Burj al-Rus, la torre dei teschi di Ferdinando BDB e Carlos Hidalgo
Nello stanzone dove sono
stati riuniti i comandanti spagnoli c’è un odore forte di sudore e di corpi
non lavati: troppi uomini accatastati in un locale dove il calore è
opprimente e si respira a fatica. Sono quasi tutti nobili: è
ben difficile che un uomo del popolo raggiunga una posizione di comando nella
marina spagnola. Hanno un atteggiamento altero, come se non fossero stati
sconfitti e non fossero nelle mani dei turchi, che potrebbero infliggere loro
i peggiori supplizi. Contano di potersi riscattare, perché di certo le loro
famiglie sono disposte a pagare qualsiasi cifra per liberarli. E in ogni caso
non vogliono mostrare nessun segno di debolezza davanti al nemico. Per quanto
siano stati spogliati dell’armatura e i loro indumenti siano spesso sporchi
di sangue, polvere e fango, hanno tutti un portamento fiero, anche quelli che
sono a torso nudo. Sono il fiore dell’aristocrazia spagnola. Solo Rafael Hernández e Salvador Carrasco,
comandante e vice della Luz de los mares, sono uomini del
popolo. Gli altri comandanti li ignorano, anche se hanno combattuto insieme a
loro e i due hanno dato prova di grande valore. I turchi li interrogano, uno
per uno. A condurre l’interrogatorio è un ufficiale che parla molto bene il
castigliano. Ogni tanto si consulta con un funzionario, evidentemente di
grado superiore. - Il tuo nome. - Álvaro
de Sande. L’anziano comandante, che
ha guidato l’ultima resistenza, non mostra nessun segno di paura. Benché
abbia ormai settant’anni, è un uomo forte e deciso. Se i comandanti fossero
stati tutti come lui e non come quel vigliacco di Giovanni Andrea Doria,
fuggito con le sue navi, forse l’attacco turco non si sarebbe concluso in
modo così disastroso. - Chi fu tuo padre? Il comandante sembra
drizzarsi ancora di più, mentre risponde: - Juan de Sande, secondo signore di Valhondo. L’interrogatorio sembra
avere un unico scopo: avere conferma che questi prigionieri siano in grado di
pagare un consistente riscatto. Se qualcuno non potesse riscattarsi, sarebbe
venduto come schiavo: una vita di stenti, destinata spesso a concludersi con
una morte prematura, sulle navi, in miniera o nei campi. Dopo Álvaro
de Sande si fanno avanti Fernando Mendoza de Alvarado y Zúñiga e il fratello
Juan. I due figli del duca di Casa Grande sono i più importanti tra i nobili
catturati. La loro famiglia vanta un’origine molto antica: il capostipite
combatté a fianco di Fernando il Grande, re di Castiglia e León nell’XI
secolo. Il loro padre, settimo duca di Casa Grande, sostenne Carlo, re e poi
imperatore, nelle lotte che dovette affrontare per imporsi, ed è attualmente
uno dei consiglieri più fidati di Felipe II, figlio di Carlo. Rafael li guarda. Sono due
begli uomini, molto diversi l’uno dall’altro. Fernando deve avere trentacinque-quarant’anni e i capelli, nerissimi come
quelli del fratello, sulle tempie mostrano striature di grigio. Ha un viso
dai lineamenti regolari e il corpo forte di un guerriero. La sua camicia è
lacerata e lascia vedere il torace possente, ricoperto da una peluria fitta e
molto scura, che intorno ai capezzoli incomincia a ingrigire. È un maschio
vigoroso e un soldato coraggioso, che non indietreggia davanti a nulla. È considerato
uno dei migliori comandanti degli eserciti spagnoli. Juan deve aver superato da
poco i vent’anni e la sua è una bellezza che colpisce immediatamente. Il viso
ovale, dai tratti molto regolari, è incorniciato dalla barba, di un nero
corvino, come i capelli. Anche gli occhi sono scuri e le labbra carnose. Il
corpo è forte, ma ha un’eleganza naturale che il fratello maggiore non
possiede. Ha studiato in seminario e, anche se non ha ancora preso i voti, si
parla di lui come del futuro vescovo di Granada: carriera militare per il
maggiore, carriera ecclesiastica per il cadetto. Rafael prova nei suoi
confronti un’avversione profonda: non ne sopporta l’alterigia e il disprezzo
con cui tratta chiunque non sia nobile. Juan Mendoza è convinto di essere Dio
in terra perché appartiene alla più importante famiglia del regno e suo padre
è il duca di Casa Grande. L’ufficiale si rivolge al
fratello maggiore: - I vostri nomi. - Fernando e Juan Mendoza
de Alvarado y Zúñiga. L’ufficiale alza la testa
e guarda fisso i due fratelli. Sul suo viso compare un sorriso. A Rafael
sembra che sia ironico, ma forse è solo un’impressione. - Chi è vostro padre? - Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga, settimo duca
di Casa Grande. L’ufficiale annuisce. Non
chiede altro, non ne ha bisogno: sa di avere davanti i rampolli della più
importante famiglia nobile di Spagna. - Potete andare. I due fratelli si
allontanano, a testa alta, e si mettono davanti agli altri nobili ammassati
nel locale. Rafael mormora a Salvador,
pianissimo, perché nessuno lo senta: - Li detesto, soprattutto
il cadetto. Salvador ride, una risata
aspra, poi risponde: - Se ne sta lì impettito,
come se tutti dovessero rendergli omaggio. Intanto l’ufficiale ha
detto qualche cosa a uno dei soldati che gli stanno vicino. Questi lascia lo
stanzone. Salvador e Rafael appaiono
impassibili, ma sanno benissimo di rischiare molto più degli altri. La loro
storia è diversa da quella dei nobili riuniti in questa stanzone: per loro la
sconfitta e la cattura possono significare una morte orribile. Salvador era un soldato,
che scelse di disertare dopo aver percosso un ufficiale, in seguito a un
violento diverbio. Si unì all’equipaggio di una nave di pirati cristiani che
attaccavano imbarcazioni e villaggi arabi e turchi, in tempo di pace come in
tempo di guerra, senza nessuna protezione reale. Rafael, marinaio della
flotta spagnola, fu catturato dai turchi durante una spedizione e rimase
prigioniero per tre anni. Quando riuscì a fuggire, approfittando di
un’incursione dei pirati spagnoli, scelse di non rientrare in Spagna e si unì
all’equipaggio della nave su cui viaggiava Salvador. I due si distinsero per il
loro coraggio in molte imprese, tanto che molti pirati chiedevano che Rafael
prendesse il posto del comandante. La faccenda fu risolta attraverso un
duello, in cui Rafael infilzò la spada nel fegato del vecchio comandante e
poi lo gettò agonizzante agli squali. Rafael ha raggiunto una
notevole fama: lo chiamano il Lupo di Valencia ed è uno dei pirati più temuti
dai turchi, perché è astuto e spietato. Salvador, detto il Toro andaluso, è
ugualmente temuto, forse anche di più, perché la ferocia di cui dà prova
nell’uccidere è nota. Di lui dicono che fotta gli uomini che ha ucciso. Nel tempo i due hanno
accumulato una fortuna con le loro imprese temerarie. Avrebbero lasciato
volentieri la pirateria per godersi le loro ricchezze, ma non potevano
tornare in patria perché nei territori spagnoli erano considerati disertori.
Questo li ha spinti ad accettare l’invito del comandante della spedizione,
Sancho de Leyva, che ha promesso loro il perdono
reale se si fossero uniti alla flotta spagnola nella spedizione per
conquistare Tripoli. Sembrava una buona offerta: la possibilità di vivere in
pace nella propria terra, in cambio dell’appoggio dato all’impresa. Ma le navi sono partite in
grande ritardo, dando ai turchi il tempo di organizzarsi. Prendere Tripoli si
è rivelato impossibile e la flotta ha ripiegato sull’isola di Los Gelves, Gerba, dove i soldati sono sbarcati senza
difficoltà e hanno incominciato a costruire una fortificazione difensiva. I
turchi però sono arrivati prima che il forte fosse ultimato, ogni resistenza
si è rivelata vana e quando i pozzi dell’acqua sono stati occupati dai nemici
non è rimasta altra via che la resa. Ora i sopravvissuti sono
prigionieri. Possono considerarsi fortunati, perché i soldati morti sono
migliaia. I comandanti possono riscattarsi, pagando la somma richiesta. Per
Rafael e Salvador il problema è un altro: se qualcuno riconoscesse il Lupo di
Valencia o il Toro andaluso, per entrambi non ci sarebbe via di scampo.
Verrebbero impalati. Quando arriva il suo
turno, Rafael nasconde l’angoscia che prova. - Il tuo nome. - Rafael Gutiérrez. Rafael mente, perché che il
Lupo di Valencia si chiami Hernández è noto. Dare
un nome falso non è un problema: anche l’uomo che amministra i beni di Rafael
si riferisce a lui con quel cognome, per evitare un sequestro da parte delle
autorità spagnole. - Chi fu tuo padre? - Fernando Gutiérrez, mercante di panni. - Non sei nobile? - No, sono un popolano. - Come mai sei uno dei
comandanti? - Per il valore dimostrato
in diverse occasioni. A Mostaganem venni nominato
comandante. - La tua famiglia può
pagare un riscatto? - Non ho più famiglia, ma
ho di che pagare per me e per il mio vice. Un uomo di fiducia ha in deposito
le mie proprietà. L’uomo pone ancora alcune
domande, poi congeda Rafael. A Salvador chiede solo il nome e la famiglia: il
riscatto sarà pagato da Rafael. Salvador e Rafael celano
la loro esultanza sotto una maschera di indifferenza. Ce l’hanno fatta.
Nessuno sospetta che loro sono due pirati. Ritornano nell’angolo dove
si sono messi: un posto un po’ appartato, poco visibile da chi entra ed esce.
Se i nobili non si tenessero a distanza, si nasconderebbero in mezzo a loro,
ma nessuno ha piacere di averli vicino. Nascondersi sarebbe
comunque difficile, perché Salvador è molto alto e supera gli altri di almeno
una spanna. Questo colosso, calvo, con la spalle larghe e il corpo possente,
non passa certo inosservato. Nella stanza sono arrivati
tre uomini. Parlano un momento con l’ufficiale che sta interrogando i
prigionieri e poi si mettono al suo fianco. Quando gli interrogatori sono
finiti, i tre uomini fanno entrare sei soldati e passano in rassegna i
comandanti spagnoli. Ne indicano qualcuno con un gesto della mano e gli
uomini scelti vengono fatti spostare su un’altra parete. Salvador non capisce. - Che cazzo fanno, Rafael? Rafael è stato tre anni
prigioniero dei turchi e ne conosce molto meglio gli usi, oltre a
padroneggiarne la lingua. - Scelgono qualche uomo
giovane e bello per il piacere dei capi. - Ma… li prendono tra i
comandanti? Tra i nobili? Ci sono tanti soldati… - I culi della plebaglia
cristiana sono a disposizione dei soldati turchi. Per gli ufficiali superiori
ci vuole un culo nobile. Fottere un culo nobile dà più gusto. Vuoi mettere il
culo del bel José de Altacuesta con quello di un
soldato qualunque? Il tono di Rafael è
sarcastico. Salvador sorride e dice: - Sono contento di non
essere nobile. Poi aggiunge: - Spero che prendano i due
Mendoza. Mi piacerebbe. Gli farebbe abbassare un po’ la cresta. Tra l’altro
Juan è anche un bell’uomo. Io glielo metterei in culo volentieri. Dopo un momento di pausa,
Salvador conclude: - Sì, sarebbe un piacere
farmelo succhiare e poi incularlo. Ma i due fratelli non
vengono scelti. Sono stati selezionati
cinque comandanti, tra i più giovani. A Salvador non dispiace che vengano
fottuti. Il malcelato disprezzo con cui lui e Rafael sono stati trattati
dagli altri lo infastidisce, anche se sa che rientra nella mentalità dei suoi
connazionali. I cinque vengono
accompagnati fuori. Non capiscono perché li separano dagli altri, ma non
oppongono nessuna resistenza. Se sospettassero ciò che li aspetta, si
ribellerebbero, ma per loro non cambierebbe nulla: non hanno modo di sfuggire
alla loro sorte. C’è un via vai di uomini
nella stanza. Poi i soldati vengono a prendere i prigionieri a gruppi. Rafael
ha capito che i comandanti verranno portati a Costantinopoli, dove saranno
tenuti fino al pagamento del riscatto. Lo stanzone si svuota. Ora ci sono
solo più i due pirati, i fratelli Mendoza e sette-otto altri nobili. Un soldato indica a
Salvador e Rafael di avvicinarsi agli altri. I due obbediscono: non possono
continuare a rimanere in un angolo, adesso che il salone non è più pieno. Juan Mendoza li guarda con
disprezzo e si sposta, per non averli troppo vicino. Dice, ad alta voce: - Mescolati con questa
feccia… che vergogna! Fernando non dice nulla.
Juan prosegue: - Due pirati. Il Lupo di
Valencia e il Toro… Juan si interrompe:
Fernando gli ha messo una mano sul braccio e gli dice, piano: - Zitto, qualche soldato
potrebbe sentirti. In effetti sentendo le
parole di Juan, uno dei soldati che è venuto a prendere alcuni dei nobili
rimasti si è fermato e si è voltato a guardare Rafael e Salvador. Salvador si sente gelare.
Se il soldato capisce lo spagnolo e loro vengono riconosciuti è la fine: li
aspetta il palo, la più atroce delle morti. Per colpa di questi fottuti
Mendoza! Il soldato esce. Poco dopo entra un
ufficiale con quattro guardie. Parla con l’uomo che ha condotto gli
interrogatori e che gli indica i fratelli Mendoza. L’ufficiale si avvicina ai
due e ordina loro di seguirlo. I fratelli obbediscono.
Sono certi che li aspetti un trattamento di favore, che ritengono gli sia
dovuto per il rango della loro famiglia. Si immaginano ospiti del governatore
dell’isola, in attesa di essere portati nel palazzo del sultano a
Costantinopoli. Juan in particolare già si vede seduto sui cuscini a
conversare amabilmente con Piyale Pascià, che ha
guidato le truppe turche alla vittoria sugli spagnoli. Certamente il
comandante turco riconoscerà il loro valore e forse darà loro un dono di
ospitalità primi di inviarli a Costantinopoli. Intanto un altro soldato è
entrato. Si ferma davanti ai due pirati e li fissa, poi si allontana. Sulla
porta si volta ancora a guardarli, un ghigno sulle labbra. - È finita, Salvador.
Siamo fottuti. - Lo penso anch’io. Poco dopo l’uomo ritorna
con altri sei soldati, tra cui un ufficiale. Vanno direttamente da Rafael e
Salvador. Uno sorride e dice: - Sì, sono loro, il Lupo
di Valencia e il suo vice, il Toro andaluso. Le parole dell’uomo sono
una condanna senza appello. Per quanto coraggioso, Rafael ha l’impressione
che gli manchi il fiato. Merda! Merda! Merda! I soldati legano le mani
dei due prigionieri dietro la schiena, poi li afferrano e li trascinano via,
mentre gli ultimi nobili rimasti nella stanza li guardano, indifferenti,
qualcuno anche compiaciuto: non hanno mai sopportato questo pirata e il suo
vice. Avranno la fine che si meritano. Fuori dallo stanzone, la
luce è accecante e il calore intollerabile: sono le ore centrali del giorno.
Si forma una piccola carovana, con una ventina di soldati e due ufficiali,
tutti montati su dromedari. Solo i due prigionieri devono muoversi a piedi. La colonna si mette in
marcia, con Salvador e Rafael nel mezzo. Camminano sotto un sole cocente. In
breve i loro abiti sono fradici di sudore. Salvador ha l’impressione che la
sua testa, priva di capelli, bruci. Il mondo sembra oscillare davanti a lui.
A un certo punto cade in ginocchio. A un ordine di un ufficiale, uno dei
soldati gli rovescia in testa l’acqua di un recipiente, poi prende un
fazzoletto, si abbassa i pantaloni e orina sul tessuto. Quando è bene
impregnato di piscio, lo mette in capo al pirata. Salvador si rialza e la
marcia riprende. Quando infine arrivano al
forte detto Burj-es-Suk, la Torre del mercato,
vicino alla costa, i due prigionieri sono esausti. Li fanno svestire dei loro
abiti, lasciandoli nudi, poi li fanno entrare in uno stanzone spoglio, dove
ci sono solo due tavoli. I due prigionieri sono portati ognuno di fronte a
uno dei tavoli, poi vengono forzati ad appoggiare il petto sul ripiano,
mentre i soldati gli divaricano le gambe e legano le caviglie alle zampe
posteriori del tavolo. Altre corde bloccano le braccia, legando i polsi alle
zampe anteriori dei tavoli. Salvador non comprende. - Che cazzo succede? Rafael ha capito. - Ce lo mettono in culo.
Oggi avremo modo di gustare tutti i cazzi della guarnigione di questo fottuto
forte. Salvador ha uno scatto.
Cerca di liberarsi dalle corde, ma è legato ben stretto. Non vuole subire
questo sfregio: non se l’è mai preso in culo. - Merda! No! Merda! - Non cercare di
resistere, Salvador. Ti spaccherebbero i coglioni, ti infilerebbero un
coltello nel buco del culo per impedirti di stringere e poi ti fotterebbero
lo stesso. Salvador digrigna i denti.
Il suo corpo e la sua mente rifiutano lo sfregio che lo attende, ma non ha
modo di sottrarsi. Nella stanza entrano
numerosi soldati. Ridono e fanno battute, guardando i due prigionieri. Salvador
non capisce che cosa dicono, ma sa benissimo che stanno facendosi beffe di
loro e pregustando ciò che sta per accadere. Non può fare nulla. Per
un po’ non succede niente, poi arrivano due ufficiali. Uno dev’essere il comandante
del forte e l’altro il suo vice. Il comandante è un colosso, alto come
Salvador, mentre il suo vice è tarchiato. I due si mettono dietro i
prigionieri. I soldati ridono e incoraggiano i due ufficiali. Girando la
testa Salvador può vedere il comandante che si appresta a inculare Rafael. Si
è tolto la tunica e ha abbassato i pantaloni. Ha un cazzo grosso e duro, che
svetta contro la fitta peluria nera del ventre. Mentre lo guarda, Salvador
sente le mani dell’altro ufficiale posarsi sulle sue natiche. Rafael
gli dice: -
Non cercare di resistere, Salvador! Un
attimo dopo l’uomo preme con la cappella contro il buco e lo forza, spingendo
il cazzo ben dentro, fino a che i coglioni sbattono contro il culo del
pirata. Il dolore è violento: l’ufficiale è entrato con brutalità. L’uomo
spinge con forza, avanti e indietro, assaporando il piacere che gli trasmette
questo culo caldo. È felice di stare fottendo un bastardo infedele, un pirata
che ha saccheggiato villaggi e castelli, massacrato intere guarnigioni e
spesso ha stuprato gli ufficiali catturati. Ora questo figlio di puttana ha
ciò che si merita. Quando
infine viene e si ritira, sul cazzo ha un po’ di sangue. Vedendolo sorride. Salvador
ha abbassato il capo. Il dolore è stato bestiale, ma altrettanto forti sono
l’umiliazione e la rabbia. L’uomo passa davanti, il grosso cazzo circonciso
ancora gonfio di sangue. Ride e dopo un momento, quando ormai il cazzo non è
più duro, incomincia a pisciare in faccia a Salvador. Il pirata chiude gli
occhi. Un
soldato si avvicina all’ufficiale che ha appena finito di pisciare su
Salvador e gli dice qualche cosa, ridendo. Salvador lo guarda: è alto e forte
e alquanto dotato. Merda! L’uomo passa dietro. Anche lui entra con violenza e
il dolore esplode. Salvador stringe i denti. L’uomo lo fotte a lungo. Quando
infine viene, si ritrae e dal culo del Toro cola un po’ di sborro, misto a
sangue. Uno
dopo l’altro gli uomini lo prendono. Per tutto il pomeriggio i soldati turchi
fottono i pirati, gli pisciano in faccia e sulla testa, li deridono. Dal culo
di Salvador il sangue continua a colare, misto a molto seme. Il dolore
diviene sempre più forte. Ogni tanto Salvador guarda Rafael, che sta subendo
lo stesso oltraggio. Per il Lupo di Valencia lo
stupro è meno doloroso: è stato per tre anni schiavo dei turchi ed è stato
spesso posseduto dal suo padrone, che lo offriva anche agli amici. E da otto
anni è il compagno di Salvador, a cui si offre senza remore, nella sua
cabina. Il formidabile cazzo del Toro andaluso ha dilatato l’apertura del
Lupo, che accoglie senza grande sforzo i cazzi circoncisi dei musulmani. I
ripetuti stupri provocano comunque alcune lesioni: anche a Rafael il culo fa
male, parecchio, e ne esce un po’ di sangue. Infine vengono slegati.
Camminano a fatica, stringendo i denti per il dolore, e il movimento fa
scendere dal culo altro sborro misto a sangue. Non hanno molta strada da
fare: vengono portati in una cella vicina. È un locale piccolo, puzzolente e
completamente spoglio: non c’è neppure un tavolaccio, un pagliericcio o uno
sgabello. Solo un bugliolo maleodorante. Rafael si siede a terra.
Salvador di fianco a lui. Per un po’ rimangono in silenzio, poi il Toro dice: - Merda! - Era la prima volta,
Salvador, vero? - Sì, merda! - Quando sarà il palo a
entrati in culo, quello che hai subito oggi ti sembrerà uno scherzo. - Merda! Rimangono in silenzio,
esausti per la marcia sotto il sole e lo stupro. La sera una guardia porta
loro pane e acqua. Dopo aver mangiato, si
stendono per dormire sul pavimento. È sporco, ma non gliene importa: sono
pirati, non nobili abituati a vivere nelle comodità. I fratelli Mendoza sono
stati condotti nel palazzo dove risiede Piyale
Pascià. Vengono introdotti nella sala delle udienze, un vasto locale in cui
il pascià siede su una specie di trono, collocato su una piattaforma. Li
costringono a inginocchiarsi, vincendo la loro resistenza: non vorrebbero
inchinarsi a un uomo che, per quanto rappresenti il sultano, non può certo
competere con i Mendoza per nobiltà. Piyale Pascià sorride, ma a Fernando Mendoza
pare un sorriso feroce. L’uomo incomincia a parlare, ma solo il maggiore dei
fratelli è in grado di capire abbastanza il turco. C’è un interprete, che è
evidentemente uno spagnolo catturato dai turchi e convertito: per i Mendoza
un traditore, a cui i fratelli sputerebbero volentieri in faccia. Mentre il comandante turco
parla, Fernando impallidisce. Spera di aver capito male, ma il traduttore
conferma - Sua eccellenza Piyale Pascià vi dà il benvenuto. Sua eccellenza aveva due
figli. Uno venne ucciso da vostro padre durante l’attacco a Minorca, il
secondo fu catturato durante la battaglia e vostro padre lo fece squartare.
Sua eccellenza è felice di poter disporre di voi. Potrà vendicare i suoi
figli. I Mendoza sono coraggiosi,
ma le parole del pascià sono un colpo tremendo: conoscono la ferocia di cui
sanno dar prova i turchi. Potrebbero impalarli, scorticarli, squartarli. Fernando dice: - Abbiamo combattuto
lealmente. L’interprete traduce la
parole del nobile e poi quelle del pascià: - Anche mio figlio Nehir aveva combattuto lealmente. Ma venne squartato. A un cenno di Piyale alcuni soldati si impadroniscono dei prigionieri e
li scortano fuori dal palazzo. Un gruppo di soldati, con un ufficiale e
l’interprete, li accompagna al forte Burj-es-Suk. Eman, l’interprete che un tempo si chiamava
Alonso, parla a lungo con il comandante del forte. Piyale
Pascià vuole umiliare i fratelli Mendoza, spezzandone la resistenza. I due prigionieri vengono
fatti scendere in un locale spoglio. È lo stesso stanzone dove Rafael e
Salvador sono stati stuprati dai soldati, poche ore prima dell’arrivo dei
Mendoza. Fernando e Juan guardano perplessi i due tavoli e le pozzanghere di
piscio per terra. Osservano disgustati, senza capire. Non sospettano che
mescolato al piscio c’è lo sborro dei soldati e un po’ di sangue dei due
pirati. La voce dell’interprete
risuona come una frustata: - Spogliatevi. Fernando lo guarda. Si
chiede se rifiutarsi, ma non ha senso. Incomincia a spogliarsi. Juan lo
imita. Quando hanno solo più indosso i mutandoni, si fermano. Eman guarda questi due nobili, il corpo vigoroso e
possente di Fernando, quello più delicato e aggraziato di Juan. - Toglietevi tutto. - Ma… - Non c’è nessun ma. O lo
fate voi o lo fanno i soldati. Fremendo, Fernando e Juan
finiscono di spogliarsi. Eman osserva che Fernando
è molto ben dotato, mentre il fratello sembra esserlo di meno. I soldati
presenti si scambiano battute indicando i due cazzi non circoncisi. Scuotono
la testa e si mostrano disgustati. I due fratelli si coprono i genitali con
le mani. Eman sorride, pensando a ciò che
succederà. I Mendoza vengono forzati
ad avvicinarsi ai tavoli e legati come Rafael e Salvador prima di loro. Juan
chiede al fratello: - Che cosa vogliono fare? Fernando non lo sa. - Penso che ci
fustigheranno. - Fustigarci? Come due
schiavi? - Piyale
Pascià vuole vendicarsi. Fustigarci è un modo per umiliarci. - Non può fare questo! - Può fare tutto ciò che
vuole. Siamo nelle sue mani. La stanza si riempie di
altri soldati che ridono e scherzano tra di loro. Sono euforici: oggi è una
grande giornata, prima i culi di due pirati, adesso addirittura quelli di due
nobili. Non capita tutti i giorni di fottere un culo aristocratico. Tra
l’altro pare che questi due siano davvero pezzi grossi, uno era tra i
principali comandanti. Ascoltando ciò che dicono
i soldati, Fernando intuisce ciò che li aspetta. Spera di aver compreso male:
non è mai stato penetrato e l’idea gli fa orrore. E Juan… non possono
stuprarlo, no! Ogni dubbio scompare
presto. Dietro di loro si mettono il comandante del forte e il suo vice.
Girando le testa, Fernando non riesce a vedere l’uomo che sta per fotterlo,
ma scorge invece quello che si appresta a inculare Juan, i pantaloni
abbassati, il grosso cazzo duro proteso in avanti. Juan non sospetta nulla e
sentendo qualche cosa premere contro il buco del suo culo non capisce subito.
Solo quando il cazzo del vicecomandante entra dentro di lui, comprende. Per
la prima volta viene violato. Alza la testa e grida: - No, no! Si dibatte, ma le corde
che lo bloccano gli impediscono ogni resistenza e gli è impossibile
liberarsi. Non può accettare di essere stuprato: soldati maomettani, saraceni
maldetti, che osano violare il corpo del figlio del duca di Casa Grande,
futuro vescovo di Granada! Juan grida, insulta,
maledice i turchi, ma il suo dibattersi alimenta solo l’ilarità della
soldataglia. Fernando non dice nulla,
non si agita: sa che sarebbe inutile e darebbe solo soddisfazione ai loro
aguzzini. Il dolore è violento, ma a schiantarlo è l’umiliazione: fottuto, da
un maledetto maomettano. E altri seguiranno.
Dopo il vicecomandante, è
il turno dei soldati. Uno piscia sulla testa di Juan, seguito da un altro.
Juan trema e a un certo punto incomincia a piangere. Avrebbe affrontato la
morte con coraggio e dignità, ma quello che gli succede è più di quanto possa
reggere. Fernando vorrebbe dirgli
qualche cosa, ma non sa trovare le parole. Rimane impassibile durante i
ripetuti stupri, anche se il dolore al culo è violento e ogni nuovo ingresso
lo moltiplica. Pisciano anche sul suo capo. I soldati si scambiano
battute, che Fernando in parte capisce e che lo umiliano ulteriormente: - I cani cristiani si
fanno battezzare, no? - Un bel battesimo di
piscio per questi due cani. - Piscio sulla testa e
sborro in culo: questo è davvero un battesimo. Fernando stringe i denti e
tace. Quando hanno finito, i
soldati slegano Fernando e Juan e li fanno alzare. Entrambi si muovono a
fatica, barcollando, mentre sborro, merda e sangue colano dai loro culi. Li
accompagnano in una cella simile a quella dove si trovano Rafael e Salvador. Juan è sconvolto e quando
i carcerieri chiudono la porta, scoppia di nuovo a piangere, coprendosi il
viso con le mani. Fernando lo guarda e scuote la testa. - Juan, Iddio ci ha
destinato al martirio. Affrontiamo con coraggio le prove che ci aspettano. Le parole di Fernando non
calmano l’angoscia di Juan: lo stupro multiplo è stato un trauma troppo forte
per questo giovane, più abituato alla vita di corte che alle battaglie. Per
quanto la sua bellezza abbia destato l’interesse di molti in seminario,
nessuno aveva mai osato toccare il figlio del duca di Casa Grande. Fernando rimane in
silenzio. Anche lui è sconvolto, ma cerca di controllarsi, di essere da
esempio al fratello. In una cella vicina, al
fondo dello stesso corridoio, Rafael e Salvador attendono la fine orrenda che
è destinata loro. Per i loro bisogni hanno solo il bugliolo, che si riempie
in fretta. Nessuno lo svuota, per cui dopo il secondo giorno i due pirati
pisciano in un angolo della cella, usando il secchio solo per cagare. La
merda si mescola con il piscio presente sul fondo, formando un impasto denso
e fetido. Il fetore è sempre più
forte, ma Salvador e Rafael non ci fanno più caso. Il caldo, il lezzo, la
sporcizia, tutto li lascia indifferenti. Si chiedono perché non li hanno
ancora impalati. I giorni trascorrono
uguali. Il mattino del terzo giorno, svegliandosi, Salvador avverte forte il
desiderio di fottere. Si avvicina e afferra Rafael per voltarlo sulla pancia. - No, Salvador. Il culo mi
fa ancora male. Salvador ride. - Quando ti infileranno il
palo in culo, sarà peggio. Rafael cerca di resistere,
ma Salvador è troppo forte. È la prima volta che il Toro lo prende con la forza,
ma il Lupo non si stupisce: Salvador è abituato a prendersi ciò che vuole. Rafael sente il grosso
cazzo premere contro il suo culo, poi forzare l’apertura ed entrare. Il
dolore è violento. Salvador fotte a lungo e quando infine viene, sul suo
cazzo ci sono merda e sangue. Rafael non è venuto. Le condizioni di Juan e
Fernando sono simili a quelle dei due pirati: pane e acqua sono il loro cibo,
un bugliolo che nessuno svuota serve per i loro bisogni. Per loro è molto più
difficile adattarsi a questa vita, troppo lontana da quella che hanno vissuto
fino a ora. Fernando, abituato alle privazioni della vita in mare, tollera
meglio la situazione, ma Juan non regge. Ha spesso crisi di pianto e attacchi
di panico. In certi momenti Fernando teme che possa perdere la ragione. Cerca
invano di consolarlo, lo invita a mostrarsi all’altezza del titolo che porta,
ma Juan non riesce a reagire. Entrambi ormai aspettano
la morte come una liberazione e non capiscono perché non vengono giustiziati.
In realtà Eman ha deciso che lasciarli qualche giorno così sia un
buon modo per spezzare la loro resistenza. Gli è chiaro che Juan cederà
facilmente, di fatto ha già ceduto, ma Fernando è un guerriero coraggioso e
non sarà facile piegarlo. Il quarto giorno, in tarda
mattinata, i quattro prigionieri vengono fatti uscire dalle loro celle e
portati fuori. Hanno le mani saldamente legate dietro la schiena. I due
fratelli e i due pirati si guardano stupiti. Non pensavano di ritrovarsi.
Sono nelle stesse condizioni: nudi, sporchi, maleodoranti, destinati a una
morte orrenda. Ma non provano nessuna solidarietà gli uni per gli altri. Rafael ghigna: - Avete avuto quello che
vi meritate. Fernando lo guarda,
sprezzante. - Sapremo morire con
coraggio. Salvador lo fissa e
replica: - Spero che vi impalino. I soldati li costringono a
camminare per una mezz’ora, verso la riva, dove i turchi stanno costruendo
una specie di torre. Solo quando sono giunti molto vicino, capiscono che la
torre è formata da crani: quelli dei soldati morti in battaglia o magari
uccisi dopo la resa. I turchi stanno innalzando un monumento visibile dalle
navi che passano al largo, come monito per chi pensa di poterli sfidare. Salvador mormora: - Merda! Sono arrivati a
destinazione. La torre di crani si erge davanti a loro, a un tiro di sasso. I
turchi procedono mettendo le teste che hanno scarnificato una accanto
all’altra, poi dispongono sopra ogni strato di teste altre ossa, che
costituiscono una base per lo strato superiore di crani, e spargono la malta
per tenere insieme il tutto. Non molto lontano si alza il fumo di un
calderone: probabilmente viene usato per togliere la carne dalle teste. Juan incomincia a tremare.
Fernando sussurra: - Juan! Dignità. Sei un
Mendoza. Eman li guarda sorridendo e dice: - Le vostre teste saranno
in cima a questa torre. Avete una posizione superiore agli altri ed è giusto
che siate in cima alla torre. Fernando sputa nella sua
direzione. Non può raggiungerlo, ma esprime tutto il suo disprezzo per questo
infame I soldati costringono i
quattro prigionieri a marciare fino al calderone. Ci sono altri soldati
turchi e tra loro, le braccia legate dietro la schiena, quattro uomini: sono
pirati della Luz de los mares, che i turchi hanno deciso di giustiziare
invece di farne schiavi. I quattro vengono forzati a mettersi in ginocchio.
Guardano i loro capi. Sanno che il Lupo e il Toro avranno una morte più
terribile della loro. A un cenno dell’ufficiale
si avanza il boia, un uomo corpulento, a torso nudo, braccia e petto coperti
da una fitta peluria nera. L’uomo alza la spada e con un movimento rapido
l’abbatte sul collo di uno dei pirati. Poi procede con gli altri.
L’operazione dura pochissimo: adesso a terra ci sono quattro corpi decapitati
e quattro teste. Sul suolo si allarga una pozza di sangue che la terra
assorbe in fretta. Un soldato afferra le
teste una dopo l’altra e le getta nel calderone. Eman spiega: - Facciamo bollire le
teste per separare le ossa dalla carne. Usiamo solo i crani per costruire la
torre. Ma le vostre le metteremo intere. Intanto sono arrivati
quattro dromedari, condotti da altri soldati. Portano grandi bisacce, che
vengono deposte a terra. I soldati ne estraggono il contenuto: teste di
soldati spagnoli. Juan si volta e incomincia
a vomitare. Eman ride. - Sono solo teste di
soldati. Però, c’è anche qualche testa nobile. A un cenno di Eman, un soldato prende da una sacca una testa, che tiene
per i capelli. È quella di José de Altacuesta. I
quattro prigionieri la guardano, stupefatti. Non sanno che José si è dato la
morte dopo essere stato stuprato, impiccandosi nella cella con i suoi
mutandoni: pensano che sia stato ucciso, pur potendo pagare il riscatto. - Ma qui una testa vale
l’altra. Eman dice qualche cosa e il soldato si
abbassa i pantaloni. Prende la testa con le due mani e piscia prima sui capelli, poi sul viso pallido e
infine nella bocca aperta. Juan e Fernando rabbrividiscono di orrore.
Salvador e Rafael sorridono. Infine il soldato butta la
testa gocciolante di piscio nel calderone. Tutta la scena è stata
organizzata da Eman, per umiliare e demoralizzare i
due nobili. Il giorno dopo Juan e
Fernando vengono nuovamente portati nello stanzone. Juan, ormai annichilito,
è scosso da un tremito convulso. Fernando prega brevemente, per sé e per il
fratello. Spera che per Juan la morte arrivi presto. Una volta che sono in
posizione, legati ai tavoli, vedono entrare Rafael e Salvador. Si chiedono se
anche loro saranno stuprati, ma le parole di Eman
vanno in una direzione diversa: l’interprete ha colto l’ostilità esistente tra
i pirati e i fratelli Mendoza e intende servirsene per i suoi scopi. Si
rivolge ai due pirati e dice: - So che non avete buoni
rapporti con i fratelli Mendoza e ho pensato che li avreste fottuti
volentieri. Fernando freme.
Un’ulteriore umiliazione: dopo i soldati saraceni, due pirati disertori, la
feccia della società, gente che avrebbero dovuto giustiziare, invece di
offrire loro il perdono regio. Salvador ride e risponde: - Ottima idea. Salvador si mette dietro
Juan e Rafael dietro Fernando. Salvador entra con violenza: vuole fare il più
possibile male a questo fottuto nobile di merda che è responsabile della
morte terribile che lo attende. Juan grida, poi scoppia a piangere, mentre il
suo corpo è scosso da un tremito convulso, come se avesse un attacco di
febbre. Rafael entra con violenza,
ma Fernando si controlla e non lascia trapelare la sofferenza e la rabbia. Fottono entrambi a lungo.
Quando ha concluso Salvador aspetta un momento, senza ritrarsi, poi
incomincia a pisciare. Juan sente il liquido caldo
inondargli le viscere. Non capisce subito che cosa sta accadendo. Quando Salvador si ritira,
il piscio scende dal buco dilatato e pulsante del culo di Juan, misto a
merda, sborro e sangue. Rafael ormai è uscito, ma
passa davanti a Fernando e gli piscia in faccia. I due pirati vengono
riaccompagnati in cella. Sono soddisfatti. Juan non si regge in
piedi. Piange e Fernando deve sostenerlo. Dal buco del culo ogni tanto gli
cola un po’ di piscio, da quello del fratello il seme esce mescolato
all’aria, con piccoli scoppiettii. Infine il settimo giorno,
la sera, il carceriere che ha portato da bere e da mangiare a Rafael e
Salvador li guarda ridendo e dice: - Ultimo pasto. Vi
impalano domani. I due pirati rimangono seduti,
in silenzio. Poi Salvador si alza, prende il cibo e l’acqua e lo porta vicino
a Rafael. Bevono e mangiano, senza dire nulla. Sapevano che la morte sarebbe
giunta presto, ma il pensiero che la loro agonia sta per incominciare li
turba. Più tardi Rafael si alza e
raggiunge il bugliolo, che ormai è pieno. Anche se trabocca, che importanza
ha? Stanno per morire. Mentre incomincia a pisciare si accorge che Salvador
lo sta fissando. I loro sguardi si incrociano, ma entrambi rimangono in
silenzio. Quando ha terminato,
Rafael si gratta i coglioni, poi torna a sedersi sul pavimento sudicio della
cella. Guarda la porta da cui entreranno i carcerieri per condurli al
supplizio che li attende: il palo, la più orribile delle morti. - Merda! Merda! Salvador non dice nulla. Rafael riprende: - Salvador, sai come
avviene un impalamento? Lo ha detto con un tono
neutro, come se loro due non fossero destinati a essere impalati. Salvador lo guarda, senza
parlare: ovviamente lo sa, sulla Luz de los mares ne se parlava
spesso. Era il timore di tutti gli uomini dell’equipaggio e alcuni di loro
avevano avuto modo di assistere a un impalamento e lo raccontavano. Salvador
sa tutto quello che c’è da sapere sull’orribile morte che li attende e Rafael
ne è a conoscenza. Perché allora chiede? Salvador conosce Rafael e
ne coglie la tensione. Non si stupisce che il Lupo di Valencia sia angosciato
alla prospettiva di agonizzare per giorni interi con un palo in culo. Ma in
qualche modo questa paura lo infastidisce: un maschio affronta con coraggio
la sua morte. Rafael sembra quasi
irritato dal silenzio di Salvador. - Lo hai sentito
raccontare, no? - Sì, l’ho sentito, anche
se non ho mai assistito. - Vuoi che te lo racconti?
Così ti preparo. Salvador non ha nessuna
voglia di sentire narrare per l’ennesima volta come si muore sul palo,
sapendo che questa è la sorte che li aspetta, ma se Rafael vuole farlo,
perché dirgli di no? Che cosa cambia? - Va bene. Raccontami
tutto per bene. Tanto, che cazzo abbiamo da fare qui, in questa cella di merda? Rafael incomincia a
narrare. - Il palo te lo fanno
portare. Te lo metti in spalla. Magari un altro schiavo ti aiuta, se non sei
abbastanza forte. Tu lo sei, Toro. Salvador alza le spalle.
Rafael continua: - Quando sei arrivato a
destinazione, ti legano le mani dietro la schiena e ti sistemano con il petto
su una specie di sella, in modo che tu abbia il culo in alto. Con un forcone
ti premono sul collo, costringendoti a tenere la faccia a terra. Due uomini
ti passano le corde alle caviglie e ti forzano ad allargare le gambe. E poi… Rafael si interrompe.
Sembra guardare lontano. - E poi l’aiutante del
carnefice ti allarga il buco del culo con un coltello. Tolgono la sella e il
palo viene messo in posizione, la punta contro il buco sanguinante. Il boia
incomincia a picchiare con un martello di legno all’altra estremità del palo,
facendotelo entrare in culo. Ogni tanto controlla che la posizione sia quella
giusta. Non devi crepare in fretta. Salvador vede benissimo la
scena nella sua mente. - Quando hanno finito, sollevano il palo e lo ficcano nel buco che
hanno preparato nel terreno o in una piattaforma. E aspettano. Rafael tace. Salvador non
ha detto una parola, ma ora il silenzio che si è creato lo infastidisce.
Dice: - Dicono che gli insetti
ti divorano vivo. - Sì, c’erano centinaia,
migliaia di insetti. Erano un tormento continuo, vedevo il suppliziato
scuotere la testa, cercando di allontanarli, ma naturalmente non serviva a
nulla. Loro ritornavano. - E ci vogliono anche
giorni interi prima di crepare. - Sì, quello che ho visto
morì due giorni dopo essere stato impalato, un altro invece resse solo fino a
sera. Di nuovo silenzio, poi, di
colpo, Rafael esplode: - Dio porco! Dio bastardo! Salvador guarda Rafael,
che ripete: - Dio bastardo! Dio
fottuto bastardo! Crepare così… Salvador rimane in
silenzio. Riflette all’idea che gli è venuta. Dopo un buon momento dice: - Rafael, per uno di noi
due è possibile evitare il palo. Il Lupo lo guarda,
perplesso: - E come cazzo puoi farlo? - Possiamo affrontarci,
lottare. Chi vince strangola l’altro. Salvador è massiccio e sa
di essere più forte di Rafael, anche se questi è rapido ed esperto nella
lotta: lo scontro non è equilibrato. Il Toro sta offrendo a Rafael una via di
fuga dal supplizio e lo sanno entrambi. Rafael tace. Guarda le
grosse mani di Salvador. Le immagina stringersi intorno al suo collo e dargli
una morte più rapida e meno orribile. - È una buona idea. Non dice altro. Salvador si alza. Va al
bugliolo e piscia. Un po’ di liquame trabocca e scende sul pavimento. Quando ha finito si volta
verso Rafael e dice: - Allora possiamo
incominciare. Meglio farlo ora, domani mattina potrebbero venire a prenderci
presto e rischiamo di non avere il tempo. Rafael annuisce. Sa che
Salvador ha ragione, ma gli sembra di non essere in grado di alzarsi.
Salvador si avvicina e si ferma davanti a lui. Allora Rafael si alza. - Sono pronto. Si fronteggiano,
studiandosi. Rafael guarda le braccia possenti del Toro, le sue grosse mani
che gli daranno la morte. Salvador attacca, cercando di afferrare Rafael, che
si sottrae. Il Lupo lotta, ma senza convinzione. Non vuole morire sul palo. Salvador lo afferra e
rotolano a terra. Rafael si trova bloccato, il corpo di Salvador lo schiaccia
al suolo, un braccio passa intorno al suo collo e il respiro gli manca. La
lotta è stata molto breve. - Ti arrendi? Rafael fa un ultimo sforzo
per liberarsi: istintivamente il suo corpo rifiuta la morte che ora si
avvicina. Salvador stringe di più e Rafael vede il mondo svanire. Quando si risveglia è a
terra. Salvador è in piedi, su di lui. Lo guarda, con un viso in cui non
appare nessuna emozione. - Ora di finire, Rafael. Rafael annuisce
lentamente. Sì, è ora di finire, che la morte venga, a cancellare questi giorni
nella cella, a evitare l’atroce agonia del palo. Fa per alzarsi, ma poi ci
ripensa e si mette in ginocchio, davanti a Salvador che lo guarda e annuisce.
Le mani del Toro andaluso si posano sul collo del Lupo di Valencia. Salvador
ha grandi mani forti. Il cazzo gli si sta tendendo: gli piace uccidere. Sul viso di Rafael appare
un ghigno quasi triste. - Ti piace uccidermi. - Certamente. Mi piace
uccidere, soprattutto uccidere uomini forti, come te. Ti ho sempre ammirato e
per questo ho sempre desiderato ucciderti, Rafael. Ucciderti e fottere il tuo
cadavere. Rafael non si stupisce. Ha
spesso sospettato che a Salvador sarebbe piaciuto ucciderlo e ora, di fronte
alla morte che li attende, non ha senso negare la realtà. - Lo so. - Sarei stato disposto ad affrontare
qualsiasi supplizio per salvarti, ma ucciderti è un immenso piacere. Rafael annuisce. - Poi fotterai il mio
cadavere, come fai sempre con gli uomini che ammazzi? Salvador fa un cenno
d’assenso, senza sorridere. Rafael chiede ancora. Non
sa se lo fa per guadagnare qualche minuto di vita o se davvero, ora che sta
per morire, vuole capire: - Perché ti piace fottere
i morti? - Mi piace fottere gli
uomini che ho ucciso. È l’ultimo sfregio. Sono stato più forte, ti ho fottuto
la vita e ora ti fotto il culo. Rafael annuisce. L’idea
che Salvador scopi il suo cadavere lo turba. Gli si è offerto in vita, per
anni. In questi ultimi giorni il Toro lo ha preso anche se Rafael non avrebbe
voluto. Eppure il pensiero di essere fottuto da morto lo disturba. - Non ho mai fottuto un
morto. - Non avrai più occasione
di farlo. Le mani del Toro
esercitano una leggera pressione. Rafael sente lo stomaco contrarsi. Parla,
per fermare con le parole le dita che stringono. - Forse mi sarebbe
piaciuto fottere il tuo cadavere, dopo averti ucciso. - Non hai avuto i coglioni
per farlo. Hai scelto di morire e sarò io a fotterti. Le mani premono un po’ di
più. - Il palo è il prezzo da
pagare per questo. - Lo pago volentieri. Si guardano in silenzio.
Salvador pensa che Rafael non ha davvero lottato. Prova rabbia per quella che
giudica una viltà. Guarda il viso del Lupo, che non tradisce nessuna
emozione, guarda il proprio cazzo, ormai teso, sporco della merda e del
sangue di Rafael, che ha posseduto ogni giorno. Toglie le mani. - Prima che ti strangoli,
puliscimi il cazzo. Rafael lo guarda, stupito. - Muoviti, stronzo. Paga
il prezzo. Non hai davvero lottato. Rafael sa che Salvador ha
ragione. Pensa che tra poco tutto sarà finito. Apre la bocca e accoglie il grosso
cazzo del Toro. Lo lecca e lo succhia, fino a che non è Salvador stesso ad
allontanarlo. C’è ancora un momento di
silenzio, poi le mani si appoggiano nuovamente sul collo di Rafael e
incominciano a stringere. Man mano che la pressione
sul collo aumenta, rendendo più difficile respirare, Rafael fa fatica a
controllare l’impulso di allontanare le mani del Toro, mentre il cazzo gli si
tende. Infine il Lupo non regge più e solleva le mani per allentare la
stretta. Salvador però aumenta la pressione e il mondo svanisce. Un odore
intenso di merda riempie la cella: Rafael ha perso il controllo degli
sfinteri. Rafael è morto, ma
Salvador continua a stringere. Nella testa reclinata all’indietro la lingua
sporge e gli occhi sono spenti. Salvador lascia la presa e
fa un passo indietro. Il cadavere finisce faccia a terra. È stato bello,
molto bello. Lo ha desiderato a lungo. Salvador guarda il corpo
steso sul pavimento, che sembra attendere l’ultimo sfregio. Guarda la merda
tra le cosce: ce n’è parecchia. Sorride. Allarga le gambe, poi si stende sul
cadavere e lo incula con una spinta decisa. Fotte a lungo, finché il piacere
non esplode. Salvador si alza. Ha il
cazzo e i coglioni coperti di merda, ma gli va bene. Volta Rafael sulla
schiena. Lo ha ammirato. Il Lupo di Valencia era un vero maschio, coraggioso
e spietato. Ha ceduto alla paura del palo, ma questo non può cancellare gli
anni in cui sono stati insieme, le mille imprese temerarie. Salvador guarda il grosso
cazzo, rigido nella morte. Un’idea si impadronisce di lui. Si siede sul ventre di
Rafael, poi si solleva, afferra il cazzo rigido del Lupo e lentamente si
abbassa, impalandosi. Ha fottuto un morto e ora si fa fottere da lui. Il suo
buco del culo si dilata nuovamente, come durante lo stupro subito a opera dei
turchi. Ma questa volta a penetrarlo è il cazzo dell’uomo con cui ha
condiviso otto anni della sua vita, l’uomo che sa di aver amato, anche se non
lo ha mai detto, e che ha ucciso per risparmiargli il palo. Rimane un buon momento
seduto sul cadavere, il cazzo del morto ben dentro il suo culo. È la prima
volta che sceglie di essere penetrato. Lentamente la destra scende ad
accarezzare il cazzo, a stringerlo, mentre la sinistra afferra i coglioni in
una morsa dolorosa. Senza allentare la presa, malgrado il dolore che lo fa
sudare, Salvador si alza e si abbassa, mentre si masturba, fino a che viene.
Ora anche le sue mani sono sporche di merda. Quando si alza, vede che
sul cazzo di Rafael c’è un po’ di merda. Salvador sorride. Gli sembra che sia
il sigillo del loro legame. Il mattino dopo un
ufficiale con sei soldati entra nella cella. Salvador è seduto contro una
parete. Per un momento i turchi pensano che Rafael dorma, ma avvicinandosi si
rendono conto che è solo più un cadavere. L’ufficiale è furibondo.
In un impeto d’ira, afferra il bugliolo e ne getta il contenuto in faccia a
Salvador. La merda cola dal viso al petto e al ventre. Con un ruggito
Salvador salta addosso all’ufficiale, ma i soldati lo bloccano. Lo colpiscono
più volte, fino a che i pugni hanno ragione della sua resistenza e due calci
ai coglioni gli tolgono il fiato. Gli legano le mani dietro la schiena. Escono dalla cella e poi
nel cortile. A terra c’è il palo, la punta aguzza che gli entrerà nel culo.
Salvador lo guarda senza mostrare nessun segno di paura. Gli liberano le mani e lo
forzano a caricarsi il palo sulla spalla. Il cadavere di Rafael viene
caricato su un dromedario, legato in modo che non cada, il culo in alto. Poi si avviano. Il palo è
pesante e Salvador suda abbondantemente, nonostante sia ancora molto presto e
l’aria sia fresca. Ben presto lo sfregamento del palo irrita la pelle, che si
spacca- Un po’ di sangue cola. Davanti a lui Salvador vede il dromedario
avanzare, facendo ondeggiare il corpo senza vita di Rafael. Salvador regge il palo
senza mostrare nessuna emozione. Camminano per oltre
un’ora, fino a che arrivano alla costa, dove avrà luogo il supplizio.
Nell’ultimo tratto da percorrere si è radunata una folla. L’arrivo del
condannato è accolto da grida di gioia. Salvador passa tra la gente che ride
vedendolo sporco di merda in faccia, sul petto, sul ventre, sul cazzo e sui
coglioni, sulle gambe. Non può capire che cosa dicono, le loro battute
oscene, le loro maledizioni. Comprende soltanto due parole che ritornano spesso:
Hıristiyan köpek, cane
cristiano. Passa oltre, indifferente.
Salvador
può posare il palo. Gli legano subito le mani dietro la schiena, in modo che
non possa cercare di fuggire o anche solo di sottrarre la spada a un soldato
e uccidersi. Il cadavere del Lupo è
impalato per primo. È un’operazione semplice: non occorre badare alla
direzione del palo, perché tanto
Rafael è morto. Passano una corda intorno alla caviglia destra e poi un’altra
intorno alla sinistra del cadavere, per tenere le gambe ben allargate, poi
Ayman, l’aiutante del carnefice, allarga il buco del culo con il coltello e Burhaan, che dirige l’operazione, prende a colpire il
palo, spingendolo dentro il corpo. Salvador guarda il palo
entrare nel culo di Rafael. Il Lupo di Valencia viene nuovamente stuprato,
questa volta da un palo. Salvador si accorge che il cazzo gli si tende. Gli
piace vedere il legno affondare in culo al Lupo, come fosse un grosso cazzo
che penetra sempre più a fondo. Quando l’operazione è
conclusa, il palo viene issato, infilando la base in un buco scavato in
precedenza nel terreno. Il corpo inerte si trova con le gambe a una spanna
dal suolo. Salvador vede arrivare i
fratelli Mendoza. Si chiede se i turchi intendono impalare anche loro, ma i due
non reggono un palo. Li hanno portati per assistere al suo impalamento.
Salvador ha un moto di rabbia, ma l’aspetto dei due nobili lo spegne. Juan
Mendoza è pallidissimo e trema. Dell’uomo altezzoso di qualche giorno prima
non è rimasta traccia. Fernando conserva ancora una certa dignità, quella che
può avere un uomo nudo, sporco di merda e piscio, con una striscia di sborro
e sangue lungo l’interno delle cosce: devono averli di nuovo inculati,
probabilmente questa stessa mattina. Ora i carnefici
sistemano gli strumenti del supplizio. Poiché Salvador è vivo, l’operazione è
più complessa: occorre che il corpo sia tenuto fermo, per evitare che il palo
si infili nel modo sbagliato, provocando una morte rapida. Salvador conosce
tutte le operazioni e guarda i preparativi come se non lo riguardassero: gli
sembra di essere del tutto indifferente. Viene messo in posizione una specie
di basto di legno, su cui sarà costretto ad appoggiarsi, in modo che il culo
sia ben sollevato quando gli taglieranno il buco per permettere l’ingresso
del palo. Le corde per legargli le caviglie e allargargli le gambe vengono
gettate a terra. Un uomo ha in mano il forcone per bloccargli il collo e
tenerlo in posizione, Ayman il coltello che servirà per allargargli il buco
del culo. Ayman e Burhaan guardano il Toro andaluso e sorridono.
Come alcuni dei soldati, hanno entrambi il cazzo duro, che tende i pantaloni:
il supplizio li eccita. Ayman gli si avvicina e gli mostra sorridente il
coltello, sulla cui lama si mescolano il sangue e la merda di Rafael. Burhaan fa un cenno alle guardie. Quando
si sente afferrare, Salvador si dibatte: l’indifferenza di poco prima lascia
il posto al terrore. Il suo corpo rifiuta lo scempio a cui è destinato, ma
non ha modo di lottare. I soldati lo costringono a inginocchiarsi e
appoggiarsi con il torace sul basto. Due di loro premono sulla sua testa,
impedendogli di alzarla, e un terzo gli blocca il collo con il forcone, le
cui punte si infilano nel suolo. Altri due gli tengono ferme le gambe e
passano le corde alle caviglie. Tirano verso l’esterno, in modo da divaricare
bene le gambe e le natiche. -
Maledetti! Ora
Salvador è in posizione, il suo martirio può incominciare. Ayman
si inginocchia dietro di lui. Salvador non può vederlo, ma sa che cosa lo aspetta
e si tende. Avverte la pressione di una punta che si infila nel buco del suo
culo. La lama affonda poi, con un movimento brusco, si sposta verso l’alto,
squarciando l’apertura. Salvador urla, un grido selvaggio. Il sangue cola
dalla ferita, ma l’uomo sparge un impasto per fermare l’emorragia. Poi si
alza. Il culo del Toro andaluso è pronto ad accogliere il palo, la cui punta
viene spalmata di grasso, in modo che penetri meglio. Gli
uomini tolgono il basto di legno, poi prendono il palo acuminato e lo mettono
in posizione, la punta contro l’apertura sanguinante. Salvador sente la
pressione del palo che tra poco entrerà dentro di lui, regalandogli una morte
terribile. Burhaan colpisce il palo, che penetra a fondo
nel culo del suppliziato. Salvador grida, la testa schiacciata a terra, in
preda a un dolore inumano. Si divincola, invano. Il martello del boia si
abbatte di nuovo sul palo, che si fa strada nella carne, dilaniando le
viscere del condannato. A ogni colpo Salvador urla, finché la voce gli manca e
dalla sua bocca esce solo più un suono soffocato. Salvador sente il palo che
gli scava le viscere e avanza, inesorabile, dentro di lui, sempre più a
fondo, nel petto. Burhaan si ferma. Il corpo del condannato è
infilzato dal palo fino allo sterno. Può bastare così. I
due carnefici passano davanti a Salvador, si abbassano i pantaloni e
incominciano a pisciare sulla testa del pirata: un’ultima umiliazione. Il
Toro sente il piscio che scorre sul suo capo senza capelli e scivola sulla
faccia, mescolandosi alla merda, ma non ci bada: il dolore atroce che brucia
nel suo corpo è troppo forte per badare ad altro. Gli
uomini tolgono il forcone che blocca la testa di Salvador. Il Toro bestemmia,
ma la sua voce è appena udibile e i carnefici non sentono le parole blasfeme.
Hanno preparato il buco nel terreno in cui infilare il palo, accanto a quello
che regge il cadavere del Lupo di Valencia. Quando il palo viene issato, il
movimento è un nuovo strazio, che porta il palo a penetrare ulteriormente nel
corpo del suppliziato. Salvador geme ancora. Dalla sua bocca cola un po’ di
saliva. Il
mondo ondeggia, senza contorni precisi. Anche le voci sono solo un ronzio
indistinto. Solo lentamente le immagini ritornano nitide e stabili. Salvador
può vedere i carnefici, sudati per lo sforzo e soddisfatti del loro lavoro,
che lo fissano sorridenti, e i soldati. Uno si afferra i coglioni attraverso
la stoffa dei pantaloni, in segno di scherno. Almeno due hanno il cazzo duro.
Probabilmente si faranno una sega, quando gli spettatori si saranno
allontanati. Juan
Mendoza sta vomitando.
Fernando lo sostiene, ma anche lui è pallidissimo. Salvador
sente il dolore che pulsa nel suo corpo, atroce, un fuoco che lo divora, nel
culo, nel ventre, nel torace. Il suo corpo è solo sofferenza. Salvador
respira a fatica. Le
sentinelle si sono messe a una certa distanza, perché l’odore di merda è
forte e il calore della giornata rende più acuto il fetore. Attratti invece
dalla merda e dal sudore, centinaia di mosche, tafani e altri insetti volano
intorno al corpo e si posano sulla pelle dell’agonizzante. Essi ricoprono il
viso di Salvador, dove il sudore scorre in rivoli mescolandosi alla merda, il
suo petto villoso, dove le gocce si perdono tra i peli, il ventre, il cazzo e
i coglioni. Le punture e i morsi sono una continua sofferenza, che si
aggiunge al dolore tremendo che sale dalla carne attraversata dal palo. Gli
insetti lo divorano: il suo corpo si copre dei segni rossi lasciati dalle
punture e dai morsi, che fanno gonfiare la pelle e la lacerano. Le piccole
ferite attraggono altri insetti. Quando
Salvador apre la bocca per cercare l’aria che gli sfugge, gli insetti gli si
infilano in gola. Salvador tossisce e sputa. Vicino
alla riva, la torre di crani cresce. Salvador vede aggiungere teste tagliate
e altre ossa. Il lavoro procede per tutto il giorno, fino al tramonto del
sole. Salvador
guarda il cadavere di Rafael. È contento di averlo ucciso, risparmiandogli
questo tormento atroce. A
una decina di passi la folla di curiosi assiste all’agonia del pirata. La
gente si scambia battute, ride, se ne va, poi ritorna, felice di potersi
godere ancora lo spettacolo. La
sera infine scende. Arrivano le due guardie che passeranno la notte. Guardano
il cadavere di Rafael e ridono, poi osservano Salvador che ogni tanto muove
la testa. Ridono nuovamente. -
Non li hanno ancora castrati. -
No, lo faranno domani. -
Non me lo voglio perdere. -
Puoi dirlo. -
Puzza come una fogna. - Un
grosso stronzo coperto di merda. La
notte Salvador ha momenti di incoscienza, in cui il dolore scompare. Gli
insetti lo tormentano di meno. Al sorgere del sole gli insetti riprendono a
posarsi sul corpo e presto il calore diviene intollerabile. Nel
tardo pomeriggio del secondo giorno, mentre Salvador agonizza, i fratelli
Mendoza vengono di nuovo portati ad assistere. Arriva un ufficiale con altri
soldati e i due carnefici. L’ufficiale dà un ordine. Salvador vede Ayman,
avvicinarsi al cadavere di Rafael, appoggiare il coltello sotto il cazzo e i
coglioni e recidere. Dalla folla si leva un urlo di gioia. Juan Mendoza
scivola a terra senza un lamento, privo di sensi. Ayman
si avvicina al Toro. Salendo su uno sgabello gli spinge i genitali del Lupo
in bocca. Salvador non oppone resistenza. I turchi intendono umiliarlo, ma
Salvador è contento di crepare con i genitali di Rafael in bocca, l’ultimo
segno del legame che li ha uniti in vita. Quando la testa del Toro verrà
aggiunta alla torre che sta crescendo sulla riva e lì marcirà, avrà ancora in
bocca il cazzo e i coglioni del Lupo. I
coglioni riempiono la bocca del Toro, il cazzo sporge fuori. Salvador sa che
tra poco lo castreranno. Come ha previsto, Ayman gli afferra il cazzo e i
coglioni. Stringe, poi la lama incomincia a recidere. Un nuovo dolore si fa
strada nel corpo martoriato del Toro, che griderebbe, se potesse ancora
emettere suoni. Vede Ayman infilare i suoi genitali in bocca al cadavere di
Rafael. Pensa che va bene così. Ma il mondo sta svanendo.
Salvador fa fatica a respirare. I coglioni di Rafael gli riempiono la bocca,
il naso è otturato dalla merda e dagli insetti. Salvador reclina il capo. Pochi minuti dopo il suo
torace smette di sollevarsi e abbassarsi. - Infine questo pezzo di
merda è crepato. La folla degli spettatori
si disperde. L’ufficiale se ne va con i soldati, lasciando solo Ayman e Burhaan. Quando tutti si sono
allontanati e il buio della sera avvolge la scena del supplizio, Ayman si
mette dietro il palo, sale su uno sgabello e si cala i pantaloni. Il cazzo è
già duro. Lo sfrega contro il culo di Salvador, finché viene. Burhaan ride. Tira fuori il cazzo e piscia sulla
ferita della castrazione. I due cadaveri sono
lasciati al sole. Gli insetti li divorano. Presto il fetore è intollerabile. Il mattino del terzo
giorno i fratelli Mendoza vengono nuovamente portati a vedere i due cadaveri.
Eman sorride: sa che ormai la loro resistenza è
stata piegata. Juan è solo l’ombra di quel che era, Fernando mantiene a
fatica ancora un po’ di dignità. Li guarda e dice: -
Domani tocca a voi. Juan
trema, geme e piange. Fernando freme. -
Non potete darci una morte così orribile. È indegna di un nobile. Tutto
il corpo di Eman sembra scosso da una risata
interminabile. -
Non possiamo? E chi ce lo potrebbe impedire? Sarete impalati domani mattina.
Il giorno successivo sarete castrati e se Allah avrà pietà di voi, vi
permetterà di morire. Fernando
freme. -
Abbiamo combattuto lealmente. Eman scuote la testa: gli è chiaro che
Fernando Mendoza non capisce la sua situazione. Eman sorride e dice: -
Possiamo darti una morte più rapida, ma c’è un prezzo da pagare. In
Fernando si accende una speranza. Risponde, con un tremito nella voce: - La
nostra famiglia è in grado di pagare quanto volete. Eman ride di nuovo. -
Non ci servono soldi. Vogliamo vederti inculare tuo fratello. Fernando
lo fissa, allibito. -
Non potete chiedermi questo! -
Allora creperete sul palo. Juan
interviene: -
Fallo, Fernando, ti prego, fallo. Non voglio morire sul palo. Non voglio, non
voglio, non voglio! Fernando
guarda il fratello. Si sente schiacciare da un peso enorme. Non vuole vedere
Juan impalato, non vuole che soffra in modo atroce, ma l’idea di incularlo
gli fa orrore. Juan
grida, in preda a una crisi di panico. -
Fallo, Fernando, fallo! Poi
aggiunge, con una voce più flebile: - Non
il palo, non il palo! Fernando
china la testa, mordendosi il labbro inferiore, poi dice: - Va
bene. Li
portano nello stanzone. Juan viene messo in posizione sul tavolo. Non occorre
legarlo. Fernando si mette dietro di lui. Il dolore lo schianta, ma sa che
non c’è altra via. Si pente di non aver ucciso Juan come il Toro ha fatto con
il Lupo. Guarda
il culo di Juan, sporco di merda. Deve farlo. Si accarezza il cazzo, ma
l’angoscia che l’opprime non gli permette di avere un’erezione. Eman ride e osserva: - Al
grande Fernando Mendoza non viene duro? Se vuoi dico a uno dei soldati di
farti una sega mentre te lo mette in culo. Magari ti si rizza. Fernando
digrigna i denti, furente. Chiude gli occhi, stringe con forza il cazzo e
muove la mano, fino a che il sangue affluisce all’uccello, che si
irrigidisce. Allora riapre gli occhi, appoggia la cappella contro il buco del
culo di Juan e spinge con forza, fino a che i coglioni battono contro il culo
del giovane. Per la prima volta possiede un uomo e quest’uomo è il fratello
per cui darebbe la vita. Juan singhiozza. Fernando
fotte a lungo, finché viene. Allora si ritira. C’è merda sul suo cazzo. Ora
desidera solo morire. Eman è soddisfatto - Va
bene. Terremo la nostra parola con te, Fernando. Fernando
Mendoza freme a sentirsi chiamare per nome, come fosse un servitore. Eman continua: - E
tu, Juan, se non vuoi il palo, devi ancora fare una cosa. Juan
guarda Eman. Nei suoi occhi luccicano le lacrime.
Non dice nulla. Eman prosegue: -
Pulisci il cazzo di tuo fratello. L’hai tutto sporcato. Fernando
grida: -
No! Eman sorride e si rivolge a Fernando: -
Preferisci che lo impaliamo? Fernando
chiude gli occhi. La
voce di Juan risuona, flebile: -
Sì. Un
soldato spinge Fernando davanti a Juan, che guarda il cazzo sporco di merda,
poi apre la bocca e incomincia a pulirlo con cura. Fernando piange, ma il
cazzo è rigido. Quando
ha finito, i soldati afferrano i due fratelli per le braccia. Fernando si
chiede che cosa intendano fare. -
Tra poco vi uccideremo. Fernando
si sente sollevato: la morte metterà fine ai loro tormenti. -
Prima però verrete castrati. -
No! No! No! L’urlo
di Juan è una mano di ghiaccio che stringe il cuore di Fernando. Il boia si
avvicina e afferra i genitali del giovane. Juan perde il controllo degli
sfinteri. Piscio e merda scendono. Il boia non ci bada. Con il coltello
recide, sorridendo. Juan
grida e piange. Anche Fernando piange, senza più cercare di nascondersi. Ha
chinato il capo. Sente la mano del boia e il terrore lo invade. Riesce a non
urlare mentre l’uomo recide, ma il piscio cola dal cazzo e la merda dal buco
del culo. Il carnefice prende una
lunga spada e la mostra ai due prigionieri. I due fratelli, debilitati dalla
prigionia, dalle fustigazioni, dagli stupri, tremano vedendola. Juan e Fernando vengono
nuovamente legati al tavolo, ma questa volta non saranno i cazzi dei soldati
a penetrarli, ma la lama. Un soldato striscia i
genitali dei due fratelli tra le cosce, in modo da sporcarli con la loro
merda, poi il boia passa dietro a Juan e spinge la spada contro il buco del
culo. La infila dentro, un po’ per volta: gli piace vedere il sussulto del
corpo ogni volta che la lama avanza: la sofferenza del giovane lo eccita.
Juan lancia un ultimo grido acuto, che si trasforma in singhiozzi e infine si
spegne. Il carnefice estrae la
spada. La lama è coperta di sangue e sul filo ci sono frammenti di viscere.
Quando il boia passa dietro di lui, Fernando incomincia a
singhiozzare. La spada si fa lentamente strada nel suo culo. Fernando solleva la testa, gemendo. Il
muco gli cola dal naso, la saliva dalla bocca. Il carnefice continua a
spingere. Fernando chiude gli occhi, mentre gli sembra di avere in culo un
fuoco che lo devasta. Geme sempre più forte. A un certo punto solleva la
testa, mentre le lacrime scendono dai suoi occhi, ed emette un rantolo. Poi nello stanzone scende
il silenzio. Infine il carnefice
afferra per i capelli la testa di Fernando e, con la stessa spada con cui lo
ha ucciso, lo decapita. Fa lo stesso con Juan. Poi i soldati slegano i corpi
e li trascinano fuori. Vengono legati per i piedi alla sella di due cavalli e
trascinati nel deserto, dove vengono abbandonati agli animali. Quella stessa sera un
cavaliere decapita i cadaveri dei due uomini impalati. Le teste dei due
pirati e quelle dei fratelli Mendoza sono le ultime ad essere aggiunte al Burj al-Rus, la torre dei crani. Sono le uniche a non essere
state scarnificate. La cima della torre viene
ricoperta da una tavola di legno e i lati cosparsi di altra malta, ma in cima
le quattro teste vengono lasciate visibili. Gli occhi spenti sembrano
guardare lontano, verso il mare da cui questi uomini sono venuti a Gerba per
incontrare la morte. Chi naviga davanti alla
costa dell’isola può vedere la torre che si innalza: è alta trentaquattro
piedi, oltre dieci metri. È formata da migliaia di teste. Due di quelle in
cima stringono in bocca quel che rimane dei genitali dei pirati. Le due carcasse impalate
si decompongono al sole. I ventri si gonfiano e infine si aprono. Ne cola un
liquido nero su cui si posano centinaia di insetti. I cadaveri dei fratelli
Mendoza vengono divorati dagli animali selvatici. Tre settimane dopo due
scrigni e una missiva vengono consegnate all’ambasciatore francese, di
partenza per Marsiglia, perché le faccia giungere a Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga, settimo duca
di Casa Grande. Il diplomatico, che ignora
il contenuto delle due scatole, esegue il suo compito e appena giunto in
Europa, invia un messo per consegnare al duca quanto gli è stato affidato. Il duca di Casa Grande
osserva i due scrigni, in legno finemente lavorato. Sui lati è inciso un
elegante intreccio di arabeschi e sul coperchio un teschio e le iniziali CG,
che indicano chiaramente la sua casata. Felipe Mendoza apre la missiva,
che porta un sigillo turco. A Felipe
Mendoza de Alvarado y Zúñiga, duca de Casa Grande. È
con vero piacere che vi invio un ricordo dei vostri due figli, che hanno
trovato la morte nell’isola di Gerba. Non ho potuto inviarvi i corpi, che non
si sarebbero comunque conservati, né le teste. Spero che comunque quanto vi
mando costituisca un degno ricordo della virile stirpe dei duchi de Casa
Grande. Troverete
un po’ di merda: al momento della castrazione i vostri figli hanno perso il
controllo degli sfinteri per il terrore, dimostrandosi purtroppo indegni del
loro lignaggio. Juan ha ceduto subito, mentre Fernando ha retto fin quasi al
momento in cui il carnefice gli ha dato la morte, infilandogli la spada nel
corpo attraverso l’ano. La merda che potrete vedere non è quella del
fratello, che Fernando ha posseduto nell’ultimo giorno delle loro vite,
perché Juan ha provveduto a pulirla con la lingua. È invece la sua. Se
vi capiterà di navigare davanti alla costa settentrionale dell’isola, non
mancate di osservare Burj al-Rus,
la torre che abbiamo costruito con i teschi dei soldati spagnoli: in cima vi
sono le teste dei vostri due figli, come compete alla loro posizione
superiore. Piyale
Pascià Felipe Mendoza si rende
conto che le mani gli tremano quando apre la prima cassetta. L’interno è
foderato di velluto rosso. Ci sono un involto di telo, un medaglione d’oro e
un guanto di cuoio con le iniziali di Fernando. Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga prende il
medaglione e lo apre: contiene l’immagine di Isabel, la moglie di Fernando,
da cui ha avuto due figlie. La mano gli trema ancora di più mentre srotola la
pezza di lino. Quando infine ha completato, gli sfugge un grido: l’involto
contiene i genitali disseccati del figlio maggiore, sporchi di merda. L’anziano duca ha
l’impressione di non riuscire a stare in piedi, gli sembra che il mondo si
dissolva. Chiude gli occhi. Poi, facendosi forza, apre la seconda cassetta.
C’è la catena d’oro che Juan portava al collo, il rosario con l’immagine
della Vergine, il pugnale con le sue iniziali sull’impugnatura e un altro
involto di lino, che contiene i genitali del cadetto, ugualmente sporchi. Il
duca di Casa Grande cade in ginocchio, singhiozzando. Due giorni dopo Felipe Mendoza,
vestito a lutto, fa mettere in un’urna i resti dei due figli. Vengono
tumulati nella cappella che la famiglia possiede nella cattedrale di Burgos,
ma la cerimonia è segreta. Felipe ha detto alla moglie e alle figlie di
Fernando che Piyale Pascià ha mandato il cuore dei
due morti. Due settimane più tardi
nella cattedrale di Granada si celebra una messa solenne in onore dei caduti
di Los Gelves, a cui assiste il re in persona. La
nobiltà affolla la chiesa, ma il duca Felipe è a due passi dal re, come
compete alla sua posizione e al suo ruolo di padre dei due caduti più
illustri. Il duca è stanco e gli
sembra che l’interno della cattedrale sia avvolto in una nebbia che diventa
sempre più fitta. Quando si alza per dirigersi verso l’altare e ricevere la
comunione, cade a terra, senza un lamento. Subito alcuni si
avvicinano per soccorrerlo, ma non c’è più niente da fare: il cuore ha
ceduto. Il corpo viene trasportato a Burgos, per essere sepolto nella
cappella di famiglia, con una cerimonia funebre a cui partecipa tutta la
nobiltà della penisola. Con la sua morte si
estingue la linea maschile della nobile famiglia dei Mendoza de Alvarado y Zúñiga duchi di Casa
Grande. |