LA NUVOLA

 

 

        

II – LA BATTAGLIA

 

La nuvola sarebbe arrivata entro cinque giorni, una settimana al massimo, cancellando ogni forma di vita, come aveva fatto in gran parte del mondo. Prima di una settimana non sarebbe sopravvissuto nessuno in Europa, a parte quelli che avevano un bunker attrezzato, ma anche per loro non c’erano speranze. In America settentrionale avrebbero retto un po’ più di tempo, prima di essere uccisi dalla nuvola.

Alcuni avevano già preso la pillola distribuita dal governo: non reggevano l’angoscia della fine che si avvicinava. A Erik sembrava assurdo: perché rinunciare a vivere gli ultimi giorni? Si poteva ancora incontrare gli amici, scopare, lottare, camminare nei boschi, nuotare. E per morire c’erano modi migliori del veleno.

Loro del Martello di Thor avevano scelto un’altra strada. Avevano organizzato tutto il necessario e tra quattro giorni dopo avrebbero combattuto l’ultima battaglia. Ne avevano fatte diverse negli anni precedenti: ricostruzioni storiche che si svolgevano davanti a un pubblico numeroso.

In estate allestivano accampamenti, dove vivevano come guerrieri vichinghi. La gente veniva volentieri a visitarli e molti spettatori assistevano alle grandi battaglie, in cui i guerrieri si affrontavano. Alla fine di ogni battaglia  la gente fotografava i cadaveri dei guerrieri abbattuti, fino a che il suono del corno non annunciava la fine e i morti si rialzavano e tornavano all’accampamento. Lo spettacolo durava di solito una settimana e ogni giorno arrivavano nuovi spettatori.

Questa volta non ci sarebbe stato pubblico, su quello erano tutti d’accordo, e i cadaveri sarebbero stati veri. Sarebbero morti davvero in battaglia.

L’idea era stata di Grabe e molti avevano aderito entusiasti. Perché crepare con una fottuta pillola quando si poteva  morire combattendo?

Il problema erano naturalmente le armi: le spade che avevano erano smussate, per ridurre i rischi che qualcuno si ferisse davvero nei finti combattimenti. Occorreva renderle affilate e aguzze oppure trovarne altre. Per fortuna Lars, il fabbro, si era dichiarato disponibile.

Erik gli portò le venti spade il martedì mattina. La battaglia sarebbe stata venerdì, l’ultimo giorno sicuro: la nuvola sarebbe potuta arrivare già sabato.

Lars lo aiutò a scaricare e a portare le venti spade nell’officina. Le misero su uno dei tavoli.

- Allora, dici che è possibile ricavarne delle buone spade, per guerrieri intenzionati a uccidere?

Lars guardò le lame. Annuì.

- Certamente, te l’ho detto. Non è un problema.

- Puoi farlo per giovedì?

- Lo farò volentieri e in tre giorni saranno pronte, ma tu devi pagare. E ti costerà caro.

Lars sorrise mentre lo diceva.

Erik guardò Lars. Non aveva nessun problema a pagare: i soldi che aveva in banca ormai non servivano più a nulla. Ma che uso poteva farne, Lars? Sarebbe anche lui morto entro una settimana.

- Che cosa vuoi?

- Che tu provi una di quelle spade.

Erik non capiva.

- Che cosa intendi?

Lars sorrise e con la mano si indicò il ventre, sotto l’ombelico.

- Il primo colpo qui, ma dato con forza, fino a farmi uscire la punta dalla schiena, se ci riesci.

Poi spostò la mano al cuore.

- Il secondo colpo al cuore. Voglio sentire la mia morte, ma non voglio soffrire a lungo.

Erik fissò Lars. Il fabbro era stato chiaro, ma Erik voleva essere sicuro di aver capito esattamente.

- Vuoi che ti uccida? Preferisci morire così?

- Sì. È un buon modo per finire.

Erik si sentì a disagio. Non lo turbava il pensiero di uccidere Lars: era lui a chiederlo. Lo disorientò scoprire che lo desiderava. L’idea gli piaceva e questo non se l’aspettava.

- Non vuoi combattere anche tu? Puoi unirti a noi.

- No, non mi interessa.  Preferisco essere ucciso dal guerriero che mi paga il ferro con il ferro.

Lars sorrise. Anche Erik sorrise e annuì.

- Va bene. Come desideri.

Nei giorni seguenti Erik e gli altri definirono gli ultimi dettagli. La battaglia avrebbe visto venti guerrieri divisi in due squadre. I superstiti della squadra vincente sarebbero stati sacrificati agli dei. Vennero stabilite le due squadre e affidati i ruoli del sacerdote e dei suoi aiutanti. Nessuno sarebbe sopravvissuto.

 

Tre giorni dopo Erik ripassò da Lars. La bottega era chiusa ed Erik ebbe paura che il fabbro avesse cambiato idea: sarebbe stato un bel problema, perché senza le spade non avrebbero potuto combattere e non c’era il tempo per procurarsi venti lame. Suonò e Lars gli venne ad aprire. Era al lavoro, per cui indossava solo un paio di pantaloni molto bassi e sudava abbondantemente: rivoli gli scorrevano sul petto e sul ventre.

- Le spade sono pronte. Stavo finendo adesso di apportare qualche ritocco. Sono lame perfette, molto taglienti e appuntite. Devi fare attenzione nel trasporto, perché quando le prendi, se tocchi il filo rischi di ferirti.

Erik sorrise.

- Benissimo. Su di te si può sempre contare.

Lars gli fece vedere le armi, che ora erano davvero spade in grado di uccidere. Erik le esaminò con cura. Era pienamente soddisfatto.

- Quanto al pagamento… non hai cambiato idea?

- No, come pattuito.

- Va bene.

Lars sorrise e lo fissò:

- Non ti pesa farlo, vero?

Erik scosse il capo.

- No. Per nulla.

- Lo fai volentieri.

Non era una domanda.

- Forse sì.

- Benissimo. Mi fa piacere. E poi…

Si interruppe.

- Dimmi.

- Puoi fare quello che vuoi del mio corpo, tutto quello che vuoi.

Le parole di Lars disorientarono Erik.

- Che cosa intendi?

- Nulla. Voglio solo che tu ti senta libero di fare quello che avrai voglia di fare.

Erik non disse nulla.

Avvolsero ogni spada in un panno spesso, poi le caricarono nel baule del fuoristrada, lasciandone nell’officina solo una, poggiata sul panno che sarebbe servito per avvolgerla. Non dissero perché ne avevano lasciata una fuori: non era necessario, lo sapevano entrambi benissimo.

Rientrarono.

- Quando te ne vai, chiudi a chiave la porta. Le chiavi sono dentro la serratura. Meglio che nessuno mi trovi.

Erik annuì. Sì, era meglio che il cadavere non saltasse fuori, anche se ormai gli omicidi rimanevano impuniti perché non si facevano più indagini. Guardò Lars, che sorrideva. Ammirò la  tranquillità con cui andava incontro alla morte.

Lars sorrise e disse:

- Ora devi pagare. Venti spade, venti pezzi d’oro.

Eric sorrise.

- Prima voglio controllare se il lavoro è stato fatto bene.

- Ho lavorato con cura. Sono tutte buone lame.

Eric afferrò l’ultima spada. Sorrise e disse:

- Vediamo.

Aveva usato molte volte una spada e sapeva come maneggiarla. Non aveva mai ucciso ed era curioso di provare. Nei giorni precedenti aveva spesso pensato a questo momento e al pensiero il cazzo gli si tendeva.

- Eccoti.

Mosse rapidamente il braccio e infilò l’arma nel basso ventre di Lars, con tutta la forza che aveva. La punta uscì dalla schiena.

- Merda!

Lars barcollò. Appoggiò una mano sulla spalla del suo assassino per sostenersi. Erik sorrise. Non estrasse subito la lama. La sensazione era fortissima. Il cazzo era duro. Sarebbe rimasto a lungo così, ma non voleva far soffrire troppo Lars. Ritirò la lama e l’infilò nel petto, all’altezza del cuore, girandola in modo che non rimanesse bloccata tra le costole. Lars emise un gemito e si accasciò. Solo la spada infilata nel suo corpo gli impediva di cadere.

Erik ritrasse la lama e guardò il cadavere scivolare a terra.

Era la prima volta che uccideva un uomo. Gli era piaciuto. Ne avrebbe ucciso altri il giorno dopo. O forse sarebbe stato ucciso lui. In ogni caso sarebbe morto, ma preferiva riuscire a uccidere qualche avversario prima che lo fottessero. Guardò ancora il cadavere, il sangue e lo squarcio delle due ferite. Si chiese se non farsi una sega. Forse Lars aveva in testa quello quando aveva detto che poteva fare quello che voleva del suo corpo. O magari pensava che lui potesse fotterlo. O pisciargli addosso. O mutilarlo. Le possibilità erano molte. Poteva fare quello che voleva. Che cosa voleva? Non lo sapeva neanche lui. Aveva il cazzo duro.

Esitò un momento, poi decise di non fare niente. Avrebbe scopato, per l’ultima volta, in serata.

Tornando a casa ripensò all’omicidio che aveva appena commesso. Gli era piaciuto, molto. Non aveva rimorsi: l’aveva scelto Lars, che in ogni caso sarebbe morto entro due o tre giorni. Gli aveva permesso di morire come desiderava. Si rese conto che ripensando alla scena il cazzo gli si drizzava. Magari gli sarebbe successo anche il giorno dopo. Non gli sarebbe spiaciuto morire con il cazzo duro.

La sera scopò con Styr. Mentre lo inculava pensò al momento in cui aveva ucciso Lars.

 

L’indomani si presentarono puntuali all’appuntamento, in riva al mare, dove incominciava il sentiero che portava al promontorio. Era un tratto di costa poco battuto, perché difficile da raggiungere.

I guerrieri non erano in venti, ma in diciotto. Tre di loro si erano ritirati e Torleif, che in un primo momento aveva deciso di non partecipare, si era aggiunto. Oltre ai guerrieri c’erano il sacerdote e i suoi due aiutanti, Styr e Knut.

Si spogliarono e infilarono gli abiti con cui avrebbero combattuto. Poiché ormai faceva caldo, alcuni indossarono soltanto le braghe, altri si misero una casacca senza maniche.

Poi si avviarono lungo il sentiero e raggiunsero lo spiazzo sul promontorio: era un terreno pianeggiante, abbastanza esteso, che precipitava in mare su tre lati. C’era lo spazio per combattere, ma non si poteva indietreggiare troppo senza rischiare di cadere e sfracellarsi sugli scogli.

Nei giorni precedenti Henrik, Styr e Sigurd si erano occupati di preparare tutto il necessario: all’estremità del promontorio c’erano i pali orizzontali, sostenuti da altri pali verticali: lì sarebbero stati appesi i cadaveri. Poco lontano vi era l’altare, anch’esso di legno: un asse, su cui un uomo poteva stare disteso, fissato su sostegni. Tutti gli elementi in legno erano decorati: Sigurd il falegname aveva riutilizzato i materiali degli accampamenti e lavorato senza interruzione per completare l’allestimento.

 

Si disposero in due file opposte. Si guardarono. Alcuni apparivano sorridenti e baldanzosi, qualcuno era molto concentrato. Nessuno mostrava paura.

Torgil, il sacerdote, suonò il corno: il segnale della battaglia.

Si avventarono gli uni sugli altri.

 

Erik voleva uccidere, voleva provare di nuovo la sensazione fortissima che gli aveva dato uccidere Lars. La sua irruenza rischiò di segnare la sua fine: nel primo scontro, con Brage si scoprì. Il suo avversario avrebbe potuto ucciderlo facilmente, ma Brage esitò: non aveva mai ucciso un uomo ed ebbe un momento di incertezza. Fu solo un attimo, ma a Erik fu sufficiente per rimettersi sulla difensiva. Quando, dopo alcune schermaglie, ebbe la possibilità di colpire, non esitò: affondò la spada nel petto di Brage, con tutte la sua forza. Come aveva fatto con Lars, riuscì a spingerla fino a che la punta non uscì dalla schiena del suo avversario, che lo guardò incredulo, poi sorrise e, quando Erik estrasse la lama, cadde a terra.

In quel momento Sigurd gli fu addosso ed Erik fece appena in tempo a parare il colpo, che lo prese di striscio al braccio destro. Balzò indietro e cadde a terra. Sigurd alzò la spada per calargliela sul collo, ma Erik si sollevò sulle ginocchia e gli infilò la lama nel basso ventre. Sigurd strabuzzò gli occhi e barcollò. Lasciò cadere l’arma. Erik si rialzò e lo finì colpendolo al cuore. Poi finì anche Brage, che agonizzava.

Ora gli era diventato duro. Uccidere era bellissimo.

 

La battaglia durò una mezz’ora. Erik uccise ancora Geir e finì Finn, che Erlend aveva colpito prima di essere ucciso da Arvid.

Alla fine del combattimento erano rimasti in due: Erik e Olaf. C’erano sedici cadaveri sul campo. Erik guardò i corpi. L’erezione non accennava a calmarsi, era quasi dolorosa.

- Abbiamo vinto. Li abbiamo uccisi tutti. La battaglia è conclusa.

Olaf scosse la testa.

- No, Erik. Non ho voglia di essere sacrificato. Preferisco essere ucciso in battaglia da un guerriero

Erik lo guardò e sorrise.

- Immagino di essere io quel guerriero, visto che non ne vedo altri intorno.

- Esatto, ma bada: mi batterò davvero, perché è vero che preferisco morire ucciso da te che sacrificato, ma mi piacerebbe molto ucciderti.

Erik rise.

- Per me va benissimo. Tra poco sarò morto. Che mi uccida tu o che mi tagli la gola il sacerdote, è lo stesso.

Fu uno scontro accanito: Olaf si difese con vigore e più volte mise in difficoltà Erik. Alla fine però la determinazione di Erik e il desiderio di morire in battaglia di Olaf portarono alla naturale conclusione dello scontro. Erik ferì Olaf al braccio sinistro e questi lasciò cadere la spada, che non poteva più reggere.

Olaf sorrise. Era a torso nudo e ansimava. Con il braccio destro si indicò il ventre, un gesto simile a quello che aveva fatto Lars. Erik annuì.

Colpì con forza e per un momento la sensazione fu tanto forte che pensò che sarebbe venuto. Olaf barcollò e quando Erik estrasse la spada cadde in ginocchio. Erik gli poggiò una mano sulla spalla e gli trapassò il cuore.

La battaglia era finita. Ora Styr e Knut avrebbero sistemato i cadaveri. Erik aveva ancora una mezz’ora da vivere, prima del sacrificio.

I due aiutanti spogliavano ogni cadavere, poi lo appendevano a testa in giù a uno dei due pali orizzontali sostenuti da quelli verticali. Da una parte la squadra di Erik, sette corpi; dall’altra la squadra avversaria, otto corpi.

Styr e Knut avevano finito.

Erik li guardò i cadaveri. Quindici corpi nudi, di maschi vigorosi, che avevano trovato la morte in battaglia. Alcuni erano morti con il cazzo mezzo duro.

C’era lo spazio per appendere anche il suo cadavere.

Avevano avuto tutti la morte che desideravano. Erik era contento di aver ucciso quattro guerrieri della squadra avversaria e Olaf. Forse avrebbe preferito essere ucciso anche lui in battaglia, ma anche essere il vincitore gli piaceva.

Erik si spogliò completamente. L’erezione era calata. Si mise davanti al primo cadavere appeso a un’estremità della struttura e incominciò a pisciare. Non aveva svuotato la vescica prima del combattimento, come facevano ogni volta quando combattevano, per evitare che un colpo accidentale facesse scoppiare la vescica. Se fosse successo non sarebbe cambiato molto: lo avrebbe finito uno dei guerrieri. Diresse il getto sulla faccia di Brage e poi proseguì, spostandosi, in modo da pisciare sui visi di tutti gli uomini appesi. Torgil e i due aiutanti non dissero nulla. Erik aveva vinto e aveva il diritto di oltraggiare i corpi degli avversari uccisi.

Quando ebbe finito Erik si accarezzò il cazzo, che gli si irrigidì in fretta. Allora aprì l’anello che aveva portato con sé, appeso alla collana che aveva al collo, e lo chiuse alla base del cazzo: sarebbe crepato con il cazzo duro. Poi applicò l’altro anello ai coglioni. Guardò ancora i cadaveri appesi, guardò il posto in cui sarebbe stato appeso il suo, poi si voltò.

 

Raggiunse l’altare e si distese. L’asse era un po’ inclinato, per cui la testa era più in basso rispetto ai piedi. Il sangue sarebbe defluito, riempiendo la coppa che Torgil aveva posato su uno sgabello all’estremità dell’altare.

Erik guardò l’ascia nelle mani del sacerdote, la lama che gli avrebbe reciso il collo, dandogli la morte.

Lars alzò l’ascia, la appoggiò sul petto di Erik, poi la sollevò e la calò con un movimento deciso, che squarciò il collo di Erik, senza recidere completamente la testa.

Il dolore fu violento, ma di breve durata. Il guerriero sprofondò nel nulla.

 

Styr e Knut presero il cadavere e lo portarono ai pali. Lo appesero accanto agli altri. Era l’unico a non avere grandi ferite sul corpo, a parte quella al collo, che sembrava una grande bocca aperta. Era anche l’unico ad avere il cazzo perfettamente teso.

 

Tornarono da Torgil.

Styr si distese sull’altare e Torgil tagliò anche a lui la gola. Knut, che era molto forte, non ebbe difficoltà a trasportare e attaccare il corpo di Styr accanto agli altri.

Rimaneva solo Knut. Se Knut fosse stato sacrificato sull’altare, Torgil non sarebbe riuscito a sollevarlo e appenderlo da solo, per cui Knut, come avevano deciso, si arrampicò sul palo, si legò la corda ai piedi e si lasciò cadere. Ora penzolava, appeso per i piedi, unico vivo tra diciannove cadaveri.

Torgil si avvicinò e con la lama gli recise la carotide. Il corpo ebbe un breve movimento convulso, prima di rimanere immobile.

 

Torgil guardò i venti cadaveri appesi. La nuvola avrebbe rallentato, forse bloccato completamente, la decomposizione: i corpi visibili attraverso le telecamere ancora funzionanti negli altri continenti apparivano intatti; gli scienziati dicevano che anche i microorganismi venivano uccisi dalla nuvola, per cui i cadaveri non si decomponevano. Sarebbero rimasti quei venti corpi nudi di fronte al mare, venti maschi vigorosi.

Torgil sorrise. Raggiunse l’estremità della scogliera. Il sole stava calando e a sud si vedeva la massa della nuvola che ormai copriva una vasta area del cielo. Quando il sole scomparve oltre l’orizzonte, Torgil fece due passi avanti e si lasciò cadere nell’abisso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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