

Sorrido e dico:

- Va bene.

Sì, va bene. Una scopata e via, facciamo a meno anche della pizza. Mi rendo conto che non ci tengo molto a cenare con Carlo. E mi chiedo anche se mi interessa davvero scopare con lui.

È assurdo, sono proprio bacato nel cervello: un magnifico ragazzo mi si offre senza chiedermi niente, io non scopo da un anno e in questo momento non so nemmeno se lo voglio.

Appena entrati ci togliamo i giacconi e li appendiamo. Poi Carlo dice:

- La doccia ce la siamo già fatta in palestra. Possiamo passare al dunque.

Lo guardo e ghigno:

- Sei così impaziente di provare qualche cosa di nuovo?

Carlo ghigna anche lui:

- Sono un allievo volenteroso.

Su questo ho qualche dubbio, visto che si è diplomato solo l’anno scorso, con due anni di ritardo. Incomincio anche a chiedermi se davvero non ha mai avuto esperienze con uomini, ma sono cazzi suoi.

Mi avvicino a lui e vedo nei suoi occhi un lampo di incertezza, che di colpo cancella i dubbi e il fastidio che provavo. Sorride, ma ora mi rendo conto che è teso e questo me lo rende più simpatico. Gli dico:

- Ci fermiamo dove vuoi, non occorre andare fino in fondo, se non te la senti.

Mi guarda, per un attimo incerto. La maschera di sicurezza si appanna. Poi sorride.

- Grazie.

E, quasi a negare l’incertezza che ho colto, copre con un passo la distanza tra noi e mi bacia. Le nostre labbra si incontrano, ma quando gli infilo la lingua tra i denti esita un attimo prima di accoglierla.

Non gli chiedo nulla. Cerco di cogliere i segnali che il suo corpo mi manda. Passo le mani sotto la sua maglia, le faccio scivolare sulla camicia, sentendo il calore della sua pelle. E mentre lo faccio, gli sollevo la maglia, finché alza le braccia e gliela tolgo. Poi incomincio a sbottonargli la camicia e lo bacio nell’incavo del collo, mentre le mie mani scorrono sulla sua pelle. Gli stuzzico i capezzoli, che rispondono rapidamente allo stimolo, ergendosi. Ha un buon odore, Carlo, odore di pulito e odore di uomo. È molto che non sento il calore della pelle di un uomo, il suo odore, il suo gusto (la mia lingua lo sta accarezzando e Carlo freme).

Le mie mani fanno scivolare a terra la sua camicia e ora scorrono lungo il suo torace. È bello sentire i muscoli sotto la pelle.

Carlo mi lascia fare, sembra intenzionato a non prendere nessuna iniziativa, ma quando gli slaccio la fibbia della cintura, dice:

- Io nudo e tu tutto vestito? No, così non va!

Incomincia a spogliarmi ed io lo assecondo. Rimaniamo in pantaloni e poi io in slip, lui in boxer. Io sono eccitato, Carlo no, anche se è evidente che il suo uccello non è del tutto a riposo. Infilo la mano nei suoi boxer, accarezzo con dolcezza e poi in modo più brusco e sento che la carezza fa effetto. Passo entrambe le mani dietro e gli strizzo un po’ il culo, afferro le natiche muscolose e sode e poi due dita scivolano lungo il solco. Quando le mani lasciano la presa, fanno cadere a terra i boxer. Carlo ce l’ha duro, ma sembra paralizzato. A fatica muove le mani e mi abbassa gli slip. China gli occhi e guarda il mio uccello, gonfio di sangue e teso. Sembra che non ne abbia mai visto uno. Ma so che è solo la coscienza che questo lo gusterà.

Gli metto le mani sulle spalle e premo, leggermente: se non vuole, può sottrarsi. Ma Carlo cede e si lascia scivolare in ginocchio. Lo fissa. Non gli faccio fretta. Gli accarezzo la testa e lui, a un certo punto, apre la bocca e avvicina le labbra. Avvolge appena la cappella, poi si ritrae, solleva lo sguardo verso il mio viso, ghigna e di nuovo prende in bocca il boccone di carne che gli offro. Questa volta lavora bene con le labbra, succhiando.

- Usa un po’ la lingua.

Lui mi lancia una rapida occhiata, senza mollare la presa, e accetta il suggerimento. Incomincia a leccare, mentre tiene fermo l’uccello con una mano. Passa la lingua sulla cappella, poi la fa scivolare fino alla base del cazzo, poi ritorna fino in punta e questa volta ha modo di assaggiare una goccia.

Lo lascio lavorare ancora un momento, poi gli dico:

- Adesso basta, altrimenti vengo.

Mi guarda. C’è ancora un attimo di smarrimento, ma è proprio solo una nube che gli passa sul viso. Subito sorride, un sorriso sornione. Si solleva e mi bacia, con foga. Ce l’ha duro: l’aperitivo gli è piaciuto. Spero che apprezzi anche il piatto forte.

Dopo avermi baciato, si stacca, si volta e si stende sul letto, a gambe aperte.

- Così va bene?

- Certo che sì.

Gli assesto un bel morso al culo. Mi piace sentire i denti che affondano in questa massa di muscoli. Mi piace il gusto di questa pelle giovane, il calore della carne, l’odore di pulito e di maschio.

Carlo ha fatto un leggero sussulto. Io mordo ancora, ora con molta delicatezza, ora con vigore, strappandogli a volte dei gemiti. Poi, di colpo, gli passo la lingua lungo il solco. Lui geme forte. Lo faccio ancora, indugiando poi dietro i coglioni. Riprendo a mordere, poi lecco di nuovo. Vado avanti a lungo e Carlo geme più forte.

Poi la mia lingua indugia sul buco. Mi inumidisco l’indice e con lentezza spingo dentro la prima falange. Sento la resistenza dell’anello, che rifiuta di accogliere l’ospite a cui non è abituato. Allora mordo con forza, due volte, e mentre i denti affondano di nuovo, infilo il dito, fino in fondo, senza incontrare più resistenza. Lascio che rimanga lì e ancora mordicchio. Poi tolgo il dito e passo ancora la lingua. Mi bagno con la saliva anche il medio e spingo più a fondo. Sussulta di nuovo, ma la carne ha ceduto subito.

Prendo un preservativo dal cassetto e me lo infilo. Metto un po’ di crema lubrificante: confezione nuova, come quella dei preservativi, presa dieci giorni fa per ogni evenienza. Avverto che Carlo si sta di nuovo tendendo, ma io riprendo a lavorare di lingua e di denti, facendo ogni tanto un’incursione con un dito o due. Mi rendo conto che ogni resistenza si sta dissolvendo. Ormai è impaziente, preda di un desiderio che è già piacere.

Mi stendo su di lui, gli mordo una spalla con forza ed entro, appena appena. Lascio che l’anello si abitui al corpo estraneo, prima di affondare, sempre con molta lentezza. A tratti si tende, ma poi si rilassa subito, mentre le mie mani accarezzano e stringono, gli stuzzicano i capezzoli e gli tirano i capelli, gli afferrano le natiche e scivolano leggere sul collo.

Quando avverto che ormai si è abituato a questa nuova presenza, incomincio la mia cavalcata. Procedo con lentezza, ma lo sento gemere, più volte. So che il piacere sta salendo, che presto esploderà. Non pensavo che sarebbe venuto, ma ormai so che sarà così e ne sono contento: voglio che questa esperienza sia bella, per lui.

Continuo a spingere, fino in fondo, per poi ritrarmi, mentre le mie mani lavorano senza sosta. Infine sento che Carlo si tende, singhiozza e poi urla: un grido strozzato, di piacere puro. Io spingo più forte e vengo dentro di lui, mentre continua a gemere. Mi abbandono sul suo corpo e sento il suo respiro lentamente calmarsi.

Rimaniamo un momento immobili, poi gli accarezzo la testa e gli dico:

- Com’è stato?

Se mi dice che tutto sommato non è stato un granché, giuro che gli spacco la faccia. Ma Carlo non risponde direttamente alla domanda. Dice:

- Grazie, Nico.

Rimaniamo un buon momento distesi. Poi Carlo si alza. Mi chiede se può fare la doccia e io gli indico il bagno. Infine si riveste e se ne va.

Mi chiedo che cosa gli rimarrà di questa esperienza che ha voluto. Ho cercato di renderla il più possibile piacevole per lui. Ed è stata gradevole anche per me. Avevo bisogno di una bella scopata: vivo come un monaco.

Dopo aver cenato decido di telefonare a Matteo: voglio sentire come va. Probabilmente non lo troverò in casa, sarà uscito. Spero proprio che stia meglio, anche se so che non risolverà in fretta i suoi problemi.

Il telefono squilla solo due volte. Sento la voce di Matteo all’altro capo del filo:

- Pronto.

- Ciao Matteo, sono Nico.

- Nico! Che piacere sentirti!

Mi accorgo dalla sua voce che è davvero contento. Anche a me fa piacere sentirlo. Aggiunge, con un tono scherzoso:

- Avrei giurato che fossi occupato questa sera.

Rido.

- Questa poi! Sono sotto controllo?

- No, no. Non oserei mai. Ho solo messo una cimice nella tua auto e una nel tuo letto.

- Allora va bene, l’abbiamo fatto sul tavolo di cucina…

Matteo ride.

- Accidenti, m’è andata male!

C’è un attimo di pausa ed io dico:

- Volevo sentire come stavi.

Matteo esita. Poi risponde.

- Per certi versi meglio, Nico. L’angoscia dei giorni scorsi ormai si sta dissolvendo. Come vedi sono in casa, da solo, io, e posso garantirti che non sto male. È stato un momento così… Scusa per l’altra sera. Spero di non aver fatto stare male te.

- Ricordare quanto si è stati felici è un po’ dura.

- Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria

Sussulto, mentre la mia testa cerca di ritrovare i versi. Paolo e Francesca, l’Inferno.

- Insomma, non mi sento proprio all’Inferno.

- No, però io ho fatto un po’ da diavolo.

Rido.

- Ti ci vedo, con le corna, il tridente e una calzamaglia rossa.

- No, i diavoli vanno in giro nudi. Se no, che diavoli sono?

L’idea di Matteo che va in giro nudo non mi fa ridere, per niente. Ha un altro effetto, decisamente più in basso, anche se ho scopato un’ora fa. Cerco di scherzare:

- Mi sa che saresti un diavolo con la polmonite.

È Matteo a ridere.

- Sì, in effetti fa piuttosto freddo.

- Comunque tu non dovresti citare Dante, ma Shakespeare. Hai studiato in Inghilterra.

- Dante è uno dei motivi per cui sono orgoglioso di essere mezzo italiano. Mio padre e mio nonno, tutti e due toscani, me lo hanno proposto fino alla nausea.

- L’altro motivo di orgoglio nazionale è Leonardo?

- No, la pasta. Comunque, se vuoi Shakespeare, ti accontento: All the world's a stage, / And all the men and women merely players; / They have their exits and their entrances, / And one man in his time plays many parts, / His acts being seven ages.

- Ma sei un uomo di cultura!

- Non proprio, ma ho calcato le scene.

- Cosa?

- Sì ho recitato a lungo in compagnie amatoriali, dai sedici ai ventott’anni.

- Questa poi! Sei stato un attore!

- Forse lo sono ancora. Un pessimo attore. To thine own self be true, and it must follow, as the night the day, thou canst not then be false to any man. Questo è l’Amleto.

C’è qualche cosa nel tono di voce di Matteo che mi spiazza. Mi rendo conto che non sta scherzando, anche se è ironico. E la citazione sull’importanza di essere sinceri con se stessi non c’entra nulla con il discorso che facevamo. Lo avessi davanti, non so come risponderei, ma così, a distanza, non ho elementi per sapere come replicare. Allora ironizzo:

- Però questa delle citazioni in due lingue… è scorretto.

- Hai lavorato due anni a Londra. Parli benissimo l’inglese. Non rimpiangi Londra?

- Forse. Ci stavo bene.

- Perché sei tornato in Italia?

- Perché mio padre si era ammalato, ne aveva per qualche mese. Ed io non volevo stare lontano in quei giorni.

- Ci torneresti? A Londra, intendo?

- Forse, non so. Non credo che avrei voglia di ricominciare da capo un’altra volta: Londra, Milano, Roma, Torino… Mi sembra di fare la trottola.

- Anche tu vorresti mettere radici?

- Credevo di averlo fatto…

Mi pento subito di quello che ho detto. Non voglio ritornare sul passato, non vorrei che Matteo si sentisse in colpa. Aggiungo:

- Un giorno o l’altro mi sistemerò e ci vorranno le ruspe per abbattermi!

- Te lo auguro.

- Grazie. Adesso ti lascio in pace e me ne vado a dormire…

- Giusto, devi riprendere le forze.

- Scemo! Allora ti saluto, Matteo.

- Nico…

Matteo si interrompe.

- Dimmi.

- Hai voglia di passare da me una di queste sere?

- Certo, mi fa piacere.

Mi fa davvero piacere, vedo proprio volentieri Matteo.

- Prometto che non farò domande indiscrete.

- Domani o sabato?

- Se ti va bene, preferisco domani.

- Affare fatto. A che ora?

- Vieni per cena. Ti va verso le otto?

- Di nuovo a cena? Temo che incomincerò a pesare sul tuo bilancio.

- Sempre meno dell’analista.

- Sono un surrogato?

- Non tieni mai a freno quella linguaccia?

- Ho capito, buona notte!

- Buona notte!

 

L’indomani mi presento puntuale, con una torta presa da Tamborini: non voglio mangiare sempre a sbafo.

Matteo ha preparato una cena più ricercata e devo dire che in effetti se la cava bene. Non sarà proprio uno chef, ma se si impegna, i risultati si vedono.

Parliamo del campionato, della squadra, del freddo, di politica (abbiamo posizioni simili). Ormai le cene seguono uno schema fisso: a tavola nessun argomento personale, dopo, in salotto, si parla di noi.

Ci sediamo ed io vedo che sul tavolino c’è Vanity Fair.

- Stai leggendo Thackeray?

- Non ancora. L’ho tirato fuori perché conto di portarmelo dietro a Londra: attivo l’opzione Matthew.

Matteo va spesso in Inghilterra. L’azienda per cui lavora ha la sede principale a Londra e Matteo si occupa di tenere i collegamenti: uno che parla inglese e italiano allo stesso modo e ha un piede in tutte e due le realtà è la persona adatta. È stato assunto a Londra e poi mandato in Italia.

- A Londra? Quando parti?

- Domenica: ho una riunione lunedì alle otto in città, devo arrivare a Londra la sera prima.

- Non lo sapevo.

- Neanch’io. Me l’hanno detto questa mattina. Un’emergenza. E probabilmente starò via più del solito. In ogni caso dovrete fare a meno di me per la partita.

- Allora è la volta che vinciamo.

Matteo ride.

- Certo che sei proprio una carogna, Nico!

Parliamo di Londra, della mia esperienza là, degli stimoli che offre la città, dei genitori di Matteo.

Al momento di salutarci, Matteo mi abbraccia. È la prima volta che lo fa. Sto bene tra le sue braccia.

 

In effetti vinciamo la partita, che non era certo delle più facili, anche se giocavamo in casa: credo che nessuno avrebbe scommesso su di noi, neanch’io. Mi dico che piglierò per il culo Matteo per i prossimi tre mesi. Gli mando un messaggio, perfido:

Abbiamo sentito molto la tua mancanza: abbiamo vinto.

Lui mi risponde subito, deve essere già arrivato:

Stronzo! Sento anche io la tua mancanza. Salutami tutti e cerca di non dire troppe cattiverie.

Festeggiamo alla grande, con una serata in birreria. Il tasso alcolico sale alquanto e ho l’impressione che se la polizia ci fermasse al ritorno a casa, la prossima domenica metà squadra sarebbe senza patente. Carlo è andato ed escludo che sia in grado di guidare. Se ne rende conto anche lui e mi chiede se posso riaccompagnarlo a casa con la sua auto. Non mi costa molto, anche se poi dovrò tornare in autobus a casa mia. Di certo lasciarlo guidare in queste condizioni sarebbe criminale.

Saliamo in auto e Carlo si addormenta quasi subito. Parcheggio sotto casa sua, lo sveglio e lo accompagno fino alla porta.

- Vieni su anche tu…

Vedo che traballa sulle gambe. Ho fatto trenta, posso fare trentuno. Davanti alla porta, Carlo cerca le chiavi, non le trova, bestemmia e suona o, per meglio dire, si appoggia al campanello, senza più togliere la mano. Romano, suo padre, non è venuto a vederci, per cui penso che sia via, ma è lui ad aprire la porta, mentre io cerco di spostare la mano di Carlo dal pulsante.

- Ciao, Nico.

- L’ho riaccompagnato a casa, perché ha alzato un po’ il gomito.

Carlo ride, come se avessi fatto una battuta. Fa un passo avanti, incespica e se io e Romano non lo sostenessimo, cadrebbe a terra.

Romano sbotta:

- Cristo!

Accompagniamo Carlo in camera sua e lo stendiamo sul letto. Ride, ma poi si addormenta quasi subito.

Romano gli sfila una scarpa e io gli tolgo l’altra, poi gli togliamo la maglia, la camicia, i pantaloni e le calze. Lo lasciamo in canottiera e slip. Romano lo copre con un plaid.

Spogliare Carlo in presenza di suo padre mi ha un po’ turbato. Martedì abbiamo fatto l’amore. No, abbiamo scopato, niente di più.

Sto per dire che adesso è meglio che vada, quando Romano accende la luce in salotto e mi invita a sedermi. Davanti a lui sono un po’ a disagio.

- Vuoi bere qualche cosa?

- No, direi che anch’io ho bevuto abbastanza.

- Mi sembri perfettamente lucido.

- Non amo ubriacarmi. Abbastanza per me è molto prima dell’essere alticcio.

- Mi sembri saggio. Sei uno con la testa sul collo, Nico.

E mentre lo dice mi guarda fisso.

Il senso di disagio aumenta. Non dico nulla.

La domanda arriva improvvisa, come una staffilata, e anche il tono della voce è duro, ora:

- Ti è piaciuto metterglielo in culo?

Non è facile rispondere a una domanda di questo genere. In un’altra situazione, ironizzerei o direi che sono affari miei, ma adesso è diverso. È vero che sono affari miei, che Carlo è maggiorenne da un pezzo, che me l’ha chiesto lui, ma di fronte a suo padre tutto questo mi sembra poco rilevante.

Taccio e lo guardo, senza abbassare gli occhi. Non ho nulla da rimproverarmi.

È lui ad abbassare lo sguardo, a prendere il pacchetto di sigarette posato sul tavolino e accenderne una. Poi mi fissa di nuovo e dice:

- Scusa, non sono cazzi miei, lo so.

Fuma e guarda verso la porta del salotto. Poi aggiunge:

- Però ti spaccherei la faccia volentieri.

- Romano, non ho sedotto Carlo, non…

Un suo gesto imperioso mi blocca.

- Lo so benissimo. È stato lui a chiedertelo e tu non eri neanche convinto. E poi sei stato molto attento a lui e lo hai fatto godere.

Lo guardo, sbalordito. Non c’era nessun altro. Come può sapere queste cose? Lui capisce e risponde alla domanda che non ho formulato:

- Me lo ha detto Carlo. Sapevo che avreste scopato, prima ancora che lo faceste.

Una simile confidenza tra padre e figlio mi stupisce. Rimango muto. Vorrei alzarmi e andarmene. Non capisco che cosa voglia da me Romano. È sempre lui a continuare. Non c’è bisogno che io dica niente.

- Carlo voleva provare. Lui vuole provare tutto. È simile a me, in questo, anch’io alla sua età ho fatto di tutto e lui lo sa benissimo. Ho fatto male a parlargliene, ma sai, tutte quelle cazzate che si dicono sul dialogo tra genitori e figli…

Sono sempre più confuso. Se davvero anche lui ha provato di tutto, qual è il problema? Non riesco a darmi una risposta convincente. Carlo intende sposarsi, non sarà certo una scopata a farlo diventare gay, se gli piacciono le donne. E se… È ancora Romano a parlare, interrompendo i miei pensieri:

- Tu eri l’uomo adatto per provare. Uno con la testa sul collo, appunto, che poi non va a raccontarlo in giro, attento per due, con cui non si corrono rischi di nessun genere. L’ho incoraggiato io a provare con te.

Guardo Romano, senza interrompere il suo monologo. Non riuscirei a dire mezza parola.

- Ma ti spaccherei lo stesso la faccia volentieri.

- Non ti capisco.

- Non mi capisco nemmeno io, se è solo per questo. O forse mi capisco benissimo ed è per questo che me la prendo con te. Scusami.

La mia presenza qui non ha nessun senso. Faccio per alzarmi, dicendo:

- Senti, adesso…

Di nuovo un gesto deciso, in cui leggo più nervosismo che volontà di imporsi.

- Aspetta, Nico.

Poi la sua voce diventa meno dura.

- Scusami, Nico, vorrei parlare ancora un po’ con te, anche se mi rendo conto che di certo non ti sto mettendo a tuo agio.

Su questo non c’è dubbio, ma non dico nulla. Anche lui tace e c’è un momento di silenzio. Tiene lo sguardo abbassato, fissando la sigaretta che si consuma appoggiata sul portacenere, senza che abbia tirato una sola boccata.

Vorrei soltanto andarmene, ma attendo.

Romano alza di nuovo la testa, mi guarda e dice, sferzante:

- Com’è stato, Nico? È piaciuto a te come a lui?

Capisco che sia turbato, ma sta passando il limite. Mi alzo e dico:

- Io adesso vado, Romano.

Anche lui si solleva, ma quando è in piedi davanti a me, sorride e dice:

- Mi piacerebbe farlo con te.

Non capisco, non capisco più nulla. In questi mesi Romano mi è sembrato un uomo ragionevole ed equilibrato. Questa sera sembra che abbia bevuto, anche se la sua voce non è alterata. Nel suo fiato non c’è traccia di alcol e lo sento perché adesso è vicinissimo.

Sono frastornato e lascio che alzi le mani, le appoggi sulle mie guance e mi baci.

Romano mi piace, mi piace un casino. Non ha niente a che vedere con i sentimenti, lo conosco poco, ma fisicamente mi attrae moltissimo, assai più di Carlo: mi sono sempre piaciuti gli uomini sui quaranta.

Romano si muove lentamente, ma con sicurezza. Mette le mani sotto il mio maglione e incomincia a sbottonare la camicia, mentre continua a baciarmi. Io rimango un momento immobile, poi prendo anch’io a lavorare con i bottoni. Ci impacciamo a vicenda, ma non abbiamo fretta. Ci stacchiamo e ci liberiamo di maglie e camicie.

Posso finalmente vedere Romano a torso nudo ed è una bella vista. Ha un torace ampio, muscoloso, con una leggera peluria scura, appena più densa intorno ai capezzoli.

Rimaniamo un momento a guardarci. Non credo di piacergli quanto lui piace a me, ma so che non sono proprio da buttare via.

Romano si toglie le scarpe e poi le calze e io lo imito. Ci guardiamo, sorridenti, mentre con movimenti lenti, perfettamente sincronizzati, ci apriamo i pantaloni e li lasciamo calare a terra, poi ne tiriamo fuori i piedi. Indossa i boxer, come Carlo. Io ho i miei soliti slip (- Gli slip sono da vecchi, mi diceva sempre Marcello). Direi che tutti e due siamo pronti per ciò che seguirà, perché abbiamo un promettente rigonfio. Allungo le braccia in avanti e poggio le mani sui fianchi di Romano. Infilo le dita nell’elastico, mentre lui fa lo stesso con me. E poi, con un gesto brusco, abbassiamo l’ultima difesa e ci mostriamo l’uno all’altro, nudi ed eccitati.

Guardo l’uccello di Romano, che si drizza, massiccio, con la cappella scoperta, di un colore cupo, un rosso quasi violaceo. Ho la gola secca. Romano sorride, poi si volta e, con un cenno del capo che mi invita a seguirlo, esce dalla stanza. Raggiungiamo la camera da letto e lì Romano, dopo aver acceso una lampada sul comodino, si stende sul letto e mi guarda sorridendo. Guardo il corpo vigoroso e, attirato dal grosso cazzo teso sul ventre, salgo sul letto, mi inginocchio tra le sue gambe e lo prendo in bocca. È caldo e ha un buon odore. Lo lavoro un po’ con la lingua e con le labbra, lo mordo, con molta leggerezza. Le sue mani mi accarezzano i capelli e le mie scorrono lungo i suoi fianchi, poi passano davanti, dal ventre risalgono al torace, ai capezzoli eretti, al viso. Romano mi prende la testa tra le mani e mi forza a stendermi su di lui. Mi bacia, mentre i nostri due corpi aderiscono. Poi il nostro abbraccio si scioglie e Romano mi fa stendere a pancia in giù sul letto. Mi accarezza la schiena. Sento le sue dita scorrere lungo la mia colonna vertebrale, scivolare sul solco, indugiare sull’apertura, risalire, stringere con forza le natiche.

Poi si stacca, apre un cassetto e ne estrae il preservativo. Se lo mette e si stende su di me. Mi passa la lingua nell’orecchio, sulla nuca; mi bacia una guancia, la tempia; mi morde il lobo dell’orecchio, la spalla. E poi sento il suo sperone che preme e che lentamente mi entra dentro. Mi fa un po’ male, perché è alquanto voluminoso, ma avanza lentamente e io mi abituo a questa presenza che da tanto tempo non ho più sentito dentro di me.

E quando infine è giunto al fondo, Romano incomincia a muoversi, ritirandosi e spingendo, in una cavalcata che diventa sempre più rapida e intensa. È doloroso, ma è anche piacevole, maledettamente piacevole. Romano spinge con energia sempre maggiore, squassandomi tutto. Mi fa male, ora, ma ormai è tutto concentrato su di sé e io devo comunque ammettere che anche nel dolore provo un piacere forte, che dal mio culo si irradia in tutto il corpo.

Romano emette una serie di mugolii, mentre le sue spinte divengono ancora più violente, poi si affloscia su di me. Ho il culo dolorante, ma è stato bello.

Romano si gira sulla schiena, senza togliere lo spiedo che mi infilza: ora è sotto di me e le sue mani mi stuzzicano i coglioni e mi accarezzano il cazzo. Lo fa senza delicatezza e di nuovo il piacere è misto a dolore, ma infine il piacere ha il sopravvento e vengo, con un fiotto che mi si sparge sul ventre.

Rimango disteso, a occhi chiusi. Sento in culo il cazzo di Romano e contro il mio corpo il suo. Sto bene così.

Sento che Romano si muove un po’ e capisco che è ora che mi alzi. Mi sollevo. Mi spiace quando sento il suo cazzo uscirmi dal culo.

Guardo il seme sul mio ventre. Romano ha preso un pacchetto di fazzoletti di carta dal comodino e me lo porge. Mi pulisco. Non mi chiede se voglio fare una doccia. La farò a casa.

Romano non si riveste. Mi accompagna in salotto, dove raccoglie i suoi abiti, mentre io indosso i miei. Poi si mette la vestaglia e mi accompagna alla porta. Mi bacia ancora, con delicatezza e poi dice, subito prima di aprire la porta:

- Nico, se tocchi ancora Carlo, la faccia te la spacco davvero.

Lo guardo e non replico. Scuoto solo la testa. Mi volto e scendo le scale, con le idee confuse e il culo un po’ dolorante.

È tardi per prendere l’autobus. Potrei chiamare un taxi, ma scelgo di tornare a piedi. Mi ci vorranno almeno quaranta minuti, ma va bene: ho bisogno di pensare, di mettere a fuoco le mie idee. Camminare mi aiuta. Attraverso il Po e proseguo per un pezzo lungo la riva: c’è la solita animazione ai Murazzi, anche se fa freddo. Al ponte successivo prendo corso Vittorio e mi allontano dal fiume.

Ho fatto l’amore due volte con due uomini diversi, forse dovrei dire che ho scopato con due uomini diversi, nel giro di pochi giorni, io che non scopavo da un anno e che nei sei anni passati con Marcello non avevo avuto rapporti con nessun altro. Ma questo non significa nulla. Sono libero, non ho una relazione, non ho un amore, non ho motivo per rifiutare. Il problema è altrove, nel rapporto tra Carlo e Romano. Domani Romano dirà a Carlo che me lo ha messo in culo? Credo di sì. Il loro legame è molto forte ed io, davanti a loro, ho l’impressione di contare ben poco. Mi dà un po’ fastidio l’essere usato, ma l’ho accettato io.

Comunque è buffa: dei tre uomini del rugby che mi piacevano davvero, ho già scopato con due, entrambi etero (o forse dovrei dire bisex). L’unico con cui non ho scopato è Matteo, l’unico a cui tengo davvero. Ma non voglio pensare a lui, adesso, lui non c’entra in questa storia.

 

Matteo mi telefona la sera successiva. Sono contento di sentirlo.

- Matteo! Quando torni?

- Starò via ancora una settimana, almeno.

Mi spiace che Matteo stia via così a lungo. Matteo aggiunge:

- Non ti senti sperduto, senza di me?

Mi viene da rispondere, sincero:

- Sì, un po’.

Ma recupero subito con una battuta:

- Non ho nessuno che mi invita a cena e devo fare la spesa.

- Stronzo!

Poi la voce di Matteo cambia, mentre dice:

- Avrei voglia di vederti e parlare un po’ con te, Nico.

- Anch’io ho voglia di vederti.

- Lo so, sono bello.

Per me sì, Matteo lo è, moltissimo. Ma rispondo:

- Ma non ero io quello che faceva le battute?

- La mia non era una battuta, stronzo! Dovevi dire: “È proprio vero.”

- Se lo dici tu…

Ma ha ragione lui: è proprio vero!

- Come vanno le cose dalle tue parti?

Chiacchieriamo un buon momento.

 

La sera dopo squilla il telefono. Non conosco il numero. Sarà la solita proposta di cambiare gestore per l’elettricità, il telefono o il gas? Capisco mio zio che rimpiange il tempo dei monopoli pubblici: queste telefonate sono un’ossessione.

- Nico? Sono Romano.

Questa poi!

- Ciao, Romano. Come stai?

- Bene, grazie. E tu?

- Anch’io.

Mi sto chiedendo che cazzo vuole, ma me lo dirà lui. E in effetti:

- Che ne diresti di venire da me domani sera?

Non c’è una motivazione. E questo mi fa pensare che intenda fare il bis della volta scorsa. Perché no? In fondo sul piano fisico Romano è davvero il mio maschio ideale (per il resto lo conosco poco, ma non posso dire che sul piano umano mi affascini).

- Va bene. A che ora?

- Verso le nove?

- Perfetto.

Ci salutiamo.

 

Mi sono fatto la doccia e lavato i denti. Ho messo la confezione dei preservativi in tasca, anche se sono sicuro che Romano ha i suoi, e direi che ho tutto l’occorrente.

Romano mi accoglie con un sorriso strano, un po’ ironico.

Mi accompagna in salotto e mi offre da bere, ma io prendo un bicchiere di vino bianco, niente di più. Romano mi prende in giro per la mia “testa sul collo”.

Poi mi dice:

- Tralasciamo i convenevoli e ci spostiamo in camera?

- Va bene.

Passiamo nella stanza e incomincia subito a spogliarsi. Sembra impaziente: come se adesso che è la seconda volta, lo spogliarsi a vicenda e i preliminari non avessero più molto senso. Ma quando siamo tutti e due nudi, mi stringe tra le braccia e mi bacia, con trasporto. Infila la sua lingua tra i miei denti e le sue mani scendono fino al culo, stringendo. Le mie scorrono sulla sua schiena, dalle spalle fino ai fianchi. Il desiderio ci avvolge e abbiamo entrambi il sesso gonfio di sangue. Lui stacca la bocca e io chino la testa, mordendogli una spalla.

E di colpo, mentre Romano mi tiene le mani sul culo, sento un altro corpo aderire al mio. Sussulto.

Sento la risata di Carlo e poi la sua voce:

- Non ti spiace, se mi unisco a voi?

Mentre lo dice, le sue braccia mi cingono e le sue mani vanno a posarsi sul corpo di Romano.

Rimango muto, confuso. Non me l’aspettavo e non saprei che cosa dire. Non ho mai fatto niente in tre. Non sono sicuro di avere voglia di farlo. E mi dà piuttosto fastidio che Romano non mi abbia detto nulla delle sue intenzioni. Probabilmente ha intuito che mi sarei tirato indietro. Ma adesso, tra le braccia di Carlo e di Romano, mi sembra che non abbia più senso rifiutarmi. La sensazione dei loro due corpi che mi avvolgono è piacevole. E questa sera non sono i sentimenti che metto in gioco, ma solo il piacere.

Allora rispondo:

- Perché no?

Carlo scivola a terra e sento la sua lingua che scorre lungo il mio solco. Prepara il terreno per il padre, perché so, senza avere nessun dubbio, ciò che succederà. E Romano si inginocchia davanti a me e mi prende in bocca il cazzo, incominciando a leccarlo e succhiarlo con molta delicatezza. Lui prepara il terreno per il figlio.

Mi sembra di essere scisso in due. Vedo, come se fossi all’esterno, la scena che sto vivendo: due maschi in ginocchio che accendono il mio corpo con le loro bocche e lo avvolgono con le loro mani, mentre le mie scorrono sulle loro teste, in carezze che a tratti si fanno più brusche, mentre le dita si impigliano tra i capelli e a tratti tirano. E nello stesso tempo sono qui, in mezzo a loro, sento il calore dei loro corpi, la bocca calda e accogliente di Romano, la carezza umida di Carlo. Cazzo!

Dopo un buon momento, quando ormai la tensione è diventata troppo forte, Romano si solleva e Carlo lo imita. Il cazzo di Romano è teso allo spasimo e, passando una mano dietro il culo, sento che anche quello di Carlo è pronto all’uso.

Carlo si sposta, si avvicina al letto e si mette a terra, con il torace sul letto e il culo che sporge. Romano prende un preservativo e me lo porge. Mentre io me lo infilo, lui ne prende un altro e se lo mette.

Romano prende un po’ di crema lubrificante e la mette sul solco di Carlo, sopra l’apertura. Accarezza con l’indice, che poi spinge dentro, facendo sussultare Carlo. Muove il dito in senso circolare e Carlo geme. Poi si solleva, mi sorride e mi fa un cenno con il capo.

Mi sembra irreale: Romano minacciava di spaccarmi la faccia se avessi ancora toccato Carlo e ora me lo offre, gli lubrifica il buco del culo perché io possa infilzarlo ben bene. È in piedi, di lato, e mi guarda mentre avvicino il cazzo all’apertura e lo premo leggermente. Carlo non è più teso come l’altra volta. Gira la testa verso Romano e sorride. Romano ricambia il sorriso, ma il suo sguardo è fisso sul mio cazzo che adesso, piano piano, si apre la strada, forzando di nuovo l’anello di carne ed affondando. Romano annuisce, quasi ad approvare.

Poi passa dietro di me. Io avanzo ancora, fino a che il mio ventre è a contatto con il culo di Carlo. Mi appoggio su di lui e lo avvolgo con le braccia. Mentre lo faccio, sento il cazzo di Romano che preme. Deve aver messo un po’ di lubrificante sul preservativo, perché scivola dentro senza fatica.

Il mio cazzo nel culo di Carlo, quello di Romano nel mio. Una sensazione del tutto nuova, molto intensa.

Romano poggia le mani sui miei fianchi e mi tira indietro, così che il mio cazzo quasi esce dal culo di Carlo. Poi spinge, facendomi di nuovo penetrare a fondo. Mi dico che Romano si serve di me per scopare suo figlio.

Procediamo così, poi a tratti Romano lascia che sia io a muovermi, affondando il cazzo in culo a Carlo e poi ritraendomi e infilzandomi sul cazzo del padre. Ed è bellissimo, una sensazione violenta.

Le mani di Romano scorrono sui miei fianchi e poi passano oltre, fino a poggiare sul culo di Carlo. Stringono, forte, e io sento il guizzo del corpo di Carlo. Il piacere cresce, sempre più intenso, sempre più forte, tanto forte da essere quasi intollerabile. Avverto la tensione nel corpo di Carlo, che le mani di Romano percorrono. Infine il suo gemito mi dice che è venuto. Io spingo più forte, mentre alcuni colpi violenti da parte di Romano mi dicono che anche per lui il momento culminante è arrivato. I nostri movimenti non sono in sincronia, sembra quasi uno scontro, ma Romano viene e poco dopo anch’io sento la scarica e mi sembra di essere scagliato in cielo.

Chiudo gli occhi, abbandonandomi sul corpo di Carlo. Romano si lascia andare su di me, ma le sue mani si muovono ancora.

Poi ci stendiamo tutti e tre sul letto. Io guardo il soffitto. Adesso ho le idee chiare. Aspetto qualche minuto, poi mi alzo. Romano mi guarda e sorride. Carlo ha gli occhi chiusi. Inizio lentamente a rivestirmi. Quando ho finito, Romano fa per alzarsi, ma io gli faccio cenno che non è il caso: conosco la strada. Li guardo distesi sul letto, padre e figlio, nudi e possenti, il cazzo ancora gonfio di sangue. Apro la porta, esco e me la tiro dietro. Scendo le scale, immerso in pensieri che vagano confusi.

Non mi è dispiaciuto farlo in tre, per nulla. Il mio corpo è appagato. Ma ho la sensazione di essere stato usato e questo non mi va bene. Sono stato una pedina in una partita di scacchi che altri hanno giocato.

Non ci saranno altri incontri, a due o a tre, non mi interessa. È stata una parentesi, piacevole. Il mio corpo ne aveva bisogno, a trentadue anni l’astinenza mi pesa. Ma è altro quello che voglio.

Che cosa voglio? Voglio amare ed essere amato, davvero, ma di certo non amo né Carlo, né Romano. Il mio cuore è libero.

E mentre lo dico, una voce dentro di me risponde che non è vero. E mi vedo davanti Matteo.

Matteo.

Matteo.

Quanto tengo a Matteo?

La domanda era lì, in qualche angolo del mio cervello. Era pronta a saltarmi addosso appena mi fossi distratto un attimo. Mi sbilancia completamente, mi sembra di non essere più capace di stare in piedi.

E d’improvviso mi sento infelice, terribilmente infelice. No, non è possibile. Non posso essermi innamorato di un etero che vuole una famiglia e i bambini. Non voglio soffrire di nuovo. Ho già dato. Posso fare a meno dell’amore, è una zavorra che ti trascina a fondo, ho fatto fatica a tornare a galla, adesso basta! È falso, lo so, non posso farne a meno, non a lungo, ma davvero non voglio un altro amore infelice, ora. Sono appena uscito da un amore infelice.

Non salgo in auto, non me la sento. Faccio un giro per le strade, mi perdo in una città che conosco bene, che conoscevo già prima, perché a volte ci venivo da bambino. Cerco di far perdere le mie tracce ai pensieri, ma loro mi vengono dietro. Sono lì, appollaiati sulle mie spalle, come avvoltoi in attesa di una preda che non sfuggirà.

Mi appoggio a un muro: non riesco a stare in piedi. Ho voglia di piangere. Vorrei che qualcuno mi prendesse tra le braccia e mi consolasse. Mi viene in mente mia madre, che ormai ricordo appena. Vorrei tornare bambino, al porto sicuro del suo affetto. Penso a Marcello, ai giorni della nostra felicità. E la disperazione mi inghiotte.

 

Matteo non si fa vivo per tre giorni e mi sembra che questo prolungato silenzio mi ricacci ancora più a fondo. All’allenamento mi chiedono che cos’ho. Io dico che ho grane sul lavoro. Non è una bugia: le grane sul lavoro abbondano, anche se oggi ho ricevuto i complimenti del dirigente del settore (cazzo!) e i colleghi mi hanno guardato sbalorditi (è uno a cui non va mai bene niente).

Sono quasi le sette quando leggo il nome di Matteo sul display del cellulare. Lo accolgo con:

- Lestofante! Quand’è che ti decidi a tornare tra noi poveri terroni?

- Sono già tornato.

Rimango senza parole. È tornato e non mi ha neanche avvertito. Anche questo mi fa male: sono a questo punto. Bofonchio:

- Non lo sapevo.

- Ho preso il biglietto direttamente all’aeroporto, il primo aereo su cui ho trovato posto. Sono arrivato tre ore fa a Caselle, Nico. Devo prendere una decisione in fretta, Nico, molto in fretta.

Ho paura. Che decisione deve prendere? Di che cosa si tratta?

- È una decisione importante?

- Sì, lo è.

Annuisco, anche se lui dall’altra parte non può vedermi. Non so che cosa dire.

- Nico, puoi venire da me?

- Adesso?

- Sì, se non hai impegni. Nico, ho bisogno di parlarti.

- Certo, Matteo.

- Guardo che cos’ho in freezer. In qualche modo un boccone te lo offro.

- Possiamo andare a mangiare fuori.

- No, ho bisogno di parlarti tranquillamente.

- Allora senti: io ho il pane e lo porto, così non stai a tirarlo fuori dal freezer.  Pasta ne avrai, no?

- Sì, certo.

- Passo a prendere qualche cosa alla gastronomia qui vicino. Non stare a tirar fuori nient’altro.

- Grazie, Nico.

La gastronomia è ancora aperta, per fortuna. Compro una torta Pasqualina. Non servirà nemmeno il pane, se mangiamo questa e la pasta. La pasticceria sta chiudendo, ma mi conosce e mi fa entrare (sono un buon cliente, per fortuna non soffro di diabete). Una piccola Sacher è quello che ci vuole.

Prendo l’auto e raggiungo la casa di Matteo. Trovo parcheggio senza problemi, ma non scendo subito. Mi rendo conto che sono nel pallone. Matteo è tornato. Ha una decisione importante da prendere. Di certo si tratta di lavoro, se i tempi sono così stretti. Un trasferimento in un’altra città? La ditta per cui lavora ha una sede vicino a Padova e una a Roma. O invece ha conosciuto (o ritrovato) a Londra una donna e medita di sposarla? Nessuna di queste possibilità mi fa piacere, ma le decisioni di Matteo devono essere le migliori per lui, non per me.

 

Quando apre la porta, Matteo mi abbraccia. Sto bene tra le sue braccia, anche se solo per un attimo.

- Sono contento di rivederti, Nico. Mi sei mancato. Non poco.

- Grazie. Anche tu mi sei mancato.

Tiro fuori la spesa:

- Torta Pasqualina e Sacher: direi che come secondo e dolce siamo a posto.

- L’acqua già bolle, perfetto. Era ora che contribuissi un po’ alla cena, mangiapane a ufo. Butto la pasta.

Sono inquieto. Non so che cosa dire.

- Hai il sugo?

- Non ti va bene all’olio?

- Sì, sì, certo.

Della pasta non mi importa niente. Potrei anche saltare cena. Vorrei sapere che cosa Matteo deve dirmi.

Butto lì:

- Allora, questa grande decisione?

- Ne parliamo dopo cena. Come sono andati gli allenamenti?

- Tutto normale.

- Due vittorie consecutive, eh? Incredibile.

- Già, ci mancavi tu….

Matteo non replica. Mi rendo conto che anche lui è teso, preoccupato per qualche cosa. Dopo un momento dice:

- E Carlo?

È detto con noncuranza, ma colgo un certo imbarazzo nella domanda. Rimango un attimo spiazzato.

- Carlo cosa?

- Scusa, non voglio fare l’impiccione. Fa’ conto che non abbia detto niente.

- Senti, Matteo, Carlo voleva provare e abbiamo scopato una volta. E poi è finita lì. A nessuno dei due interessava molto la faccenda.

Non mi sembra il caso di parlargli di Romano e del terzetto.

Matteo annuisce.

- Mi chiedevo se non stesse nascendo una storia…

- No, nessuna storia, nessuno dei due lo vorrebbe.

Non sono sicuro che sia la verità. A me non interessa, questo è vero, e di certo anche per Carlo non c’è nessun coinvolgimento sentimentale, ma non metterei la mano sul fuoco che quei due non abbiano intenzione di provare altro. E mentre lo penso, mi rendo conto che non voglio mentire a Matteo.

- Matteo, posso contare sulla tua assoluta discrezione?

- Certo, Nico.

- Non c’è stato solo Carlo. C’è stato anche Romano. Una volta ognuno dei due e una volta loro due insieme, anche se io non l’avevo previsto. Ma non ci saranno altre volte, perché davvero non mi interessa. È altro quello che voglio, è altro quello che cerco.

Vorrei aggiungere: “Sei tu.” Ma per fortuna non ho ancora segni di Alzheimer, per cui mi fermo sull’orlo del baratro.

Matteo mangia pochissimo. Appare teso, ogni tanto mi fissa e se i nostri sguardi si incrociano sorride, un po’ impacciato. Anche a me l’appetito sta passando. Il nervosismo di Matteo mi contagia. E ho paura che ci sia qualche brutta notizia in arrivo.

La torta non la mangiamo. Ci diciamo che magari la mangeremo dopo.

Conclusa la cena però, Matteo sistema la cucina. Sembra che lo faccia apposta per perdere tempo.

Infine ci sediamo in salotto.

- Allora, questa grande novità?

Matteo mi guarda.

- Mi hanno chiesto di stabilirmi in pianta stabile a Londra. Ho una settimana per decidere e trasferirmi.

Mi rendo conto che sto male, malissimo. Con fatica, articolo:

- E tu, che pensi di fare?

- Ci sono tre possibilità, Nico.

Da come le enumera, contandole sulle dita, deve essersele ripetute per bene:

- Andare a Londra felice. Rimanere a Torino felice, anche se rinunciando a qualche sogno. Andare a Londra infelice.

- Mi sembra che la prima soluzione sia la migliore, no?

E mentre lo dico, mi rendo conto che sto sempre peggio. Ma perché mi sono innamorato di lui?

Matteo sorride, un sorriso incerto, quasi timoroso.

- Sì, ma non dipende da me.

Non dico nulla. Rimango in attesa. Neanche lui dice nulla. Accidenti a lui, perché mi fa rimanere sulle spine in questo modo? Allora gli rilancio la palla:

- Spiegami.

Matteo china la testa e si guarda i piedi. Poi mi fissa negli occhi e mi dice:

- Nico, vuoi venire con me a Londra? Vuoi venire a vivere con me?

I miei pensieri vanno avanti con il freno a mano. Io non riesco neanche a capire che cosa mi sta dicendo. Lo guardo come se avesse parlato in una lingua sconosciuta, che so, in laotiano o in samoiedo.

C’è un momento di silenzio. Poi riesco a dire:

- Che cosa vuoi dire?

Lui sbotta:

- Cazzo! Nico, è così difficile da capire? Mi sono innamorato di te. Innamorato perso. Voglio vivere con te. Vorrei che ci sposassimo, a Londra, in un paese un po’ più civile di questo. E se le cose funzionano tra noi, ed io credo che funzionerebbero, vorrei che adottassimo dei bambini.

Lo guardo, annuisco. Non sto andando avanti con il freno a mano. Ho spento il cervello. Encefalogramma piatto. Mi sembra di non capire. È troppo, non riesco a connettere.

Lentamente, molto lentamente, gli ingranaggi si rimettono in moto e trovo qualche cosa da dire:

- Ti amo, Matteo.

Credo di aver detto la cosa giusta, Dio solo sa come. Matteo chiude gli occhi e respira a fondo. Poi scuote la testa.

- Ho creduto di impazzire in questi giorni, Nico. Tu eri lontano ed io non reggevo, avevo un disperato bisogno di vederti. Avrei voluto parlarti tutti i giorni, chattare con la webcam, ma soprattutto stringerti, abbracciarti.

Mi rendo conto che non ci siamo abbracciati mai, se non prima che lui partisse per Londra e adesso quando sono arrivato a casa. Mi alzo e faccio un passo verso Matteo. È lui ad abbracciarmi, stringendo forte. Rimaniamo così, l’uno stretto all’altro, la mia testa appoggiata sulla sua spalla. Non voglio altro, ora, perché non c’è nulla di più bello che stringere l’uomo che amo e che mi ama. Mi sento totalmente appagato.

Lentamente, però, il contatto tra i nostri due corpi ridesta un desiderio che la tensione aveva anestetizzato. Le nostre bocche si cercano e finalmente bacio Matteo. Ho baciato diversi uomini (non tantissimi, lo so, ma un certo numero) ed è sempre piacevole, ma baciare l’uomo che si ama è un’altra cosa. E il bacio è il fiammifero lanciato sull’erba secca. In un attimo il nostro abbraccio diventa un avvinghiarsi, ci baciamo come se volessimo divorarci a vicenda. La mia lingua si avventura in un territorio inesplorato e poi si ritira ad accogliere una benvenuta visitatrice.

Le mani di Matteo mi stanno accarezzando, stringendo, spogliando e le mie fanno altrettanto. Vogliamo fare troppe cose insieme, ci ostacoliamo a vicenda, ma va bene così, non c’è nulla di meglio di questo abbraccio. Ora abbiamo tutti e due la camicia aperta e sento la pelle di Matteo contro la mia. È bellissimo, è la cosa più bella che possa immaginare. Sto baciando Matteo, lo sto stringendo, lo sto spogliando (o almeno ci provo: la cintura dei pantaloni è difficile da togliere, Matteo mi sta appiccicato e io non intendo allontanarlo). E Matteo mi sta baciando, accarezzando, palpando (che bello essere palpato, sentire due mani forti che ti stringono il culo!), spogliando (con risultati migliori, lui sembra più efficiente di me).

Ci stacchiamo un attimo per completare l’opera e ci guardiamo a vicenda. Ho visto Matteo nudo tante volte, al termine degli allenamenti, e mi chiedo come abbia fatto ad evitare di avere ogni volta un’erezione: adesso ho il cazzo tanto teso che mi fa male. Matteo è bellissimo, amo questo corpo solido, dalle spalle larghe, il torace possente, le braccia e le gambe che sembrano fusti d’albero. Amo la peluria nera sul torace e sul ventre. Amo il cazzo teso, la cappella rossastra su cui luccica una goccia. Amo i coglioni, grandi. Voglio accarezzarli e lo faccio, senza troppa delicatezza.

Matteo sussulta, ride, mi bacia e poi mi trascina in camera da letto.

Mi getta sul letto e mi salta addosso. Ci rotoliamo sul letto, ci baciamo, ci mordiamo, lottiamo. E poi Matteo avvicina la bocca al mio cazzo, inghiotte la cappella e si mette a succhiare. Io faccio lo stesso con lui e per un buon momento ce ne stiamo tutti e due molto concentrati nell’assaporare lo splendido boccone che abbiamo in bocca.

Poi Matteo si stacca e mi chiede:

- Che cosa ti piace fare, Nico?

- Tutto, con te tutto.

Matteo sorride.

- Ti amo, Nico.

- Anch’io ti amo.

Matteo mi volta sulla pancia e mi dice:

- Incomincio io. Il tuo culo mi ha fatto impazzire in queste ultime settimane. Poi ti prendi il mio, se ti va.

Matteo apre un cassetto, prende il preservativo e se lo mette. Siamo tutti e due impazienti. Matteo si bagna due dita ed inumidisce l’apertura. Poi avvicina la cappella, mi stringe tra le sue braccia, ed entra. Io grido:

- Matteo!

- Ti amo, Nico.

Matteo lavora con costanza ed io mi abbandono completamente alle sensazioni sempre più forti che mi assalgono, al piacere che dal mio culo si diffonde in tutto il corpo, alla stretta di queste braccia che mi avvolgono, ai morsi, ai baci. E il piacere cresce, si dilata, mentre Matteo ara il campo di buona lena. Urlo il suo nome, più volte e lui mi risponde con le parole, i baci, le carezze, le spinte.

E infine lo sento emettere un suono soffocato, che diventa più forte, mentre le spinte crescono di intensità.

- Nico!

Rimane dentro di me, un buon momento. È bellissimo rimanere così, sentire in culo il suo cazzo che ha perso rigidità e volume, ma ancora mi riempie, abbandonarsi alle sue carezze, che a tratti diventano una stretta vigorosa, alle parole che mi sussurra.

Poi Matteo esce da me e si stende a pancia in giù, allargando le gambe. Io mi metto a quattro zampe e incomincio a mordergli il culo. A tratti mordicchio, a tratti azzanno davvero, provocando gemiti. A un certo punto Matteo mi dice:

- Guarda che c’è ancora la torta, Nico, se proprio hai fame.

Lo ignoro e vado avanti. Ma il desiderio preme e allora prendo il preservativo, me lo infilo, gli divarico bene le natiche con le mani e avvicino la cappella al buco. Penso che sto per possederlo, che Matteo mi ama, che sono stato suo e ora lui sarà mio e mi sembra di impazzire di gioia.

Avanzo, piano: non voglio fargli male, anche se il desiderio preme e vorrei infilzarlo come un pollo allo spiedo. Lentamente spingo a fondo e mi sembra di essere in paradiso. Mi fermo, disteso sul suo corpo, il cazzo tutto dentro il suo culo. Lo accarezzo, sento la sua pelle calda sotto le mie dita, sento il suo odore di maschio. Lo amo, lo amo con tutto me stesso.

E poi il desiderio mi guida in una lunga cavalcata, prima lenta, poi un trotto che infine diventa un galoppo vorticoso. Mi sembra che il mondo esploda mentre vengo dentro di lui, gridando il suo nome.

Quando mi riprendo ci accarezziamo ancora a lungo, ci baciamo e lasciamo che il desiderio ci guidi in un secondo round.

Solo allora, sazi e felici, rimaniamo abbracciati sul letto.

Lentamente riprendo coscienza di tutto quanto è successo, delle parole dette. E mi sfugge:

- Matteo… ma tu non sei gay!

Detto un’ora fa, forse avrebbe avuto un senso. Adesso, dopo un’ora che facciamo l’amore, è idiota, ma oggi non posso chiedere ai miei neuroni prestazioni accettabili.  Matteo ride:

- Matteo non lo è, vive in un paese arretrato e pieno di pregiudizi. Ma Matthew lo è.

Poi scuote la testa, perché comunque ha capito il senso della mia affermazione (meno male che i suoi neuroni funzionano).

- Nico, ho avuto esperienze e storie con donne e con uomini. So benissimo che preferisco gli uomini ed è questo il motivo principale per cui con le donne non ha mai funzionato. Ma ho continuato a cercare, perché mi sarebbe piaciuto avere una famiglia e, sinceramente, prima di conoscere te, non avevo mai incontrato un uomo con cui avrei voluto condividere la vita.

- Quando mi hai invitato a casa tua, quella sera, la prima volta che ci siamo parlati…

Non ho completato la domanda, ma Matteo ha compreso (in questo momento posso dire che abbiamo un cervello in due: il suo).

- Non ero innamorato di te, non ancora. Avevo solo bisogno di qualcuno con cui parlare e tu eri la persona giusta. Ma la seconda sera, quando ti sono venuti gli occhi lucidi a raccontare di te e Marcello… a parte la voglia di prendere a pugni Marcello, ho capito che mi stava succedendo qualche cosa che non avevo previsto.

Capisco anch’io che cosa non aveva previsto: forse qualche neurone si è riattivato.

 

2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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