Teutoburgo La
battaglia volge alla fine. Ormai non c’è più nessuna speranza per i soldati
romani: dopo tre giorni di combattimento sono stati sconfitti e davanti a
loro ci sono soltanto la morte o la prigionia. Sono fradici per la
pioggia incessante, che trasforma il terreno in un pantano, ostacola i
movimenti e rende difficile perfino mantenere la presa sulle armi. Il vento
li sferza in continuazione. I Germani sono abituati a queste condizioni
climatiche e i loro corpi robusti reggono bene il freddo. Per molti soldati
romani, provenienti da regioni con un clima più mite, anche il tempo è un
nemico contro cui devono combattere. Uno dopo l’altro i soldati
cadono: gli uomini in grado di combattere sono sempre meno. Invece il numero
dei germani aumenta, perché alcune tribù, essendo ormai sicure della
vittoria, hanno deciso di unirsi agli attaccanti, per avere una parte del
bottino. I guerrieri germanici sono animati da un odio feroce nei confronti
degli invasori e non hanno nessuna pietà: vogliono umiliarli e sterminarli. Presi di sorpresa, in un
territorio sconosciuto, i romani non sono stati in grado di organizzarsi e di
difendersi in modo efficace. Tre legioni vengono cancellate tra le paludi e
la foresta di Teutoburgo e i cadaveri dei soldati massacrati rimarranno insepolti. Mario, Tito, Fabio e pochi
altri combattono ancora tra la collina e la palude, in un punto in cui la
pista è molto stretta. Tutti sanno bene che ormai non c’è più niente da fare,
ma non intendono rinunciare a lottare: preferiscono morire in battaglia piuttosto
che diventare schiavi o essere sacrificati in qualche rito sanguinario. Le
voci che circolano sulla ferocia di alcune tribù sono atroci: si parla di
stupri, mutilazioni, umiliazioni di ogni genere. I germani li incalzano in continuazione.
Questi guerrieri, che combattono nudi o con solo il mantello, molto di rado
con una corazza, non lasciano ai soldati romani il tempo di riprendersi. Li
assalgono, uccidono qualche soldato, si ritirano, scomparendo con la stessa
rapidità con cui sono apparsi, per poi tornare nuovamente alla carica. Nell’infuriare dello
scontro, Fabio scopre di essere rimasto isolato. Per quanto sia un soldato
esperto e coraggioso, l’idea di trovarsi da solo ad affrontare il nemico, in
questa foresta cupa, sferzata dalla pioggia, lo angoscia. Si guarda intorno: sembra
davvero non esserci nessuno, i suoi commilitoni giacciono al suolo, morti. Si
allontana, nella speranza di raggiungere altri soldati ancora in grado di
difendersi. Mario, che la battaglia ha
separato da Fabio, ormai è stanco. È alto e robusto, un vero colosso che
incute soggezione ai nemici, ma sono ore che combatte, con pochi attimi di
tregua. Intorno a lui ci sono i corpi di molti compagni e di diversi germani
che ha abbattuto: è un soldato valoroso, ma ormai il suo destino è segnato. Un guerriero dai capelli
rossi, Ceolfrid il Guercio, sbuca da dietro un
albero e lo assale. Ha il viso e parte del corpo nudo ornato con i colori che
alcune tribù utilizzano in battaglia e in mano la corta spada che i germani
usano nel combattimento corpo a corpo. Mario si difende con vigore, nonostante
la stanchezza. La lama del guerriero gli lacera la pelle di un braccio, ma è
una ferita superficiale. Con un movimento rapido, Mario riesce a infilargli
la spada nel fegato e lo vede impallidire e afflosciarsi, mentre ritira
l’arma. Ceolfrid si abbatte al suolo. Mario ha
ucciso un altro avversario, ma non cambia nulla: ormai sono tutti perduti.
Forse sarebbe stato meglio se si fosse lasciato uccidere. Sente un urlo selvaggio e
subito compare un altro guerriero, biondo, con il viso deturpato da una
grande cicatrice che va dalla fronte al labbro superiore. Le guance, la spalla
e il braccio sinistro sono colorati di nero, viola e rosso, i colori della
sua tribù. Le mani, le braccia e il ventre sono sporchi di sangue, ma è
quello dei romani che ha ucciso. L’uomo che è comparso e si
avventa su Mario è Sindulf il Toro, uno dei guerrieri
più valorosi e spietati, che odia tutti i Romani: la sua famiglia fu sterminata
da alcuni soldati di Roma e da allora Sindulf
desidera solo la vendetta. Mario è costretto ad arretrare. Il suo avversario
lo incalza. Mario si difende, ma Sindulf è molto
forte e riesce a colpirlo alla spalla. La lama penetra in profondità e Mario sente
che il braccio non gli risponde più. La spada gli cade di mano. È la fine.
Forse è meglio così, tanto non c’è speranza di salvezza per i soldati romani.
Ora non è più in grado di
difendersi, ma invece di trapassargli il cuore, Sindulf
vibra un colpo alla coscia destra. La gamba non lo regge più e Mario crolla a
terra. L’uomo lo guarda, sorride
e si allontana. Tornerà più tardi, dopo aver ucciso altri nemici, a
completare la sua opera. Mario lo maledice. Non
capisce perché il suo avversario non lo ha finito: per il piacere di sapere
che agonizzerà per ore nel fango? Il dolore pulsa nelle due ferite, alla
spalla e alla coscia, e il corpo è percorso da violenti tremiti. Solo lentamente
la sofferenza si attenua, mentre la pioggia lava via il sangue, che si
mescola al fango. I pochi soldati romani che
ancora stanno combattendo in quel tratto vengono abbattuti, uno dopo l’altro.
Mario li vede cadere e giacere al suolo. Uno degli ultimi a essere colpito è
Tito, che Mario conosce da molti anni: ferito al petto da uno dei giavellotti
corti che i germani usano anche nel combattimento da vicino, crolla a terra.
È ancora vivo, ma il guerriero che l’ha abbattuto si allontana senza badare a
lui. Tito geme per il dolore
alla ferita. Mario tace, stringendo i denti. Sperano entrambi che la morte
arrivi presto. I loro corpi sprofondano nel fango che copre il terreno.
Intorno a loro risuonano i lamenti e le grida rabbiose di qualche soldato
romano o di un guerriero germanico. Con il passare del tempo si sente sempre
meno imprecare in latino e i suoni aspri delle lingue dei germani sono gli
unici a rompere il silenzio. Mario vede un soldato
romano che arretra, incalzato da un colosso dai lunghi capelli biondi. Il
soldato inciampa sul cadavere di un romano abbattuto e cade a terra. Il suo
avversario, Drutmund, gli infila la spada nel
cuore, uccidendolo. Mario pensa che è stato fortunato a morire così. Il guerriero solleva per i
capelli il corpo del soldato e gli cala la spada sul collo, decapitandolo.
Poi, con il pugnale, gli cava gli occhi. Prende la spada del morto, appoggia
la testa contro il tronco di un albero e spinge la lama attraverso la bocca,
fino a inchiodare il capo mozzato al tronco dell’albero. Drutmund
ride, contento del suo trionfo. Poi si prende in mano il cazzo e piscia sul
cadavere decapitato. Drutmund è giovane e porta lunghi i capelli e la
barba: oggi, poiché per la prima volta ha ucciso un nemico, se li taglierà,
com’è uso nella sua tribù. Adesso però, prima che la battaglia abbia fine,
spera di riuscire a uccidere qualche altro romano. Uccidere è bello:
guardando il cadavere decapitato e la testa inchiodata all’albero, Drutmund sente il desiderio salire. Il cazzo gli si sta
tendendo. Potrebbe fottere il morto, ancora caldo, o qualcuno dei soldati
agonizzanti, ma non ora: questa notte, quando la battaglia si sarà conclusa. Mario ha chiuso gli occhi
e non si muove: per quanto desideri la morte, preferisce non essere ucciso da
questo guerriero spietato, che non ha nessun rispetto per il nemico
sconfitto. Drutmund guarda ancora la testa inchiodata sull’albero,
poi osserva il cadavere decapitato steso a terra. Ride e si allontana, il
cazzo proteso in avanti. Dopo un po’ Mario riapre
gli occhi. Anche lui guarda la testa, senza occhi, fissata all’albero.
Rabbrividisce. Sindulf il Toro ha avvistato un altro soldato,
che cerca di allontanarsi: è Fabio, che sperava di incontrare qualche
compagno, ma ha trovato solo cadaveri. Sindulf si
dirige rapido verso di lui, ma vede il bel Vandric,
un guerriero di una tribù rivale, attaccare il romano. - Merda! Sindulf detesta Vandric,
un guerriero molto forte e alquanto apprezzato per il suo valore, ma anche
per la sua maschia bellezza: un uomo di grande successo con le donne, a cui
non disdegnano di offrirsi diversi uomini. Sindulf
non sopporta che sia lui a sottrargli la preda. Quando però raggiunge i due
combattenti, Vandric ha già infilato la sua spada
nel ventre di Fabio, subito sotto la corazza. Il soldato crolla in ginocchio.
Sindulf alza la sua spada e l’abbatte sul collo del
romano morente, decapitandolo. - Che fai, Sindulf? Io l’ho battuto e colpito a morte. Pensi forse
di potermi sottrarre la mia preda? Sindulf ride, una risata tonante. - L’ho decapitato io. - Non ti permetterò di
prendermi ciò che è mio. Sindulf sorride. - Non prendertela, scherzavo.
Ti lascio questa testa: ne ho già raccolte diverse. Il sorriso di Sindulf si allarga. Si muove come se volesse voltarsi, ma,
con un movimento rapidissimo, immerge la spada nel ventre di Vandric. Il guerriero non si aspettava un attacco a
tradimento e non stava in guardia: la lama lo trafigge. Sindulf
estrae l’arma, mentre Vandric barcolla e poi cade
in ginocchio. - Maledetto. È questa la
tua lealtà? Sindulf ride. - Lo desideravo da tempo. Mi
sei sempre stato sul culo, Vandric. Finalmente ti
ho fottuto. Dopo una pausa, Sindulf aggiunge: - Ti ho fottuto con la
spada, ora ti fotto con il cazzo. Ho proprio voglia di gustarmi il tuo culo. Uccidere eccita Sindulf: come altri guerrieri, quando combatte ha spesso
il cazzo duro e adesso, dopo aver colpito Vandric,
non vuole più aspettare. Afferra l’avversario per i capelli e lo spinge
contro il tronco di un albero che una tempesta ha piegato, si
mette dietro di lui e si abbassa un po’, premendo con la cappella contro il
buco del culo. Vandric sente la pressione del grosso
cazzo che forza l’anello di carne e lo viola. Sindulf
è molto dotato e a Vandric pare che sia un palo a
trapassargli le viscere. Sindulf emette un suono,
una specie di grugnito, e incomincia a fotterlo. Il dolore della violenza si
aggiunge a quello, atroce, che sale dal ventre squarciato. Vandric vorrebbe maledire Sindulf,
ma non dice nulla: a che cosa servirebbe? Sindulf
ansima, mentre lo incula selvaggiamente e intanto guarda i cadaveri sparsi
tra gli alberi e la testa del soldato romano inchiodata a un tronco. Lo
spettacolo lo eccita ancora di più. -
Ti piace il cazzo del Toro, Vandric? Ti fa godere,
eh?! Vandric tace. Boccheggia, stordito dal dolore
della ferita, dall’umiliazione che sta subendo. Sindulf insiste: - So
che ti piace. Il cazzo di un vero maschio, grosso, duro, caldo. Ti piace
prendertelo in culo, eh? Vero che ti piace? Vandric mormora: -
Maledetto! Sindulf ride. Poco
dopo emette un grido e il fiotto inonda le viscere di Vandric. Sindulf si appoggia su di lui. Vandric ne sente l’ansimare. Non ha più forze: se
l’albero non lo sostenesse, Vandric crollerebbe a
terra. Sindulf impreca. -
Merda! Peccato che sia finita. Vandric chiude gli occhi. - Ti ho fottuto, troia.
Metterò la tua testa su un palo davanti a casa mia. Ci piscerò sopra tutte le
mattine. Vandric sa che questo è ciò che accadrà. Ogni
giorno subirà l’oltraggio dell’uomo che lo ha colpito a tradimento. Sindulf arretra. Vandric
scivola lungo il tronco dell’albero. Cadrebbe
a terra, ma Sindulf lo afferra per i capelli.
Poi prende il coltello e lo infila nel collo di Vandric,
incominciando a recidere. Il dolore esplode, poi il mondo svanisce. Dopo aver decapitato il
guerriero, Sindulf si china sul cadavere e afferra
il cazzo e i coglioni. Mentre li recide, pensa che ha fatto male a non
tagliarglieli prima, quando Vandric era ancora vivo:
gli sarebbe proprio piaciuto. Infila i coglioni nella bocca del morto,
lasciando che il cazzo sporga tra le labbra. Guarda ancora il cadavere.
Vorrebbe infliggergli un altro sfregio. Vede la spada di Vandric
a terra. La raccoglie, volta il morto sulla pancia e preme la punta contro il
buco del culo, poi spinge. La lama affonda nella carne. Sindulf ride, poi, tenendo la testa per i
capelli, si allontana, felice della sua preda. Uccidere i soldati romani è grandioso,
ma ammazzare e fottere il bel Vandric è stato il
massimo. Il canto dei germani
risuona nuovamente, come è successo più e più volte nei tre giorni della
battaglia. È un canto aspro, intermittente. Pongono gli scudi davanti alla
bocca, per far rimbombare la voce. Il suono angosciante diffonde il terrore
tra i romani ormai sconfitti. Tutto è perduto. Gli
ufficiali riuniti sul fianco della collina discutono sul da farsi. Non hanno
nessuna speranza di ricevere rinforzi e ormai non c’è modo di rovesciare le
sorti della battaglia, né di sfuggire alla morte o alla prigionia. - Non c’è via di scampo! La discussione si accende.
Qualcuno propone: - Dobbiamo arrenderci. - Taci, vile! Meglio darsi
la morte. - E in ogni caso, anche se
ci consegnassimo, non la scamperemmo: probabilmente ci sacrificherebbero agli
dei. O finiremmo schiavi. - Potremmo riscattarci. - Non hanno nessuna pietà,
ci odiano. Compare Publio Quintilio Varo,
governatore e comandante supremo. Ha una ferita alla spalla, ma è ben saldo
sulle gambe. Il suo arrivo spegne la discussione. Guarda in silenzio gli
ufficiali, poi dice, con voce forte e chiara: - Siamo stati sconfitti e
non ci rimane altra via che darci la morte, per sfuggire alla prigionia. Non
obbligo nessuno a uccidersi, chi preferisce arrendersi può farlo, ma solo
morendo possiamo salvare l’onore. Perciò vi esorto a seguire il mio esempio. Davanti agli ufficiali,
Varo si porta la spada al petto e si trafigge. Crolla a terra, agonizzante.
Uno degli ufficiali spinge a fondo la spada, mettendo fine alla sua agonia. Per un momento tutti
rimangono immobili: la fine rapida del comandante li ha sorpresi. L’uomo che un
attimo prima li arringava è solo un cadavere steso nel fango. Uno degli ufficiali si
scuote e dice: - Facciamo una pira
funebre e bruciamo il corpo, altrimenti i germani lo oltraggeranno. Rapidamente alcuni
ufficiali e soldati formano una piccola catasta di legno, ottenuto dai carri
abbandonati. Il corpo viene posto sulla pira funebre. Non è facile accendere
il fuoco: il legno è in parte bagnato, sta ancora piovendo e ci vuole un buon
momento prima che le fiamme si alzino. Infine il fuoco divampa e divora il
cadavere: in questo modo nessuno potrà più vilipendere il morto. Tutti i principali
ufficiali decidono di darsi la morte per sfuggire all’onta della prigionia.
Non è solo la vergogna di cadere prigionieri e diventare schiavi a indurli al
suicidio: sanno che spesso i germani infieriscono sui prigionieri romani e
che molti di loro verrebbero essere sacrificati. Coloro che saranno tenuti in
vita come prigionieri potrebbero essere castrati. Tutti rischiano di essere
stuprati. Rapidamente si
organizzano. Decidono che quattro uomini, scelti a caso, uccideranno gli
altri. Chi non vuole morire, si allontanerà. Lucio Furio, uno degli
ufficiali, braccio destro di Varo, organizza un’estrazione a sorte per
scegliere gli uomini a cui toccherà il compito di uccidere gli altri. I
quattro prescelti sono Antistio, Barbio, Gallico e Faventino. Gli ufficiali si dividono
in quattro gruppi e gli esecutori procedono speditamente a eseguire il loro
compito. Infilano la spada nel petto, trapassando il cuore: per tutti la
morte è rapida. Uno dopo l’altro gli ufficiali cadono al suolo. Presto il
fianco della collina è ricoperto di cadaveri. Per loro non è possibile
allestire pire funebri: i corpi rimangono esposti all’oltraggio da parte dei
nemici. Tra i quattro ufficiali designati
come boia, Antistio è quello che procede più
lentamente. Quando gli altri hanno finito, deve ancora uccidere tre
ufficiali. Concluso il suo compito, Barbio si fa uccidere da Gallico, che poi
s’immerge la spada nel petto. Faventino fa lo
stesso. Ora sono rimasti vivi
soltanto Antistio e uno degli ufficiali che deve
uccidere, Manlio. Si conoscono fin da quando erano bambini, ma tra loro non
c’è mai stato un buon rapporto: sono sempre stati in competizione, nella
carriera militare come con le donne, e Antistio ha
sempre detestato il rivale, più dotato e di maggior successo. Manlio guarda Antistio. Sa che il compagno lo odia, ma di fronte alla
sconfitta e alla morte la loro rivalità gli appare priva di senso. - Uccidimi, Antistio. Sorride e aggiunge: - In fondo è quello che
hai sempre desiderato. Antistio sorride. - È vero. Solleva la spada, ma
invece di trafiggere il petto, come ha fatto con gli altri, la immerge nel basso
ventre, con tanta forza che la punta esce dal culo. Poi estrae la lama, mentre
sul suo viso appare un ghigno. Manlio crolla in
ginocchio, le mani sulla ferita. - Merda! Antistio ride. - È stato un piacere,
davvero, Manlio. Sarai ancora vivo quando arriveranno i barbari e ci
penseranno loro a finirti. - Bastardo! Antistio scuote la testa, sorridendo: la rabbia
impotente e la disperazione che vibrano nella voce di Manlio gli trasmettono
un intenso piacere.. - Vorrei godermi la tua
agonia, ma voglio cercare di salvare la pelle, per cui adesso ho altro a cui
pensare. - Vigliacco! Antistio ride nuovamente e si allontana. Manlio oscilla e infine
cade al suolo, un dolore atroce al ventre. Non si aspettava che l’odio di Antistio nei suoi confronti fosse così forte. Quel vigliacco cerca la
salvezza nella fuga. Manlio spera che i germani lo catturino. Si guarda intorno, alla
ricerca di un’arma, perché vorrebbe darsi la morte, ma non ha più forze:
anche se riuscisse a impadronirsi di una spada, non riuscirebbe a uccidersi. La notizia del suicidio
degli ufficiali si diffonde tra i soldati che ancora combattono e toglie loro
le ultime speranze. Alcuni scelgono di darsi la morte o di farsi uccidere dai
compagni. I guerrieri germanici s’inerpicano
sul fianco della collina, senza incontrare resistenza: non ci sono più uomini
vivi, a parte Manlio e due soldati moribondi. I germani osservano i
cadaveri degli ufficiali. Hanno capito che i loro avversari hanno preferito
uccidersi. Ridono. Munric il Feroce osserva: - Ci hanno risparmiato il
lavoro. Gli risponde Dagaric: - Peccato, mi sarebbe
piaciuto ammazzarne un po’. Avrei messo volentieri qualcuna delle loro teste
davanti alla mia casa. I guerrieri espongono
davanti alle proprie abitazioni le teste dei nemici, infilzate su pali, ma
devono averli uccisi con le proprie mani. - Le metteremo sui pali
dei recinti sacri e costruiremo gli altari per i sacrifici. I germani si mettono al lavoro.
Romeric e Hachhilt calano
le loro asce sul collo dei romani, decapitandoli. Munric
e Runfrid con i loro pugnali castrano i corpi.
Cazzi e coglioni vengono infilati nelle bocche dei morti, ma a un certo punto
Runfrid l’Impudente osserva: - Magari a questo piaceva
succhiare il cazzo di un altro. Prende i genitali di un
ufficiale e li infila nella bocca di quello di cui tiene in mano la testa.
Poi ride e incomincia a giocare con i cazzi e i coglioni tagliati: nella
bocca di uno infila due cazzi, in un’altra quattro coglioni. E mentre lo fa
ride. Anche Romeric
ride. Gli altri scuotono la testa, sorridendo: Runfrid
ha sempre delle trovate divertenti. Dagaric arriva là dove giace Manlio. - Questo è ancora vivo! Munric! Romeric! Runfrid! Venite qui. Diversi guerrieri si
avvicinano. Steso a terra, Manlio li guarda. Nei suoi occhi i germani possono
leggere il terrore. - Ce lo facciamo? Ho
proprio voglia di fottere. - Non è una cattiva idea. - Sì, dai. Un bel culo
romano è quello che ci vuole. - Mettiamolo in posizione. I guerrieri trascinano
alcuni cadaveri. Ne dispongono due affiancati e ne mettono altri due sopra.
Poi afferrano Manlio e lo pongono sopra i morti, in modo che abbia il culo
sollevato e le gambe ben aperte. Dal buco del culo di
Manlio colano sangue e merda: la ferita inferta da Antistio
ha lacerato l’intestino. Uno dei guerrieri passa un lembo di stoffa per
pulire. Manlio mormora: - Bastardi! Maledetti! Dagaric dice: - Lo castriamo subito o
prima gli facciamo gustare un po’ di cazzi? Manlio capisce il
significato delle parole: conosce un po’ la lingua dei Germani. Rabbrividisce.
Conosce la ferocia di cui molti guerrieri danno prova. È uno dei motivi per
cui gli ufficiali hanno preferito darsi la morte. A Dagaric
risponde Tancbert: - Castriamolo dopo il
primo giro. Dagaric è il primo. Manlio riesce a soffocare i
gemiti che gli salgono alle labbra. Poi lo prende Munric.
Quando è il turno di Romeric, che è dotato come un cavallo,
l’ingresso gli strappa un grido. Il guerriero ride, soddisfatto, mentre fotte
con grande energia. Altri guerrieri arrivano e
si uniscono a loro. Tra Aganfred
ed Eolf si scatena una lite: Eolf
è arrivato prima, ma Aganfred è un capotribù e
ritiene di aver diritto di fottere il prigioniero prima degli altri. Gli
uomini della sua tribù gli cedono il posto, ma Eolf
si rifiuta. - Bada, Eolf, non tollero una simile offesa. - Non hai nessun potere su
di me. Gli uomini che aspettano
il loro turno e quelli che hanno già goduto guardano i due contendenti. La
battaglia ormai è conclusa, ma sono ancora tutti eccitati dalla vittoria e
dalla strage. Il sangue chiede altro sangue. Invece di mettere pace, aizzano i
due contendenti. - Bravo, Eolf, non farti mettere i piedi addosso! - Sei un capo, Aganfred: non puoi cedere! Eolf e Aganfred si
rendono conto che ormai non possono cedere senza perdere la faccia. Sguainano
le loro corte spade. - La risolveremo così. Il duello non è lungo.
Dopo due schermaglie, Aganfred attacca e si scopre.
Eolf si muove rapido e il suo colpo raggiunge Aganfred alla coscia. Il guerriero barcolla e quasi cade
in ginocchio. Vedendo il rivale sbilanciato,
Eolf si lancia in un rapido attacco, ma Aganfred lo sorprende avanzando a sua volta. Para il
colpo vibrato da Eolf e poi muove la spada, infilandogliela
nel ventre, con tanta forza che la spada esce dalla schiena. Il dolore è un
fulmine che schianta Eolf: Aganfred
lo ha colpito a morte e ora lo finirà, poi gli taglierà la testa. Hanno vinto
la battaglia, ma la ricompensa di Eolf è la morte. Eolf barcolla, si volta, stordito dal dolore,
dando la schiena al suo avversario. Il desiderio si accende in Aganfred. Fa un passo avanti, afferra Eolf
e lo trafigge: la spada gli entra nella schiena ed esce dal petto. Eolf lascia cadere l’arma e crollerebbe, se Aganfred non lo sostenesse. Aganfred appoggia il corpo sul cadavere di un
ufficiale, gli allarga le gambe e lo incula con una spinta decisa. Eolf alza il viso, contratto in una smorfia di dolore. - Volevi fottere prima di me?
Fottiamo insieme. Spero che tu sia contento. Aganfred ride. Fotte a lungo, poi quando
ha finito si alza. Ha il cazzo sporco di merda e sangue, ma non se ne
preoccupa. Alza la spada e la cala con forza sul collo di Eolf:
la metterà su un palo davanti alla sua casa. Nessuno dice nulla: il
duello è stato leale ed Eolf ha avuto la peggio. I guerrieri continuano a
fottere Manlio. Quando l’ultimo ha concluso, Dagaric
afferra i genitali di Manlio e li recide. Manlio grida, ma il suo grido si
spegne presto: ormai sta morendo. Dopo averlo castrato, Dagaric
gli cala la spada sul collo e lo decapita, poi, usando la spada di un soldato
romano, inchioda la testa dell’ufficiale a un albero: non la metterà davanti
alla sua casa, perché Manlio è stato abbattuto da un altro; Dagaric si è limitato a finirlo. L’annuncio della disfatta giunge
anche all’accampamento che i romani hanno costruito prima di avviarsi verso
la morte nella selva di Teutoburgo. Non è una fortificazione fissa: è servita
per permettere di riposarsi nella pausa della marcia e solo in futuro sarebbe
dovuta diventare il nucleo di una nuova colonia romana. Al suo interno sono stati
lasciati solo pochi uomini, al comando di Sesto, un ufficiale iberico, molto
alto e forte: un vero marcantonio. Due soldati arrivano
trafelati, annunciando che l’armata è stata sbaragliata, le legioni massacrate
e il comandante e gli ufficiali hanno scelto di uccidersi per sottrarsi alla
prigionia o a una morte umiliante. Sesto e i soldati
ascoltano increduli la notizia. Poco dopo arriva un altro sopravvissuto, che conferma
quanto è stato detto: Varo e tutti gli ufficiali si sono uccisi. Aggiunge che
molti guerrieri si stanno muovendo verso l’accampamento per distruggerlo e
che presto arriveranno. Non c’è modo di difendersi: sono troppi pochi e la
fortificazione verrà facilmente espugnata. Sesto si rivolge ai
soldati: - La nostra sorte è
segnata. Se saremo catturati ci aspetta la schiavitù o la morte. Io vi
consiglio di prendere esempio dai nostri comandanti e darvi la morte, ma non
obbligo nessuno. Se preferite diventare schiavi, potete rimanere o cercare di
fuggire, anche se non credo che possiate scampare in queste terre ostili:
dopo questa disfatta ogni romano è una preda. Sesto esita un attimo, poi
aggiunge: - Per evitare che i nostri
corpi vengano mutilati e oltraggiati, propongo di costruire una pira su cui
bruciarli. Sarà la nostra pira funebre. I soldati annuiscono.
Eseguendo gli ordini di Sesto, portano la legna per la grande pira e la
preparano. Non piove più e la legna era al riparo sotto un telone, per cui
non sarà difficile accendere il fuoco. Sesto parla ancora: - Chi di voi vuole darsi
la morte, salga sulla pira e lo faccia. Se qualcuno preferisce essere ucciso,
posso farlo io, poi accenderò la pira. Chi preferisce la prigionia o vuole
provare a fuggire, si allontani ora. Qui rimangono coloro che tra poco
saranno morti. Pochi scelgono di
allontanarsi, sperando di sfuggire ai germani. Decio, un valoroso soldato
della Tracia, si spoglia completamente. Sesto ne guarda il corpo forte,
coperto da un fitto pelame scuro, e il grosso cazzo. Decio è un vero toro. Decio afferra la spada e
sale sulla pira. Senza esitare si colpisce al petto con la spada e fa in modo
che cadendo il suo stesso peso faccia penetrare la spada ancora più a fondo. Dopo di lui, Lucio si
toglie tutti gli abiti, e sale sulla pira. Guarda il cadavere di Decio, la
lama insanguinata che sporge dalla schiena. Si colpisce anche lui al petto,
ma cade malamente e la spada non penetra a fondo. - Finitemi… Sesto! Sesto sale sulla pira,
solleva la spada e la abbatte sul capo di Lucio, quasi staccandolo. Altri tre soldati si
uccidono. Gli ultimi quattro si rivolgono a Sesto.: - Fallo tu. Si spogliano anche loro,
salgono sulla catasta di legno, s’inginocchiano. Sesto li decapita, uno dopo
l’altro. Nell’accampamento sono
rimasti solo Sesto e Cornelio, il suo amante. Cornelio non ha detto niente.
Sesto dà fuoco alla pira. Le fiamme incominciano a bruciare la legna secca e
i cadaveri. Sesto si volge a Cornelio,
che lo guarda e dice: - Fallo tu, Sesto, ma
prima di farlo, vorrei che un’ultima volta tu mi prendessi. Sesto annuisce. Prima di
morire, vuole gustare ancora il culo dell’uomo che ama. Si spostano in una tenda
vicina. Si spogliano entrambi, si guardano e sorridono. Poi Cornelio si
stende su una stuoia, allargando le gambe. Sesto
guarda il culo di Cornelio. È un bel culo, appena velato da una peluria
leggera. Sesto afferra le natiche con le mani e le stringe con forza. Gli
piace sentire la carne calda e morbida che cede sotto la pressione delle sue
dita. Come tra poco cederà alla pressione del suo cazzo. Sesto
sputa due volte sul solco, poca sopra l’apertura. Osserva la saliva che cola
e la sparge con un dito. Si sputa ancora sulla mano e inumidisce la cappella.
Poi si stende sul corpo di Cornelio, stringe il culo con le dita e spinge il
cazzo in avanti, fino a che dilata l’apertura. Cornelio
sussulta: Sesto è stato irruente e il suo cazzo è grosso Sesto
si ritira, poi spinge di nuovo il cazzo e lo fa entrare, questa volta con
lentezza. Cornelio sospira. -
Sì, Sesto, sì, così. Sesto
continua a spingere, lentamente, dando a Cornelio il tempo di abituarsi. Poi,
quando è giunto al fondo, incomincia la sua cavalcata, a un ritmo deciso. Cornelio
lo incoraggia. -
Sì, sì! Dai! Sesto
spinge con vigore, avanti e indietro, facendo affondare il cazzo fino a che i
coglioni battono contro il culo di Cornelio, poi ritraendosi completamente.
Per tre volte esce e s’immerge nuovamente nel bel culo caldo che lo accoglie.
A tratti Cornelio muove i fianchi, assecondando il movimento di Sesto. La
tensione cresce fino a diventare intollerabile e infine esplode in una
successione di spinte frenetiche e in un’ondata di piacere che lascia Sesto
esausto. Il grido di Cornelio gli dice che anche il suo compagno è venuto. Ora, deve farlo ora. Sesto
afferra il pugnale e con un movimento rapido, lo infila nel collo di Cornelio,
recidendogli l’aorta. - Addio, amico mio. Poi si alza. Guarda il
corpo che ha posseduto, il corpo dell’uomo che amava. Il dolore lo schianta,
ma la morte ormai è vicina. Si china, solleva il cadavere e se lo mette in
spalla. Si dirige verso la pira, da cui si leva un fumo nero e un lezzo di
carne che brucia. Pensa che presto anche il suo corpo arderà su quella pira. Solleva il cadavere con le
braccia possenti e lo scaglia nelle fiamme che già stanno divorando gli altri
corpi. Sorride. Solo quando si china per
raccogliere la sua spada si accorge che i germani sono arrivati. Prima che
sia riuscito a prendere l’arma, gli sono addosso. La lotta è breve: per
quanto Sesto sia forte, non può fronteggiare una ventina di guerrieri. Sesto
si dibatte, sperando di costringere i suoi avversari a ucciderlo, ma i
germani preferiscono non usare le armi: vogliono un prigioniero vivo, da
poter fottere e poi umiliare, non un cadavere come quelli che bruciano sulla
pira funebre. Alcuni pugni al ventre e
due ginocchiate ai coglioni non sono sufficienti a piegare Sesto, ma Teudrad uno dei guerrieri, un vero Ercole, gli stringe il
braccio intorno al collo. Sesto sente che gli manca il respiro. Spera di
morire soffocato, ma sa che è un’illusione. I guerrieri guidati da Gaufrid l’Orso sono contenti di aver raggiunto
l’accampamento prima degli altri e di averlo trovato intatto: si dedicheranno
al saccheggio. Sono invece furenti con Sesto, perché speravano di trovare un
buon numero di soldati da fottere e fare schiavi, invece ci sono solo
cadaveri che ardono e questo prigioniero, a cui legano saldamente le braccia
e le mani, dietro la schiena, e le caviglie. Gaufrid sguinzaglia i suoi uomini, che s’impadroniscono
di tutto ciò che può avere un valore e lo raccolgono in una tenda. Non ci
sono oggetti d’oro e d’argento, ma ci sono parecchi manufatti che i guerrieri
sono ben contenti di poter prendere, oltre ai cavalli. Quando hanno finito, Gaufrid dà ordine di portare Sesto nella tenda. Lo
sistemano con il petto su uno sgabello e lo forzano ad allargare le gambe. Sesto
cerca di alzarsi, ma quattro soldati lo tengono in posizione e il romano, con
le mani legate dietro la schiena, non può liberarsi. Sente Gaufrid stendersi su di lui e poi avverte la pressione
del cazzo del guerriero contro il buco del culo. Gaufrid entra con una spinta decisa e Sesto fa
fatica a non urlare. Il guerriero fotte il comandante nemico con grande gusto
e Sesto sente il cazzo dell’uomo lacerargli le viscere. Si morde il labbro. Gaufrid ci dà dentro e quando infine viene e si ritrae,
ha il cazzo sporco di sangue. Il suo posto è preso da Teudrad.
L’ingresso strappa un gemito a Sesto. Il cazzo scava nella carne martoriata,
a fondo. Il dolore cresce. Teudrad continua a
fottere e infine viene, con un urlo di soddisfazione. Anche lui ha la
cappella insanguinata. Dopo di loro gli altri
uomini inculano il comandante. Quando tutti e venti
l’hanno preso, Gaufrid dice: - Questa troia è stata ben
contenta di farsi fottere da un po’ di veri maschi. Però una troia non ha
cazzo e coglioni, quella è roba da maschi. Sesto non capisce le parole
di Gaufrid, ma quando sente le mani del guerriero
afferrargli i coglioni, sussulta: sa che molte tribù usano castrare i nemici. - No, no! Gaufrid stringe con forza. Sesto sente il dolore
crescere e cerca di dibattersi, ma gli uomini lo tengono fermo. Infine i
coglioni cedono, prima il destro, poi il sinistro. Sesto grida, disperato. Gaufrid prende il coltello e recide il cazzo
alla base, Sesto grida ancora: - Uccidetemi! Lo afferrano per le
ascelle e lo trascinano fino alla latrina del campo. Il corpo lascia una scia
di sangue sulla terra. - Ora di crepare nella
merda! Per uno stronzo, è il posto giusto. A un cenno di Gaufrid gli uomini gettano il soldato nella latrina. Sesto non può muovere le
braccia, saldamente legate dietro la schiena, né le gambe. Sprofonda nel
liquame. Piscio e merda gli riempiono la bocca mentre cerca di respirare. È
una morte orrenda, ma meglio questa morte che continuare a vivere. Gaufrid osserva il corpo scomparire nella merda.
Ride e torna alla tenda. Caricano il bottino su un carro trainato da due
cavalli e si dirigono verso l’ingresso dell’accampamento con i cavalli e
quanto hanno razziato. Stanno per uscire, quando
irrompono numerosi guerrieri: sono gli uomini della tribù di Baudulf, il Lupo. Gaufrid si tende: conosce bene Baudulf, un mezzo brigante, che non ha onore e non ha
partecipato alla battaglia. Gaufrid ha una ventina
di uomini, quelli di Baudulf sono almeno
un’ottantina. Baudulf gli si avvicina, sorridente: - Allora, Gaufrid, hai razziato il campo romano. - Esatto. Sono arrivato
per primo e ho preso ciò che volevo. - Non mi dire che non ci
hai lasciato niente… - Troverai stoffe, metalli
e tante altre cose. - Stoffe… metalli… e
questi bei cavalli. - Non so se ce ne sono
altri. - Non lo sai?
Controlliamo. Baudulf si rivolge ai suoi uomini: - Horscolf,
Jordildis, Liopdag, Mainard, controllate se sono rimasti cavalli e se i
nostri amici ci hanno lasciato qualche cosa. I quattro uomini si
muovono rapidi. Gli altri rimangono all’ingresso, bloccando il passaggio. Gaufrid dice, a denti stretti: - Siamo arrivati per primi
e abbiamo razziato, com’era nostro diritto. - Certo, certo. Tuo
diritto. Ma anche noi abbiamo diritto ad avere qualche cosa. - Dovremmo darvi una parte
del nostro bottino? È un mezzo cedimento, Gaufrid lo sa benissimo, ma spera ancora di riuscire a
salvare se stesso e i suoi uomini. Baudulf ride. - Una parte del bottino?
Cazzo, Gaufrid! Dividendolo tutto tra di noi, ne
avremmo ben poco. E dovremmo pure lasciarne una parte a te? Gli uomini di Gaufrid sanno che la loro ora è giunta. Cedere
completamente il bottino sarebbe una vergogna e probabilmente non li
salverebbe dalla morte: Baudulf e i suoi uomini
hanno sete di sangue, glielo si legge in faccia. Già ad alcuni si tende il
cazzo, come a molti avviene prima di uno scontro mortale. I quattro uomini inviati
da Baudulf ritornano: - Non ci sono più cavalli.
E c’è ben poco che valga la pena. Baudulf sorride: - Temo allora, Orso, che
dovrai cederci il tutto. Gaufrid annuisce. Sguaina la spada e dice: - Venite a prenderlo. Gaufrid e i suoi uomini sono intenzionati a
vendere cara la pelle. Sono valorosi e si dispongono in cerchio, in modo da
proteggersi le spalle a vicenda, ma sanno di non avere nessuna speranza. Com’era prevedibile, il
combattimento non dura a lungo: per ogni uomo di Gaufrid,
ci sono tre o quattro guerrieri di Baudulf, che
attaccano tutti insieme. Dopo che i primi sono caduti, gli uomini del Lupo
entrano nel cerchio e colpiscono alle spalle i guerrieri di Gaufrid, impegnati ad affrontare altri avversari. Nonostante
il loro valore, l’Orso e i suoi guerrieri vengono rapidamente sconfitti. Ora a terra ci sono i
cadaveri di venticinque uomini: tutti quelli di Gaufrid
e cinque di Baudulf. L’Orso è ancora vivo, in
ginocchio, con quattro ferite sanguinanti: alla coscia destra, al fianco
sinistro, al braccio destro e alla schiena. Non ne ha più per molto. Non dice
nulla. Guarda il lupo e sputa a terra in segno di disprezzo. Baudulf dice ciò che Gaufrid
si attendeva: - Mettetelo in posizione,
che lo fottiamo. Forzano Gaufrid a poggiare il torace sul carro, poi Baudulf lo incula. Dopo di lui lo fanno tutti gli altri,
ma l’Orso non è più cosciente. Gli ultimi lo fottono già morto. Baudulf lo castra e lo decapita: metterà la
testa davanti alla sua abitazione. Caricano i propri morti su
un secondo carro e si allontanano con il bottino. Quando altri guerrieri
arrivano, trovano all’ingresso dell’accampamento una ventina di cadaveri. Gli
uomini di Frodwin li osservano stupiti, poi domande
e commenti si intrecciano. - Questi sono dei nostri. - Chi li ha uccisi? - Chi sono? È Frodwin
stesso a rispondere: - Il cadavere decapitato è
quello di Gaufrid. Riconosco il tatuaggio. Sono
stati uccisi dagli uomini di qualche altra tribù, probabilmente per il
bottino. Uno dei guerrieri osserva: - Mi sa che sia opera di Baudulf. - È probabile. In
battaglia non lo abbiamo visto, ma quando si tratta di razziare, c’è sempre. - Il Lupo è un figlio di
puttana! Antistio cammina da diverse ora, sprofondando nel
fango. È riuscito ad allontanarsi dalla collina dove gli ufficiali si sono
dati la morte, ma sa bene di essere sempre in pericolo. Si muove con cautela:
le sue possibilità di salvarsi sono minime e la sua sorte dipende dal caso,
perché può imbattersi in qualsiasi momento in un gruppo di guerrieri. Da due
ore non piove più e si è alzato un vento forte, a raffiche.
Le nuvole temporalesche che a nord coprono il cielo si avvicinano e presto
pioverà di nuovo anche nell’area dove si trova Antistio. Camminare sul terreno fangoso
senza cadere richiede un grande sforzo e l’ufficiale è esausto: tre giorni di
combattimenti, due notti di scarso riposo e le lunghe ore di marcia nel fango
lo hanno fiaccato. A un certo punto vede un
guerriero e si infila rapidamente dove il bosco è più fitto. Wandefrid però ha fatto in tempo a scorgerlo. Corre dove
l’ha visto scomparire, ma l’ufficiale si è nascosto. Mentre Wandefrid si guarda intorno, arrivano altri guerrieri:
sono una dozzina, guidati da Cheitmar. - Poco fa c’era un soldato
romano qui. Ma è scomparso. Cheitmar sorride: - Ottimo: possiamo fare
una bella caccia Si sguinzagliano,
dividendosi in gruppi di due o tre: conoscono bene l’area e contano di
catturare la preda. In due occasioni un gruppo
avvista in lontananza Antistio, che riesce ancora a
sfuggire, nascondendosi nel folto della foresta, ma sa di essere perduto: è
esausto, non conosce il territorio e i suoi inseguitori sono troppo numerosi.
Nonostante la stanchezza, non cede, anche se ormai si muove a fatica
e non è più in grado di correre e neppure di camminare velocemente. I suoi
inseguitori prima o poi lo ritroveranno e questa volta non riuscirà più a sottrarsi
alla morte. Spera di riuscire almeno a uccidere alcuni di quelli che gli
danno la caccia. Si
ferma ai piedi di una grande quercia. In quel momento la pioggia riprende a
scendere. Prima sono solo poche gocce, ma presto diventa un diluvio. Antistio non riesce più a stare in piedi, ha
l’impressione che la massa d’acqua che scende lo schiacci al suolo. Si siede
sul tronco di un albero abbattuto, senza curarsi della pioggia che scroscia.
Guarda la spada. Si chiede se uccidersi. Il boato di un tuono lo fa
sussultare. Altri fulmini si susseguono. Le nuvole hanno coperto il cielo,
compatte, e sembra che sia notte, una notte che solo i lampi squarciano. La
pioggia scende violenta, obliqua, a raffiche, Mentre
a fatica si alza, li vede arrivare: una decina di guerrieri armati di lance,
spade e pugnali. Ora
sono intorno a Antistio, che li minaccia con la
spada, raccogliendo le sue ultime forze. Galhart non
ha difficoltà a deviare la lama e colpirlo, immergendogli la spada nel
ventre. La spinge con forza e la punta emerge dalla schiena. Antistio barcolla. Lascia cadere la spada. Galhart estrae la lama. Antistio
cade in ginocchio, le mani sulla ferita. Galhart alza la spada per decapitarlo, ma Cheitmar gli dice: -
Aspetta. Poi
fa un cenno a Hartman, che molla un violento calcio
in faccia ad Antistio. Questi cade all’indietro: il
sangue schizza dal naso e dalla bocca, ma la pioggia violenta lo lava via.
Poi il comandante si china e afferra il cazzo e i coglioni del romano in una
mano. Antistio grida: -
No! Con
il coltello Hartman recide i genitali. Antistio emette un lamento prolungato,
interrotto da singhiozzi. Hartman volta Antistio
sulla pancia, preme la punta della spada contro il buco del culo e poi con un
movimento brusco spinge dentro la lama. Antistio
grida. Hartman si ferma solo quando l’elsa tocca il
culo di Antistio. Allora estrae l’arma. Antistio geme, poi il sangue gli esce dalla
bocca e il corpo rimane immobile, sotto il muro d’acqua che cala dal cielo,
tra il fragore dei tuoni e la luce accecante dei lampi. Afferrano il cadavere per
le ascelle e lo trascinano fino all’accampamento, dove verrà lavato, svuotato
delle interiora e poi messo a cuocere su uno spiedo: questa notte, intorno al
fuoco, i cacciatori mangeranno la preda che hanno abbattuto. La notte è scesa. Il cielo
ora è sgombro e la luna illumina la foresta disseminata di cadaveri. Numerosi guerrieri si
muovono tra gli alberi, per finire i moribondi, per impadronirsi di ciò che
c’è di valore. Tito vede due guerrieri
che arrivano. Decapitano i cadaveri dei soldati romani e li castrano.
Talvolta inchiodano le teste agli alberi, utilizzando le spade dei morti.
Altre volte mettono le teste in un sacco, dopo avergli infilato i cazzi e i
coglioni in bocca. Tito è angosciato: desidera solo la morte, ma non vuole
essere castrato ancora vivo. Mario è sprofondato in un
torpore che è diventato un sonno inquieto. A svegliarlo è un getto che lo
prende in faccia. Mario scuote la testa. Apre gli occhi e subito li richiude
per sottrarli al piscio che scende. Quando non sente più il getto, li riapre.
Alla luce incerta della luna gli sembra che a pisciargli in faccia sia stato
il guerriero che lo ha abbattuto. Sindulf il Toro si china sul soldato romano che
ha ridestato. Ora che è più vicino, Mario ha l’impressione che ci sia un
ghigno sulla faccia. Sindulf gli dice qualche cosa che Mario non
capisce, poi gli afferra il cazzo e i coglioni con la sinistra e gli mostra
il pugnale che tiene nella destra. Gli occhi di Mario si dilatano per il
terrore. Non può essere! Non può castrarlo! No! Ma l’uomo avvicina la lama
e Mario grida: - No, no! Sente il dolore violento
della carne lacerata. Grida ancora. Il suo grido roco, disperato, suscita il
riso dell’uomo che lo sta castrando. Il pugnale prosegue la sua opera, fino a
che Sindulf alza in segno di trionfo il braccio con
la mano che stringe i genitali di Mario. Il dolore è atroce. Il soldato geme
e singhiozza. - Merda! Sindulf lo volta con un calcio. Il dolore delle
ferite si riaccende per il movimento brusco. L’uomo gli allarga le gambe. Mario
intuisce: sta per essere stuprato. Grida ancora: - No! Sindulf ride, si stende su di lui, gli solleva
la testa, afferrandola per i capelli, e gli preme il cazzo e i coglioni nella
bocca spalancata. Poi, con un movimento brusco, spinge il suo grosso cazzo
attraverso il buco del culo. Mario ha la sensazione di una lama che lo
penetra, squarciando. Ha un conato di vomito. Vorrebbe sputare i genitali che
gli riempiono la bocca, ma non ci riesce, perché la mano di Sindulf glielo impedisce. Il Toro fotte a lungo.
Quando infine conclude, si lascia andare sul corpo del soldato. Poi si alza,
raccoglie la spada di Mario e preme la punta contro il buco del culo del
soldato romano. Mario scuote la testa, in un gesto di impotente disperazione,
mentre il guerriero spinge con forza la lama. Il dolore cresce ancora,
ma Sindulf estrae la lama e la cala con forza sul
collo di Mario, decapitandolo. Tito ha seguito tutta la
scena. Si è sentito gelare. La morte di Mario è stata orribile, indegna di un
soldato coraggioso. Finirà anche lui così? Sindulf si allontana tenendo in mano la testa di
Mario, dalla cui bocca pende il cazzo. La metterà su un palo, di fronte alla
porta della sua abitazione, dove già ci sono le teste di altri nemici
abbattuti: Sindulf è un grande guerriero e le teste
dei nemici uccisi sono la testimonianza del suo valore. Quelle di Mario, di Vandric e di alcuni romani uccisi in questi giorni
arricchiranno la sua collezione e il suo prestigio. Due guerrieri arrivano:
non sono gli stessi di prima. Si guardano intorno, si chinano sui corpi. Ne
toccano uno o due, scuotendo la testa. Raggiungono anche Tito, che li guarda. - Questo è ancora vivo. - Ottimo. I due si chinano su di lui
e lo spogliano rapidamente. Quando è nudo, lo voltano sulla pancia. Tito intuisce:
ha sentito dire che dopo una battaglia spesso i guerrieri cercano nemici
ancora vivi da fottere: la battaglia li eccita e fottere i nemici è un modo
per godere e nello stesso tempo umiliare i gli sconfitti. Tito vorrebbe sottrarsi,
ma non gli è possibile. Dopo averlo stuprato, lo castreranno, come hanno
fatto con Mario? Il primo guerriero entra
con violenza. Tito geme. L’uomo fotte a lungo, con spinte brutali, che
strappano gemiti al soldato. Quando infine viene, cede il posto all’altro,
che non è meno bestiale e va avanti molto a lungo. Quando hanno finito, i due
guerrieri pisciano sulla testa di Tito, ridendo. Poi si allontanano
chiacchierando. Tito rimane disteso sulla pancia. Sperava che lo uccidessero. Non molto tempo dopo
arrivano altri due uomini. Uno ha un sacco, l’altro una lama, una specie di
corta spada, da cui cola sangue. Tito non si accorge del loro arrivo: non è
pienamente cosciente ed è disteso prono, per cui vede poco ciò che succede
intorno. L’uomo colpisce con un
calcio Tito, voltandolo sulla schiena. Il dolore violento risveglia il
soldato, che geme. Guarda le due grandi figura scure che incombono su di lui.
Uno degli uomini si china e gli afferra il cazzo e i coglioni. - No! L’uomo ride e dice qualche
cosa che Tito non capisce. Poi lo ripete in latino: - Vi castriamo tutti, vivi
e morti. Senza cazzo e senza coglioni vagherete sulla terra come spiriti
senza pace. Il soldato sente la lama
premere contro la carne, poi un dolore atroce. L’uomo gli mostra il cazzo
e i coglioni che ha reciso e ride. Poi getta il trofeo nel sacco che l’altro
tiene aperto. Tito implora: - Finiscimi! - Tra poco verranno quelli
che si occupano di finire i morti. L’uomo ride ancora e si
allontana con l’altro. Scherzano sui romani che sono stati sconfitti:
l’imperatore ha mandato a combattere femmine, non maschi. Tito agonizza. Ondate di
dolore lo sommergono. Vuole solo morire. Infine vede arrivare altri
due uomini. Sono loro che metteranno fine alle sue sofferenze? Ora sono di fianco a lui. - Questo è ancora vivo. Tito non può capire che
cosa dice l’uomo. Lo vede prendere la lancia, poi ancora una volta un calcio
lo volta sulla pancia. Sente contro il buco del culo la pressione della punta
e capisce. Ormai vuole solo finire, ma rifiuta questa morte indegna di un
soldato. Ha combattuto valorosamente, perché umiliarlo in questo modo? Grida:
- No! La lancia penetra nel
culo, affondando nelle viscere. Tito emette un ultimo grido, che si spegne in
un rantolo. L’altro guerriero lo decapita
e inchioda la sua testa a un albero, infilandogli in bocca la sua stessa
spada. I romani sopravvissuti
sono stati catturati: pochissimi vagano ancora nei boschi cercando di
scampare ai guerrieri che cercano i fuggitivi. Dei prigionieri, alcuni
sono distribuiti tra i vari capitribù, mentre altri sono destinati ai grandi
sacrifici di ringraziamento agli dei, che hanno assicurato ai Germani la
vittoria sui Romani. Sacrifici minori saranno effettuati dalle diverse tribù,
al rientro nelle loro terre. I riti sono di diverso
tipo e si svolgono in aree differenti. Sei prigionieri vengono
portati nei boschi, completamente nudi, con le mani saldamente legate dietro
la schiena. Tra questi vi sono Emilio e Prisco, due amici che hanno
combattuto insieme e che infine si sono arresi, sperando di poter un giorno
essere riscattati. Camminano in silenzio tra gli alberi, scortati da una
ventina di guerrieri. Guardano intorno a loro,
angosciati. In diversi punti il terreno è coperto dai cadaveri dei loro
commilitoni, che sono stati spogliati, decapitati e mutilati. Inchiodate ai
tronchi degli alberi o poste sulle biforcazioni dei rami ci sono le teste dei
romani morti. Diverse hanno in bocca i genitali. Emilio rabbrividisce.
Prisco esprime il pensiero di entrambi: - Sarebbe stato meglio se
ci avessero uccisi in battaglia. Emilio annuisce. Vorrebbe
dire che non devono perdere la speranza, ma sarebbe assurdo: sanno entrambi che
per loro c’è solo la morte. Guarda sgomento due dei guerrieri, che portano
lunghe corde arrotolate. Che cosa intendono farne? Arrivano a un’ampia
radura, in cui si è combattuto. I cadaveri sono però stati spostati a un
margine, per cui la parte centrale è libera. Uno dei guerrieri si
rivolge a Emilio e altri due prigionieri. - Inginocchiatevi. Emilio e uno dei soldati
obbediscono. L’altro esita e viene spintonato. Dietro di loro si mette un
guerriero. Prisco intuisce. Vorrebbe urlare, ma a che servirebbe? Il guerriero cala la spada
sul collo di Emilio, decapitandolo, poi fa lo stesso con il secondo
prigioniero. Il terzo, quello che aveva opposto resistenza, si solleva di
scatto e cerca di fuggire. È un tentativo risibile: viene subito afferrato e
costretto a inginocchiarsi. La spada gli stacca la testa. Prisco pensa che almeno la
morte di Emilio è stata rapida. Spera di non dover soffrire quando sarà il
suo turno. Due guerrieri prendono le
teste e le inchiodano sugli alberi. I cadaveri non vengono castrati: il corpo
offerto agli dei non subisce questo oltraggio. Un guerriero con la corda
sulla spalla si arrampica su un albero. Fa passare la corda su un ramo molto
in alto e poi ne cala le due estremità. Ripete la stessa operazione su altri
due alberi. Prisco sa che una di quelle corde è lo strumento della sua morte,
ma non sa come avverrà. Lo capisce quando un
guerriero afferra una corda e crea un
cappio a un’estremità, poi lo passa intorno alla testa di uno dei tre
prigionieri e lo stringe al collo. Ripete la stessa operazione con Prisco e
con l’altro romano. Ora i prigionieri sono
pronti per essere impiccati. Prisco rabbrividisce. Non è solo l’idea di
morire a spaventarlo: è anche l’agonia che l’attende. Prisco è massiccio e ha
un collo taurino: prima che la corda blocchi completamente il respiro,
soffrirà a lungo. Tre coppie di guerrieri afferrano
l’altra estremità delle corde e issano i soldati. Prisco sente la pressione
della corda aumentare. Non riesce più a immettere aria nei polmoni. Ha un
movimento convulso delle gambe, poi un secondo. Dopo una breve pausa, prende
a dibattersi disperatamente. È cosciente del suo corpo che freneticamente si
muove, delle gambe che scalciano, delle mani che cercano di liberarsi dalla
corda che stringe i polsi. Sa che è tutto inutile, perché la corda si
stringerà sempre di più intorno al suo collo, ma non può controllare questi
movimenti convulsi. Il fuoco divampa nei polmoni, il dolore al collo è
intollerabile. La visione si offusca. Si rende conto di stare perdendo i
sensi. Gli altri due soldati sono
già morti e pendono inerti. Infine anche i movimenti di Prisco rallentano,
dalla bocca spalancata cola la saliva, dal naso il muco, dal buco del culo un
po’ di merda. Il piscio scende abbondante dal cazzo teso allo spasimo, mentre
il movimento sembra arrestarsi e solo le gambe oscillano leggermente. Infine
dalla cappella violacea schizza verso l’alto un getto di sborro. Furio viene offerto agli
dei che assicurano la fertilità dei campi. Viene steso a terra in un terreno
coltivato. Sente contro la testa, la schiena e gli arti il terreno fradicio
d’acqua. I polsi e le caviglie vengono legati a quattro pali conficcati nel
suolo: Furio non può muoversi. Non capisce che cosa vogliono fargli. Vede che
due buoi vengono portati oltre la sua testa. Un uomo si avvicina con un
aratro e lo colloca tra le ginocchia del soldato. Solo quando l’aratro viene
attaccato ai buoi, Furio capisce: l’aratro verrà guidato attraverso il suo
corpo, dividendolo in due. Furio grida, preda di un terrore cieco, ma un uomo
pungola i buoi e l’aratro si mette in modo. L’aratro lo squarcia, dal ventre
al collo, dividendolo in due. Il suo sangue si mescola con l’acqua che
impregna il terreno. Altri tre soldati,
Claudio, Marcello e Giunio, vengono portati in riva al fiume per essere sacrificati
alle divinità delle acque. Non sanno in che modo verranno uccisi, ma hanno
capito che stanno per morire. Hanno le mani legate dietro la schiena e quando
sono sulla riva del fiume, due uomini passano una corda intorno alle
caviglie. Ora sono completamente bloccati. Ci sono tre pioli infissi nel
terreno, a cui vengono legate le corde che bloccano le gambe delle vittime
sacrificali. Un uomo, alto e massiccio,
con strisce colorate sul viso, sul petto e sul ventre, si inginocchia sulla
riva del fiume e pone le mani sulla superficie dell’acqua. Poi si avvicina a
Claudio e senza sforzo lo solleva. Alza le braccia e il prigioniero si trova
in alto, sostenuto da una mano sotto la nuca e una sotto il culo. Il guerriero che lo ha
afferrato entra in acqua, immergendosi fino al petto. Abbassa le braccia e
Claudio si ritrova immerso. Le mani dell’esecutore passano una sul collo e
l’altra sulle gambe della vittima, tenendola sott’acqua. Claudio non può
sfuggire alla presa. Quando cerca di respirare, l’acqua gli riempie la bocca
e scende nei polmoni. Marcello e Giunio vedono le bolle d’aria salire alla
superficie. Sanno che questa è la sorte che li attende. Una fine più rapida
di quella di tanti loro compagni. Non c’è più vita in
Claudio. Il cadavere viene abbandonato, ma la corrente non può trascinarlo
via, perché la corda lo tiene legato al piolo piantato sulla riva. L’operazione viene
ripetuta con altri due prigionieri. Quando l’esecutore esce
dall’acqua, nel fiume ci sono i corpi delle tre vittime, che la corrente
spinge, senza poterli trascinare via: le corde li tengono vicini alla riva. L’ultimo sacrificio è
quello più importante, per cui sono stati scelti quattro soldati valorosi. Randolf lo Sfregiato, che è stato prigioniero
dei romani, spiega ai quattro come avverrà la cerimonia. Si dovranno
affrontare in duello. I due vincitori si affronteranno e il sopravvissuto
sarà sacrificato alle divinità guerriere. Amulio ride, una risata
rabbiosa: - E perché mai dovremmo
combattere per il vostro divertimento? C’è un leggero sorriso sul
volto devastato di Randolf. - Ci sono molti modi di
morire, soldato. Morire in duello è onorevole e rapido. Il tuo corpo non
subirà nessun oltraggio prima della morte. Amulio apre bocca per
replicare, ma Metello gli mette una mano sul braccio. - È inutile, Amulio. Quello
che dice questo figlio di puttana è vero: meglio morire in un duello che fare
la fine di tanti nostri compagni. Amulio annuisce. Metello
ha ragione. La cerimonia si svolge in
una radura nel bosco sacro. I guerrieri hanno formato un ampio cerchio. Ai
limiti della radura è stata drizzata una struttura di legno: quattro pali
verticali, due per parte, sostengono un altro palo disposto in orizzontale. I quattro soldati che
devono affrontarsi sono nudi. I primi due sono Amulio e
Sabino. Un sacerdote dà loro le spade. Sabino afferra l’arma. Vorrebbe usarla
contro il sacerdote, contro i guerrieri, ma non ha senso. Sabino è un uomo forte e
coraggioso, nonostante la giovane età, ma non ha l’esperienza di
combattimento di Amulio, un veterano che da vent’anni combatte. E non ne ha
nemmeno la forza erculea. Il combattimento ha presto fine: con una finta
Amulio porta Sabino a scoprirsi e immerge la sua spada nel fegato dell’avversario,
che crolla in ginocchio. Amulio gli trapassa il cuore. Amulio guarda il cadavere
del compagno steso a terra: è morto in fretta, senza soffrire. Due uomini prendono il
corpo di Sabino e lo appendono per i piedi alla struttura posta ai margini
della radura. Tocca a Metello e Vibio.
Il loro è un duello più equilibrato: i due soldati, uno della Gallia Narbonese,
l’altro della Gallia Cisalpina, sono entrambi forti e abili nel maneggiare la
spada. A Metello però ripugna l’idea di uccidere un compagno. Si difende, ma
negli attacchi non è sufficientemente determinato. A un certo punto si dice
che è inutile trascinare questo duello: sposta leggermente la spada,
scoprendo il petto. Con un movimento rapido Vibio immerge l’arma nel ventre
di Metello, fino a che la lama esce dalla schiena, poi la ritira e gli
trapassa il cuore. Infine è il turno dei due
vincitori, Amulio e Vibio, di affrontarsi. Vibio parte all’attacco, incalzando
Amulio, che arretra, salta di lato e poi guizza di nuovo indietro. Amulio ha
visto combattere Vibio e ha capito che il suo avversario è irruente e poco
prudente. Cede terreno, sapendo che Vibio si scaglierà su di lui con
rinnovata foga e facilmente si scoprirà. Così accade. Vibio si lancia su di
lui con impeto, ma la reazione del suo avversario lo coglie di sorpresa:
invece di arretrare, Amulio fa un passo avanti e devia la spada del suo
antagonista, poi, con un movimento rapido, infila la spada nel petto di
Vibio, subito sotto lo sterno. Amulio ritira la spada e
Vibio cade in ginocchio. Alza la testa a guardare Amulio e gli sorride: sanno
entrambi che la morte sta per prenderli. Amulio solleva la spada e con un
fendente deciso quasi decapita Vibio. Un getto di sangue sgorga dal collo,
altro sangue scende dalla bocca e Vibio ricade inerte al suolo. Anche il corpo di Vibio viene
appeso a testa in giù, accanto agli altri due. Un sacerdote si avvicina con
il coltello e castra i tre cadaveri. Amulio si chiede quale
sarà la sua sorte. Sa, senza nessuna ombra di dubbio, che verrà ucciso. Sarà una
fine rapida o una morte atroce? Prima di morire sarà anche lui castrato? Lo
fotteranno, come hanno fatto a tanti dei suoi compagni? Due guerrieri gli legano
le mani davanti e lo conducono verso una seconda radura, dove i germani hanno
eretto un altare al centro di un cerchio di pali. Amulio vede che l’altare è
formato da una catasta di teste: quelle dei soldati romani prigionieri che
sono stati decapitati. Amulio si ferma, pietrificato dall’orrore. I due
guerrieri che lo accompagnano lo spingono. Avvicinandosi, Amulio si rende
conto che nelle bocche di queste teste sono stati infilati i cazzi e i
coglioni dei morti: castrati e poi decapitati. Le teste sono quelle degli
ufficiali. Amulio ne conosceva alcuni. Nella bocca di Aulo vede due cazzi, da
quella di Barbio ne spuntano tre. Altre teste, anch’esse con i genitali in
bocca, sono infilzate su tutti i pali disposti intorno all’altare. Amulio sente un conato di
vomito, ma lo soffoca. Lo fanno distendere
sull’altare di teste. Un sacerdote si mette di fianco, alza la lama e la cala
con forza sul collo di Amulio: la morte è rapida, il dolore solo un attimo. Quattro uomini prendono il
cadavere di Amulio e lo sollevano sopra le loro teste. Sostenendolo per le
braccia, le cosce e le gambe, si avviano verso la palude. Altri quattro
guerrieri li seguono, portando un pesante graticcio di legno. Giungono a un’area dove il
terreno sabbioso inghiotte chi vi si avventura. Con cautela depongono il
corpo sulla sabbia intrisa di fango. I guerrieri appoggiano il graticcio sul
cadavere, che lentamente affonda. In silenzio i sacerdoti e i guerrieri
guardano il terreno inghiottire il soldato romano. Quando infine il corpo non
è più visibile, tutti si allontanano: gli dei hanno accettato il sacrificio
offerto loro. Dopo i riti sacrificali,
le diverse tribù si separano e tornano ognuna alla propria terra, con i
prigionieri assegnati loro: serviranno come schiavi o verranno liberati in
cambio di un riscatto. Alcuni saranno sacrificati nel territorio della tribù.
Molti guerrieri portano
con sé le teste dei nemici uccisi, per infilarle su pali davanti alle loro
abitazioni. Sindulf aggiunge le teste di Mario, di altri due
soldati e di Vandric alle dieci che già sono
davanti alla sua casa. Il giorno seguente si alza
poco dopo l’alba. Dalla porta della capanna osserva il cielo: non piove più,
ma ci sono ancora parecchie nuvole scure, che i raggi del primo sole
incendiano. Sindulf si gratta il petto villoso, poi
esce e raggiunge i pali su cui sono state piantate le ultime teste. Sorride e piscia sul capo
di Vandric e su quelli dei tre soldati romani. Lo
farà ogni mattina. Quando ha finito, guarda le teste roride di piscio, le
goccioline che dai capelli e dalla barba si staccano e cade a terra. Ride,
soddisfatto. |