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   Il duello degli eredi 
 Dall’alto della scogliera Caleb
  guardava il sole che sprofondava nel mare. Gli ultimi raggi avevano
  incendiato le nuvole e sembrava che il cielo ardesse. Pensò che era l’ultima volta che
  vedeva tramontare il sole, che quella notte stessa sarebbe morto. Guardò
  sotto di sé la sottile striscia di sabbia, stretta tra la scogliera e il
  mare. Lì avrebbe trovato la morte. Non aveva paura di morire. Fin
  da piccolo era stato abituato ad affrontare la morte. Ma morire per mano di
  Kiang… Ritornò alla tenda. Entrò,
  senza badare alla sentinella che cercava di dirgli qualche cosa. Sotto il
  telo il caldo era ancora soffocante. Caleb uscì immediatamente. Non era in
  grado di rimanere fermo. Sentiva in corpo un’irrequietezza che a tratti
  diveniva rabbia, a tratti disperazione.  Ora che il sole era tramontato,
  il vento caldo che aveva soffiato tutto il giorno si era calmato e il calore
  era meno opprimente. Si allontanò rapidamente, uscì
  dall’accampamento e si diresse verso il bosco fitto che copriva la parte
  superiore del pendio. Si sedette su una radice, nascosto dalla vegetazione e
  dal buio che stava lentamente crescendo intorno a lui. Voleva pensare, ma non ci
  riusciva. Davanti agli occhi aveva sempre l’immagine di Kiang. Sentì una voce. Qualcuno
  parlava molto vicino a lui. - Tu dici che vincerà Kiang? - Kiang è un colosso. Caleb è
  forte e coraggioso, ma Kiang mi sembra invincibile. Un maschio come quello! - Forse hai ragione, ma non
  sottovalutare Caleb. È un grande guerriero. - Secondo me Kiang lo fotte. Le voci si allontanarono. Sì, il soldato aveva ragione.
  Kiang lo avrebbe ucciso. Ma perché Kiang? Perché proprio Kiang!? Caleb ripensò a Kinag, come lo aveva visto a dodici anni. Un colosso, alto
  una spanna più degli altri. Un corpo possente, vera incarnazione della forza.
  Una forza che quella notte, al tramontare della luna, lo avrebbe vinto,
  castrato, inculato e ucciso. Kiang, proprio Kiang! L’uomo da
  cui sarebbe corso per chiedere consiglio, per trovare consolazione e appoggio.
  L’uomo che amava più di ogni altra cosa al mondo. Kiang era stato il suo maestro,
  il suo consigliere, il suo sostegno. Quando suo padre era morto, quattordici
  anni prima, aveva affidato l’allora dodicenne Caleb al cugino. A Caleb aveva
  detto:  - Ti affido a Kiang, perché è
  l’uomo migliore che io conosca. Avrà cura di te come un padre. Così era stato. Kiang era
  stato al suo fianco, gli aveva insegnato a combattere come nessun altro, a
  sopportare le avversità, gli aveva trasmesso la propria generosità e l’aveva
  guidato nella difficile arte di governare. Nessun padre avrebbe potuto essere
  tanto attento e sollecito nei confronti di un figlio quanto Kiang era stato
  nei confronti di Caleb. E Caleb lo aveva amato, amato con tutto se stesso.
  Aveva desiderato quel corpo superbo e quell’anima nobile. Ma non erano mai
  stati amanti, no. Caleb l’aveva desiderato, più volte. Anche adesso il
  pensiero del corpo possente di Kiang 
  era sufficiente ad accendere il suo desiderio. Ma Kiang non aveva mai
  voluto.  E ora lui e Kiang dovevano
  affrontarsi in un duello mortale. Una follia, che nessuno dei due aveva
  previsto.  La legge richiedeva che in
  mancanza sia di eredi diretti, sia di eredi designati dal re precedente, il
  nuovo re sarebbe stato chi avesse vinto e ucciso in duello gli altri rivali
  di sangue reale. La tragedia, del tutto
  inattesa, che aveva colpito la famiglia reale, aveva creato una situazione
  imprevedibile: la frana che sul passo di montagna aveva travolto il re, suo
  fratello e le loro famiglie aveva eliminato tutti gli eredi al trono.
  Rimanevano Caleb e Kiang. E essi dovevano affrontarsi a duello. Uno dei due
  avrebbe dovuto colpire l’altro, castrarlo, violentarlo e poi ucciderlo, in un
  antico rituale di sangue che a Caleb faceva orrore. Kiang lo avrebbe ucciso,
  Kiang, che lui amava, Kiang che lo aveva amato come un figlio. No, era assurdo. Doveva
  parlare con Kiang. Si alzò e si diresse verso
  l’accampamento. Avrebbe parlato a Kiang. Lo avrebbe convinto a lasciar perdere
  quell’assurdo duello.  La tenda di Kiang era
  all’altra estremità dell’accampamento. Le truppe dei due eserciti si erano
  mescolate, come i due principi avevano ordinato: non erano due eserciti,
  erano lo stesso esercito, che l’indomani sarebbe stato al comando di un solo
  uomo, il vincitore. Nella tenda di Kiang le
  torce accese illuminavano la notte. Non appena lo vide, Kiang
  si avvicinò a lui e lo strinse tra le braccia. Quella stretta vigorosa
  sprofondò Caleb nell’angoscia. Lo amava e proprio Kiang lo avrebbe ucciso. - Caleb, finalmente!
  Nessuno sapeva dove eri andato e cominciavo a pensare che non ti avessero
  riferito il mio messaggio. - Mi hai cercato? - Sì, certo, dopo il
  tramonto, ma non c’eri. Non te l’hanno detto? - No, non sono passato
  dalla mia tenda. Sono venuto direttamente qui. Dovevo parlarti.  Tirò un attimo il fiato,
  poi si lanciò: era inutile indugiare. – Questo duello è assurdo,
  Kiang. Kiang lo guardò e sorrise. - Forse. Sì, credo di sì.
  È una di quelle eredità di un passato molto lontano che ci trasciniamo dietro
  forse solo per pigrizia. Farai bene a stabilire una nuova legge. Caleb lo guardò senza
  capire. Kiang parlava come se lui, Caleb, fosse destinato a diventare re.  - Sono contento che tu sia
  d’accordo. Possiamo evitare questo duello fratricida, allora. - No, Caleb, questo non è
  possibile. Se tu diventassi re senza avermi vinto e ucciso, molti
  contesterebbero il tuo valore, non avrebbero fiducia nelle tue capacità. Per
  alcuni potrebbe essere un pretesto per sostenere che la tua ascesa al trono è
  illegittima, un pretesto per cospirare. Tra dieci anni, ben saldo sul trono,
  con il pieno appoggio di tutti, potrai stabilire senza timore che la
  successione dovrà essere regolata da nuove leggi. Le parole di Kiang, quel
  suo insistere sul fatto che Caleb sarebbe diventato il re, diedero fastidio a
  Caleb. Kiang sapeva benissimo che le cose non sarebbero andate così. Lo
  disse. - Kiang, sai benissimo che
  domani sarai tu il vincitore. Nessuno può batterti. - Certo, nessuno può
  battermi. Ma tu mi batterai. Caleb lo guardò senza
  capire. - Caleb, sei tu il re che
  serve per questo paese. Hai la gioventù, la forza e la capacità di muoverti
  in un mondo che cambia. Io sono un relitto del passato. Caleb incominciò ad
  intuire. Per quello Kiang non si preoccupava del duello: perché contava di
  morire. Se Kiang avesse pensato di uccidere Caleb, sarebbe stato angosciato,
  ma aveva in testa ben altro. Kiang proseguì: - Se pensassi di essere il
  re migliore per questo paese, questa notte ti ucciderei. Con la morte nel
  cuore, perché … sai che cosa sei per me, ma ti ucciderei. Ti ucciderei, ti
  castrerei, ti prenderei con la forza e poi farei gettare il tuo cadavere
  nelle latrine, cancellando ogni regalità, ogni dignità umana in te. Come
  richiede il rituale. Kiang lo fissava, serio.
  Caleb non replicò e fu Kiang a proseguire: - Ma il re che serve a
  questo paese sei tu e sarai tu a fare queste cose a me. - Tu sei folle, Kiang. Kiang rise. - Sì, forse. Sono folle. E
  quindi inadatto a regnare. Caleb, so che sarai un grande re. La tua nobiltà
  d’animo, il tuo coraggio, la tua forza, la tua saggezza faranno di te un
  grande re. Caleb esplose, in un urlo
  di rabbia: - Tutte queste doti, le
  hai tu assai più di me. Tu devi regnare! - No, Caleb, tu sei il
  futuro, io il passato. Questo paese ha bisogno di te, non di me. Caleb scosse la testa. - Possiamo dirci addio,
  Caleb. Ti vorrei dire addio così. Si avvicinò a Caleb, lo
  strinse e lo baciò sulla bocca. Caleb sentì che il suo
  corpo si scioglieva in quell’abbraccio, che il suo desiderio saliva tanto
  impetuoso da prorompere. Abbracciò con forza Kiang,
  ricambiò con passione quel bacio, la sua lingua penetrò nella bocca di Kiang,
  poi le sue labbra accolsero la lingua di Kiang. Non ebbe bisogno di chiedere.
  Fu Kiang a dirlo. - Sì, ora possiamo farlo.
  Questa notte quello che mi farai cancellerà tutto questo. Le mani di Kiang stavano
  spogliando Caleb. Grandi mani, forti mani, mani delicate che accarezzavano,
  mani rudi che forzavano la carne, mani potenti. Ancora la bocca di Kiang,
  ancora la lingua e poi i denti, i denti che gli mordevano la spalla.  Caleb cercò di spogliare
  Kiang, ma le sue mani si bloccarono al contatto con quella carne. La
  strinsero, incapaci di lasciare la loro preda. Fu Kiang a finire di
  spogliarsi. Si staccò un attimo da lui e lo guardò: - Sono anni che lo
  desidero. Perché non lo aveva fatto
  prima, allora? Ma la domanda non aveva più senso. Kiang lo stava abbracciando
  e quelle mani forti percorrevano il corpo, stringevano, accarezzavano,
  tormentavano, solleticavano. Furono a terra, un corpo
  contro l’altro, un identico violento desiderio che li accendeva, un carbone
  acceso contro il ventre, le bocche che ora si univano, ora si separavano,
  quando le labbra e i denti di Kiang baciavano e mordevano la carne di Caleb.         Caleb lasciò che Kiang
  guidasse il gioco, fino a che non fu più in grado di reggere. E allora gridò: - Prendimi, Kiang!         Kiang lo voltò e ancora a
  lungo morse e baciò, leccò e succhiò la carne di Caleb, fino a che il palo
  ardente non si affacciò alla porta e entrò trionfante in Caleb, facendolo
  urlare di piacere. Caleb non riusciva più a vedere, a distinguere nulla.
  Sentiva solo il fuoco che gli infiammava le viscere e le ondate di piacere
  che dall’interno del suo corpo dilagavano sempre più forti.  Tutto il suo corpo era
  piacere, piacere puro, anche il dolore di quella spada che gli scavava in
  culo era piacere, anche quelle mani che gli tormentavano il culo erano
  piacere, anche quei denti che affondavano nella sua carne erano piacere.  Gli sembrava di venire in
  continuazione, all’interno di sé, in un orgasmo interminabile, provando un
  piacere che non pensava possibile. Quando il suo seme si sparse, il piacere
  salì ancora, ma quando l’ultimo getto fu uscito, il piacere non ebbe fine,
  continuò a bruciarlo nel culo, fino a che Kiang venne dentro di lui. Rimasero stretti,
  allacciati, recuperando le forze. Chi li avesse visti
  riposare abbracciati, non avrebbe certo pensato che poche ore dopo uno dei
  due avrebbe ucciso l’altro. Kiang uscì da Caleb, che
  avvertì un senso di vuoto, doloroso, al culo. - Alzati, Caleb, è ora che
  tu ritorni alla tua tenda.  Caleb eseguì. Kiang gli
  porse una coppa di vino, piena fino all’orlo. - Bevi. Caleb bevve, poi guardò
  Kiang, guardò l’uomo che amava, per cui avrebbe dato la vita, tutto. Guardò
  l’uomo che doveva uccidere quella notte stessa. - Kiang, è una morte
  orrenda. Tutto il rituale… - Caleb, è quello che
  voglio. Questa è la morte che voglio. Una morte da lottatore, nel rispetto
  delle tradizioni che ho sempre seguito. Lo desidero, realmente. Sai che ho
  sempre creduto nelle nostre tradizioni. Per questo non sarei un buon re,
  sarei troppo rivolto al passato. - La morte, ma … un colpo
  al cuore e basta. La castrazione, la violenza… - No, una morte da lottatore,
  che non gioca solo la vita, ma la sua virilità, la sua dignità. La vita è
  troppo poco. Caleb, la desidero davvero. Da anni l’attendo. E sono contento
  che sia tu a farlo. Kiang sorrise: - La violenza non sarà
  spiacevole, venendo da te. E è bello che siano le tue mani a colpirmi, a
  castrarmi, a soffocarmi. Kiang gli prese le mani e
  le baciò. - Queste mani… Grazie,
  Caleb. E ora vai. Caleb uscì, incapace di
  rispondere. Alla debole luce di uno
  spicchio di luna la grande tenda bianca in cui dormiva appariva spettrale.
  L’indomani mattina le loro due tende sarebbero state smontate e nulla sarebbe
  rimasto di quella loro residenza provvisoria. Il vincitore sarebbe partito
  per stabilirsi nel palazzo reale, al campo sarebbero rimaste le tende dei
  soldati. E il cadavere dello sconfitto, sepolto nella latrina.       Caleb si distese. C’erano ancora alcune ore, ma sapeva che
  non avrebbe dormito. Quando la luna tramontò,
  gli uomini della scorta vennero a prenderlo. Indossavano soltanto la fascia
  che cingeva loro la vita e copriva il sesso e due larghe fasce incrociate sul
  petto, con i colori del loro capitano. Caleb si avviò con loro.
  Sotto i suoi piedi poteva sentire la sabbia umida. Scesero l’ampio sentiero
  che conduceva alla spiaggia, ai piedi della scarpata e giunsero infine al
  luogo in cui si sarebbe tenuto il duello. Quattro bracieri, due ai piedi
  della parete verticale, due in riva al mare, delimitavano uno spazio
  quadrato, in cui si sarebbe svolto il duello. La legna nei bracieri era già
  stata accesa e le fiamme illuminavano lo spazio vuoto. Il vento agitava i
  fuochi e la luce oscillava. I consiglieri si disposero
  sul lato sotto la parete rocciosa. Gli uomini delle due scorte occuparono i
  lati tra la scogliera e il mare, mescolandosi: in ogni fila si alternavano
  gli uomini dei due schieramenti. Appena si furono disposti in fila, si
  sedettero al suolo. Sfilarono le due fasce che portavano e le posarono una a
  destra e una a sinistra. Ora erano tutti uguali. Caleb guardò lo spiazzo.
  Quello era il campo, quel quadrato delimitato dagli uomini e dal mare. Dieci
  passi erano sufficienti per andare da un’estremità all’altra. Più che
  abbastanza per lottare. Più che abbastanza per morire. Dall’altra parte del
  quadrato, dietro la fila di uomini seduti, Kiang aspettava, le braccia
  conserte, il rosso mantello sulle spalle. Come per Caleb, indossava solo il
  mantello e il suo corpo nudo era ben visibile.  Le fiamme illuminavano il
  suo viso, fermo e determinato, il suo torace possente, il grande sesso. Caleb
  si mise all’estremità opposta del campo e rimase immobile. Un rumore metallico diede
  il segnale che tutti aspettavano. Caleb e Kiang si sfilarono i mantelli e
  rimasero nudi. Ad ognuno di loro si avvicinò un inserviente, che versò olio
  sulle spalle e poi cominciò a passare le mani sul corpo, fino a che entrambi furono
  coperti da una patina che luccicava alla luce delle fiamme.  Entrambi si diressero fino
  in riva al mare, in modo da entrare nello spiazzo senza passare tra gli
  uomini. Poi fecero quattro passi verso il centro e si trovarono a poca
  distanza. Si volsero l’uno verso l’altro. Un servitore portò su un cuscino i
  due pugnali. Erano corti, ma le loro lame erano larghe. Il servitore tese il
  braccio, in modo che il cuscino si trovasse esattamente a metà strada tra i
  due contendenti. Ad un nuovo colpo, i due rivali tesero il braccio e afferrarono
  il pugnale. Il servitore scivolò via. Caleb guardò il grande
  corpo di Kiang. Un terzo colpo risuonò e immediatamente
  cominciò il battito dei tamburi. Intenso, continuo, martellante. Sarebbe
  continuato fino alla morte di uno di loro.  Kiang era davanti a lui,
  il pugnale saldamente impugnato, il viso concentrato non lasciava trasparire
  nessuna emozione. Caleb si sentiva
  paralizzato, incapace di muoversi, di attaccare. Fu Kiang a muoversi,
  balzando in avanti. Prima che Caleb avesse fatto in tempo a reagire, un
  violento colpo di piede lo prese al torace e lo lanciò a terra. Vide Kiang
  slanciarsi su di lui con il pugnale sollevato e con un guizzo rotolò lontano
  e si rialzò. Il colpo lo aveva
  stordito. Kiang faceva sul serio. No, non faceva sul serio. Se avesse fatto
  davvero sul serio, lo avrebbe colpito più forte e lo avrebbe trafitto al
  suolo. Ma Kiang era intenzionato a lottare sul serio. Tutti dovevano credere
  che Kiang stesse lottando per la vittoria. Ora erano nuovamente
  vicini, leggermente curvi sulle gambe piegate, per tenere il torso più
  lontano dalla lama dell’avversario e essere pronti a slanciarsi. Kiang parlò. Sussurrava
  appena, in modo che nessuno potesse sentirlo. - Eri poco concentrato,
  Caleb. Devi stare più attento. Caleb annuì. Gli sembrava
  di essere tornato ragazzo, di essere, come dieci anni prima, il giovanotto
  inesperto a cui il gigante barbuto insegnava la lotta. Ora il giovanotto era
  un uomo dalle spalle larghe e la muscolatura possente, che avrebbe battuto
  qualunque avversario in un confronto. Qualunque, tranne il colosso che aveva
  di fronte. Kiang attaccava e Caleb
  schivava i colpi e arretrava. - Stai andando troppo
  indietro. Non devi arretrare. Attacca, deciso. Sì, lo sapeva che non
  doveva arretrare, ma gli sembrava di non essere capace di reagire. Eseguì
  l’ordine di Kiang, come avrebbe fatto in un’esercitazione, in uno dei duelli
  che avevano fatto insieme infinite volte, con i pugnali di legno o con
  pugnali veri, ma attenti tutti e due a non colpire. Kiang arretrò di due passi
  davanti al suo attacco, ma con un gesto rapido gli afferrò il polso destro,
  bloccandolo. Ci fu un mormorio tra gli uomini che assistevano. Tutti sapevano
  che la presa di Kiang era una morsa da cui non si sfuggiva. Kiang vibrò un fendente,
  ma Caleb lo schivò senza difficoltà. Kiang non era stato abbastanza veloce,
  non aveva approfittato della sorpresa di Caleb.  - Devi colpirmi, con un
  calcio. Muoviti. Caleb annuì alla frase
  sussurrata tra i denti stretti. Lo sapeva anche lui, che doveva liberarsi
  dalla stretta. Kiang vibrò un secondo fendente, che quasi lo raggiunse.
  D’istinto Caleb alzò la gamba e colpì Kiang con forza. Kiang cadde
  all’indietro, ma non mollò la presa: finirono entrambi a terra e a Caleb fu
  molto evidente che se solo avesse voluto, Kiang lo avrebbe fatto cadere sul
  suo pugnale, mettendo fine al duello.  Rotolarono avvinghiati
  sulla sabbia, senza mollare il pugnale, ognuno bloccando il polso dell’altro.
  Kiang era sotto e una morsa d’acciaio teneva la lama di Caleb ben lontana da
  lui. I loro corpi aderivano e un violento desiderio si impadronì di Caleb.
  Ogni movimento non faceva che attizzarlo. Sentiva la pelle unta d’olio sotto
  la sua, la sabbia che aderiva all’olio e sfregava contro la sua pelle.
  L’odore di sudore di quel corpo gli accendeva i sensi. Avrebbe voluto gettare
  il pugnale e baciare la bocca di Kiang, quelle labbra socchiuse così vicine
  al suo viso. Un guizzo sotto il suo
  ventre, la coscienza di una massa calda e rigida che cresceva  e premeva contro il suo corpo, gli tolse
  ogni lucidità. Kiang reagì e si sollevò da terra, senza che Caleb potesse
  opporsi. Poi lo colpì con un calcio, obbligandolo a lasciare la presa e
  liberandolo dalla sua stretta. Ora erano di nuovo uno di
  fronte all’altro, ansimanti e sudati. La sabbia aveva aderito al loro corpo
  in diversi punti e ora non sarebbe più stato così facile sfuggire alla presa
  dell’avversario. Caleb vedeva davanti a sé
  la grande asta turgida di Kiang, che proiettava una lunga ombra scura sul suo
  ventre. Era normale, in duelli di quel genere, ma quella vista lo turbava.
  Poche ore prima quell’asta era entrata in lui, dandogli un piacere di
  un’intensità che non aveva mai provato, che non avrebbe provato mai più. Kiang lo prese di
  sorpresa. Gli fu addosso prima che Caleb fosse in grado di reagire. La lama
  stava per affondargli nella carne, quando Kiang piegò il polso. Caleb sentì
  la lama strisciare sul suo ventre, aprendo una ferita superficiale. L’urlo
  della folla si spense subito, quando videro Caleb guizzare indietro e solo un
  rivolo di sangue colargli tra i peli. Sentì la voce rabbiosa di
  Kiang sibilargli: - Merda, Caleb, non devi
  abbassare la guardia. Non stiamo giocando. Non è un gioco, questo. Non era stata distrazione.
  Qualche cosa in lui lo bloccava. Non poteva farlo. Ora aveva capito. Non
  voleva farlo. Non voleva uccidere Kiang. Sarebbe stato Kiang ad ucciderlo,
  com’era giusto.  Ora che aveva formulato il
  pensiero, sentì sciogliersi il nodo di angoscia che lo stringeva. Sì, quella
  era la soluzione migliore. Kiang avrebbe vinto e avrebbe fatto di lui quello
  che voleva. Al pensiero che Kiang lo avrebbe penetrato, che quell’asta
  grandiosa sarebbe entrata ancora una volta dentro di lui, Caleb sorrise.
  Valeva la pena di morire per quello. Kiang gli lanciò
  un’occhiata penetrante e Caleb indietreggiò, confuso. Gli sembrò che Kiang
  gli avesse letto in testa.  Kiang cominciò ad
  incalzarlo, vibrando la lama in fendenti che lo sfioravano. Non poteva
  continuare a lungo così, fingendo. Prima o poi uno dei suoi attacchi sarebbe
  andato a segno. Prima o poi quella lama sarebbe entrata nella carne che la
  aspettava. Kiang avanzò con un balzo
  e d’istinto Caleb reagì ponendo la destra con il coltello davanti al ventre,
  per parare il colpo. Kiang gli fu addosso. Ci fu un rumore sordo, che il
  rullio dei tamburi non coprì. Concentrato nel parare
  l’attacco, disorientato dalla rapida manovra di Kiang, Caleb non capì, fino a
  che l’urlo degli uomini  e la
  sensazione di un liquido caldo sulla mano non lo spinsero ad abbassare gli
  occhi. Il suo corpo gettava una grande ombra su quello di Kiang, ad una
  spanna dal suo, ma non ebbe difficoltà a vedere la propria mano appoggiata
  sul ventre di Kiang, all’altezza dell’ombelico. Solo la mano. Il coltello non
  si vedeva più, immerso com’era completamente nella carne di Kiang. Kiang si era infilzato sul
  suo pugnale, deliberatamente, certo che nessuno avrebbe potuto vedere la
  manovra nella mischia confusa, in cui i movimenti troppo veloci e le ombre
  proiettate dai loro corpi impedivano agli spettatori di comprendere
  pienamente ciò che stava avvenendo. La folla aveva creduto ad un movimento
  rapido di Caleb, che Kiang non aveva saputo prevenire. Kiang sorrise. Aveva
  ottenuto ciò che voleva. - Ora non hai scampo. Un
  secondo colpo, più sotto, deciso, tutti ci guardano. La mano di Kiang forzò la
  sua ad estrarre il pugnale dalla ferita, poi l’abbassò e la guidò, con forza
  e decisione, in un secondo colpo. La lama si immerse nuovamente nel ventre,
  sotto lo squarcio da cui il sangue sgorgava abbondante, e sfiorò la grande
  asta, ancora più tesa. La folla doveva pensare che Kiang cercasse di bloccare
  la mano di Caleb, ma non avesse più la forza per farlo. Un nuovo urlo
  accompagnò il colpo. Un urlo di incoraggiamento. Il duello era concluso. Questa volta sul viso di
  Kiang apparve una smorfia. Lasciò cadere il coltello, vacillò. Era realtà?
  Fingeva? Non era importante. Kiang stava morendo.  Nella voce ora Caleb
  avvertì lo spasimo di una sofferenza, ma anche una tensione diversa. Sulla
  bocca aleggiava un sorriso. - Ancora. La mano che guidava la sua
  ora era meno ferrea, ma Caleb non era più riluttante. Kiang aveva raggiunto
  il suo scopo, la sua agonia era ormai incominciata. Quello che Caleb poteva
  fare per Kiang era solo finirlo, il più in fretta possibile. La mano di Kiang
  spostò la sua verso sinistra, in basso. Caleb spinse con tutte le sue forze,
  fino a che la lama scomparve nel ventre, nell’intrico più denso di peli neri
  subito a lato dell’asta tesa. Kiang aprì la bocca in un
  mugolio. Un mugolio di dolore. Non solo di dolore. Dalle ferite il sangue
  scendeva copioso, ma dall’asta saettò in alto un fiotto intenso, che luccicò
  alla luce della fiamme. Quell’odore di uomo moltiplicò il desiderio di Caleb,
  che ancora teneva la lama immersa nel ventre di Kiang. Sentì il getto
  scendere sul suo corpo. Pensò che Kiang stava venendo per l’ultima volta. La bocca di Kiang era
  aperta e Caleb non avrebbe saputo dire se nella sua smorfia c’era più
  sofferenza o più piacere. Kiang lo guardò, come se
  lentamente riemergesse da un gorgo e solo ora lo vedesse. La sua voce era
  decisa, non lasciava trapelare lo spasimo. - Castrami. Da sotto.
  Muoviti. Caleb capì. Strinse i
  denti, estrasse la lama, abbassò la mano e con un colpo secco la immerse da
  sotto, recidendo con un unico movimento la grande asta da cui era uscito
  l’ultimo spruzzo. Un nuovo urlo degli spettatori, che non potevano vedere, ma
  avevano intuito, coprì il suono dei tamburi, mentre Caleb afferrava i
  testicoli di Kiang e, movendo la lama a destra e a sinistra, completava
  l’opera. - Sollevalo. Fallo vedere. Sì, doveva farlo. Mostrare
  il trofeo del nemico vinto, ormai non più maschio. Dimostrare agli uomini che
  aspettavano che il duello era davvero concluso, perché oramai in campo
  rimaneva solo più un uomo.  Caleb alzò il suo trofeo,
  mostrandolo alla folla, che rispose con un nuovo urlo. Gli uomini erano ebbri
  di sangue.  Sentì il corpo di Kiang
  che si appoggiava contro il suo come se non avesse più forze. Forse non era
  una finta, questa volta. L’ultimo colpo aveva spezzato il nerbo d’acciaio di
  quell’uomo. - Ora fottimi. Addio,
  Caleb, grazie. Caleb lo respinse con
  entrambe le mani che ancora stringevano il pugnale e il trofeo. Kiang cadde
  in ginocchio. Con una ginocchiata in faccia, Caleb lo fece cadere indietro,
  steso sul suolo. Poi gettò a terra il pugnale e il trofeo e si avvicinò al
  corpo. Lo guardò. Ora che il corpo era disteso sulla sabbia, la luce delle
  fiamme non lo illuminava per intero e al soffio del vento l’ombra ora si
  allargava, ora si ritirava, mostrando e nascondendo le tre ferite e lo
  squarcio della castrazione. Tra la massa di peli del ventre il sangue era un
  liquido nero che scorreva ininterrottamente. Kiang non sarebbe vissuto ancora
  molto. Anche dal labbro spaccato dal colpo colava un po’ di sangue. Con il piede Caleb fece
  girare il corpo. Sempre con il piede spostò
  le gambe, divaricandole. Guardò i fianchi che gli si offrivano. Un culo
  grosso e peloso. E di colpo un desiderio violento lo assalì. Voleva quel
  culo, voleva affondare il suo cazzo dentro quella carne ancora calda, voleva
  colpirlo come lo aveva colpito prima con il pugnale, infliggergli nuovi
  colpi, una nuova agonia, non meno atroce, per quell’uomo steso sulla sabbia. Era ebbro, lo sapeva. Ebbro
  di sangue, di desiderio, ebbro di dolore. Ebbro del vino che gli aveva fatto
  bere Kiang e che stava facendo effetto e liberando la belva.       Girò su se stesso lentamente, in modo che tutti potessero
  vedere il suo sesso teso, poi si inginocchiò tra le gambe di Kiang, si stese
  su di lui, avvicinò il sesso al grande culo peloso. Divaricò le natiche, e
  cercò l’apertura segreta, per l’ultimo sfregio. Spinse con energia, forzando.
  Desiderava che Kiang sentisse il dolore di quella penetrazione, che l’insulto
  fosse anche doloroso.  Ora i loro due corpi
  aderivano e per un attimo il calore di quel culo gli trasmise una sensazione
  esaltante. Dimenticò tutto, assalito dal desiderio di stringere quel corpo,
  di rotolarsi con Kiang sulla sabbia, di lasciarsi trascinare da un gioco
  violento.  Ma Kiang non esisteva più.
  Kiang era solo un culo che veniva fottuto. Spinse con furore, per cancellare
  l’angoscia che lo assaliva. Venne. Sussurrò a Kiang,
  nell’orecchio. - Anche questo volevi? La sua voce era piena di
  odio. Odio per quel corpo che amava. Non si aspettava una risposta, Kiang
  sembrava non reagire più. La risposta venne.  - Sì, anche questo.  Caleb chiuse gli occhi.
  Avrebbe voluto cancellare il mondo e poter morire con Kiang. Si alzò. Un grande urrà si
  levò dagli uomini seduti davanti a lui. Non capì, ma le urla, che
  continuavano, gli diedero un indizio. Si guardò il sesso. Era tutto
  insanguinato. Non capì. Guardò il culo di Kiang: un rivolo di sangue colava.
  Come era possibile? L’aveva forzato, era vero, ma non era certo così virile
  da provocare profonde ferite. Poi capì: Kiang si era procurato una ferita
  prima del loro duello. Aveva spinto la punta del pugnale attraverso
  l’apertura che Caleb aveva forzato, poi probabilmente aveva messo un tampone.
  Possedendolo, Caleb aveva spostato il tampone e ulteriormente lacerato la
  ferita, che ora sanguinava. La folla ammirava la sua potenza. Kiang aveva
  pensato a tutto, come gli aveva insegnato un tempo: non lasciare nulla al
  caso. Guardò ancora quel corpo
  steso e il sangue sul proprio membro. Avanzò, scavalcando la
  gamba tesa, fino a trovarsi di lato. Voltò di nuovo il corpo, con un colpo di
  piede. Gli sembrava che il suo corpo eseguisse automaticamente, senza un
  intervento della sua volontà. Guardò Kiang, il torace che ancora si sollevava
  e abbassava.  Doveva finirlo. Con le
  mani, come Kiang stesso gli aveva detto. L’ultima prova di forza. Non sarebbe
  stato facile. Quel collo taurino non si sarebbe piegato facilmente. Mise un
  piede oltre il corpo e si sedette sul torace. Avvicinò le mani al collo.
  Quasi una carezza. Kiang appoggiò appena le mani sulle sue braccia, ma non
  aveva più la forza per allontanarle, nemmeno la forza di tenerle sollevate:
  le braccia gli ricaddero al suolo. Caleb piegò le gambe, in
  modo che poggiassero al suolo. Passò le mani intorno al collo, ma non
  riusciva a cingerlo per intero.  Cominciò a stringere, con
  tutte le sue forze. Kiang spalancò appena la
  bocca. I suoi occhi lo fissarono un attimo, poi sembrarono concentrarsi su un
  punto lontano del cielo. E nuovamente sentì il desiderio. Saliva dalle sue
  mani che affondavano nella carne di Kiang, che ne spegnevano il soffio.
  Saliva dal suo culo che poggiava su quel corpo in cui ancora pulsava la vita.
  Saliva dai suoi testicoli, che la fitta peluria del torace stuzzicava. Saliva
  impetuoso e quando l’eccitazione fu così forte da non poter più essere
  contenuta, Caleb si appoggiò in avanti, in modo che il suo sesso potesse
  adagiarsi su quel torace ormai quasi immobile e mentre le mani stringevano sempre
  più forte, il getto sgorgò, sul torace, sul collo, sulle mani di Caleb.
  Strinse ancora, mentre veniva, poi si disse che non era più necessario. Nel viso congestionato di
  Kiang, nella bocca spalancata nell’ultimo tentativo di far entrare ancora
  aria, nelle braccia inerti, non vide più segno di vita. Si alzò e guardò ancora il
  corpo. Un groppo di angoscia risalì dal suo ventre, ma non poteva lasciare
  che venisse alla luce. Lo ricacciò indietro. Pisciò sul cadavere. Non
  sul viso, come Kiang gli aveva detto di fare, nella bocca spalancata, ma sul
  torace. Poi parlò ai soldati che
  ai bordi del campo aspettavano un suo cenno. - Gettatelo nella latrina
  dell’accampamento. Non sarebbe stato
  necessario dirlo, quello era il rituale. Ma il rituale richiedeva che
  l’ordine venisse dato, come se fosse una decisione autonoma. Caleb non aspettò che
  l’ordine venisse eseguito: sapeva che il corpo sarebbe stato portato via solo
  dopo la partenza del re e dei consiglieri. Si voltò e si diresse verso il
  mare. Mentre si immergeva passò un dito sulle gocce biancastre . Portò il
  dito alla bocca. Per la prima e ultima volta sentì il gusto del seme di
  Kiang. Si immerse, lavandosi del sudore, del sangue che lo lordava, dello
  sperma, delle lacrime che nessuna doveva vedere. Quando riemerse e ritornò
  sulla riva, il primo degli Anziani gli porse il mantello e la corona. Caleb
  indossò il mantello e si mise la corona: non c’era altra incoronazione per i
  re di Hrabal, e nessun altro poteva porla sulla
  testa del re. Il primo degli Anziani ne era solo il custode, se non c’era un
  erede designato.  Ora era il re.  Kiang era un cadavere su
  cui i soldati avrebbero pisciato e cagato. Kiang l’aveva voluto.  Ora era il re. Ricacciò il groppo di
  dolore e si avviò verso il cavallo che lo avrebbe portato in città. Caleb, gli Anziani e i
  soldati che li accompagnavano si avviarono, in un corteo festoso che la
  musica dei tamburi accompagnava. Una musica di festa, ora, non il ritmo
  ossessivo che aveva riempito l’aria durante il duello.  I due soldati che tenevano
  i muli attesero che le luci del corteo giungessero in cima alla salita e i
  rumori fossero lontani. Poi si avvicinarono al corpo.  - Era un grande lottatore.
  Non pensavo che finiva così. - Caleb era più forte.
  Kiang non ce l’ha fatta a prenderlo di sorpresa. L’ha appena sfiorato. Gli passarono le cinghie
  intorno alle caviglie e le attaccarono ai due muli. - Sì, Caleb è più forte.
  Hai visto che cazzo? L’aveva pieno di sangue. Non pensavo che l’avesse così
  duro.  - È un vero maschio.  Fustigarono i muli e
  questi cominciarono a muoversi. Il corpo fece un mezzo giro su se stesso,
  mentre le corde si tendevano, poi venne trascinato via. Si misero di fianco
  ai muli e li accompagnarono lungo la salita. - Questo non è più nulla.
  Che fine! Era ricco, potente e ora è un cadavere senza cazzo e senza
  coglioni, su cui pisceremo sopra. L’altro soldato rise. - Sì, e voglio essere il
  primo a farlo. Pisciare sul grande Kiang. - Sarai sempre il secondo.
  Il primo è stato Caleb. - Lui non conta, lui è il
  re. Senti, lo faccio ora. Fermò i muli, tirando le
  redini. Si avvicinarono al corpo
  steso a terra, le gambe un po’ divaricate. Alla luce della torcia potevano
  vedere la sabbia smossa. C’era una striscia di sangue sulla sabbia. - Perde ancora sangue. I due soldati guardarono
  il grande corpo steso ai loro piedi - Beh, non volevi
  pisciargli addosso? - Veramente ho un’altra
  voglia, ora. Pisciargli addosso, lo faranno tutti.  Passò la punta del piede
  sotto il torace e cercò di girare il corpo, ma non ci riuscì. Allora si chinò
  e facendo forza con le mani sollevò su un fianco il cadavere, poi lo spinse,
  in modo da voltarlo. Il corpo ricadde sul ventre, esponendo il dorso. - A questo in culo l’ha
  messo solo il re. E non lo metterà più nessun altro. - Vuoi fottere un morto?
  Sarà già quasi freddo. - No, è caldo. È crepato
  da poco. Il primo soldato era già
  pronto. Allargò un po’ le gambe ed entrò, con decisione. Il re aveva aperto
  la strada e l’aveva rese scivolosa al punto giusto. Il soldato spinse
  vigorosamente e, con una breve successione di spinte più violente, venne. - Mi è quasi sembrato che
  …  Non completò la frase.
  Dopo un attimo il secondo soldato gli chiese: - Che cosa? - No, niente, solo
  un’impressione. Tu non ne approfitti? Il secondo soldato
  sorrise: il membro eretto che gli batteva sul ventre non lasciava dubbi sulle
  sue intenzioni. - L’idea è buona, ma non
  voglio arrivare terzo. - E allora? Il secondo soldato si
  chinò e fece rotolare il corpo sulla schiena.  - Se è pesante! - E allora, che fai? - Gli faccio una fica, poi
  lo fotto. Il soldato allargò le
  gambe di Kiang, poi estrasse il pugnale e con un colpo secco lo immerse nel
  basso ventre, dove si apriva la ferita della castrazione.  Il gemito risuonò alto,
  più alto del rumore della carne lacerata. - Cazzo! È ancora vivo! - Mi era sembrato, prima…
  mentre lo fottevo mi è sembrato che si muoveva. Cazzo!  - Meglio così, preferisco
  fotterlo vivo. Il soldato avvicinò la
  punta del proprio membro alla ferita. L’appoggiò là dove sgorgava il sangue e
  premette. Kiang gemette di nuovo. Il soldato sentì la sua eccitazione
  crescere ancora. Ci diede dentro con forza. Ogni spinta del soldato provocava
  un nuovo gemito di Kiang e il soldato si sentiva sempre più eccitato. Venne
  in fretta e si ritrasse. Gli spiacque non aver goduto più a lungo. - Hai il cazzo pieno di
  sangue. Il soldato alzò le spalle. - Mi lavo dopo. - Se si accorgono che è
  vivo…          - Nessuno può accorgersi.
  Nessuno deve trovarsi lungo la nostra strada, lo sai. Pena la morte. Quando
  ci vedranno arrivare, nessuno potrà avvicinarsi alla latrina, fino a che non
  spegneremo la torcia. - Se parla… - Che cosa vuoi che parli?
  Pensi che vive ancora a lungo? È quasi morto. E prima che arriva un altro,
  sarà morto del tutto. - Vuoi strangolarlo tu,
  dopo che non ce l’ha fatta il re? Il soldato alzò le spalle.         - Inutile. Affogherà nella
  latrina. Degna fine per uno che non è più un uomo. Ora posso pisciargli
  addosso.  L’erezione scompariva e il
  soldato pisciò sul corpo di Kiang. Quando diresse il getto sulla bocca, si
  sentì un gorgoglio. Incitarono i muli e
  ripresero la strada. Arrivati alla latrina, spinsero il corpo sull’orlo della
  vasta buca, piena di piscio e merda. - Pronto, grande Kiang? Il soldato rideva, mentre
  parlava, ma alla luce della torcia vide che Kiang lo fissava e gli sembrò che
  annuisse. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena e con un calcio deciso
  spinse il corpo nella buca.  Piscio e merda schizzarono
  tutt’intorno, toccando anche i piedi dei soldati. Osservarono alcune bolle
  d’aria che salivano alla superficie. Quando non ci furono più bolle, si
  allontanarono. In quel preciso momento,
  sulla spiaggia dove Kiang era stato colpito a morte, dalla parete di roccia,
  a pochi metri dal suolo, si staccò una figura, che fino ad allora non era
  stata visibile. Indossava un mantello con cappuccio, che lo copriva dalla
  testa ai piedi e nessuno avrebbe potuto vederne i tratti. Avanzò fino al
  punto in cui Kiang era caduto a terra. Qui era ancora, abbandonata agli
  animali della notte, la virilità del guerriero che era appena morto.  Una mano con lunghe unghia
  bluastre si protese verso la preda. Le unghie affondarono nella carne, le
  dita si impadronirono del trofeo e la figura silenziosamente scomparve nella
  notte. II Dall’alto della scogliera Caleb
  guardava il sole che sprofondava nel mare. Il cielo era attraversato da
  grandi nubi grigie e nere e la sfera del sole si intravvedeva appena. Caleb sapeva che nella
  notte sarebbe morto. Lì, dove venticinque anni prima aveva ucciso Kiang.
  Sarebbe morto allo stesso modo, in un duello. Avrebbe potuto rifiutare quella
  sfida, affrontare Horun con gli uomini che gli
  erano fedeli. Ma non voleva imporre una guerra fratricida al suo paese. Aveva
  governato a lungo, sconfiggendo i nemici esterni e assicurando pace e
  benessere al paese. Ma Horun
  si era fatto avanti. Era anche lui di stirpe reale, ma all’epoca in cui si
  era decisa la successione, aveva appena tre anni. Caleb avrebbe potuto farlo
  uccidere allora, la legge gliene dava il diritto. Ma non l’aveva fatto. E ora
  Horun si faceva avanti per rivendicare il suo
  diritto al trono, sfidando il re. Poteva farlo, anche se Caleb aveva abolito
  quelle leggi: la successione che rivendicava risaliva a prima dell’abolizione
  delle leggi. Rifiutare il duello
  avrebbe provocato nuove tensioni. Il nord, da sempre restio al dominio
  centrale, aveva fatto di Horun il proprio campione.
  Caleb non intendeva sottrarsi alla sfida, anche se le profezie del grande
  sacerdote annunciavano la sua morte. Gliel’avevano annunciata venticinque
  anni prima, quando era stato incoronato. Horun era forte e giovane, ma Caleb sapeva che
  nessun lottatore aveva l’esperienza che lui aveva maturato con Kiang. Eppure,
  Horun l’avrebbe sconfitto. Non aveva importanza.  No, non era vero. In
  realtà il pensiero di morire dove era morto Kiang, come era morto Kiang, gli
  dava una grande pace. Venticinque anni aveva sofferto per avere ucciso Kiang,
  aveva rimpianto l’uomo che aveva amato. E ora era felice di trovare la morte
  come lui. Caleb rientrò nella sua
  tenda. Quando fu completamente buio, un soldato gli annunciò che un uomo chiedeva
  di parlargli. Non aveva voluto dire il suo nome, ma aveva dato un oggetto,
  avvolto in un panno.  Caleb aprì l’involto e si
  ritrovò in mano un’aquila di lapislazzuli. Il cuore gli diede un salto.
  Conosceva benissimo quell’aquila, anche se non la vedeva da … trentacinque
  anni. Sì, da trentacinque anni. Kiang la portava sempre addosso, intorno al
  collo. Poi, dopo la malattia che aveva condotto Caleb sull’orlo della morte,
  Kiang non l’aveva mai più messa. Non aveva mai voluto dire a Caleb che fine
  avesse fatto.  Caleb diede ordine di fare
  entrare l’uomo. L’uomo aveva il viso
  coperto da un cappuccio e il corpo avvolto il un mantello lungo fino ai
  piedi. Neppure le mani erano visibili. - Chi sei? Perché hai
  quest’aquila?  La voce che gli rispose
  sembrava venire da lontano. - L’aquila me la diede il
  suo proprietario, perché tu mi pagassi l’ultima parte di un prezzo pattuito. - Spiegati. - Kiang mi diede l’aquila,
  perché vedendola tu l’avresti riconosciuta e avresti accettato di pagare
  quanto rimane del prezzo. - Di che prezzo parli? - Di quello della tua
  vita. Caleb rise.  - La mia vita? Se il gran
  sacerdote non sbaglia, e non sbaglia mai, domani la mia vita sarà finita.
  Vuoi dirmi che la profezia è falsa?           - No, non parlo della tua
  vita futura, parlo della vita che hai vissuto. - Della vita che ho
  vissuto? Spiegati. - A sedici anni ti
  ammalasti. Era giunta la tua ora e la morte ti aspettava. Te lo ricordi,
  vero? Caleb annuì. - Io potevo salvarti e lo
  dissi a Kiang. Kiang pagò il prezzo della tua vita.  - Che cosa intendi? - Per salvarti Kiang
  rinunciò a ciò che desiderava sopra ogni altra cosa: ad avere un figlio
  maschio e a possederti. Ti amava tanto da rinunciare ad avere una discendenza
  e da rinunciare persino al tuo corpo, che desiderava follemente. Per questo,
  dopo che tu guaristi, la moglie di Kiang abortì e non ebbe mai più figli. Per
  questo Kiang rinunciò a te.  Caleb guardò l’uomo
  avvolto nel mantello. La storia era perfettamente verosimile. Anzi, era
  l’unica a spiegare perché Kiang non aveva mai accettato l’offerta di sé che
  Caleb gli aveva fatto più volte. - Le rinunce di Kiang non
  erano sufficienti. Dovette ancora darmi la sua virilità, che avrei preso dopo
  la sua morte. Ma c’è ancora un prezzo da pagare. Per questo Kiang mi diede
  l’aquila. Quel prezzo devi pagarlo tu. - E che cosa posso darti
  io, che sto per morire? - Ciò che mi ha dato
  Kiang, dopo la sua morte. Ciò che Horun questa
  notte taglierà con il suo coltello, prima di incularti e ucciderti. - È tutto quello che vuoi?
  Non è molto. Come potrei impedirti di prenderlo? - Voglio che sia tu ad
  attribuirmelo. Non è molto, ma il prezzo l’ha già pagato Kiang. Caleb pensò a Kiang e il
  dolore gli artigliò il cuore. Annuì. - Prenditi quello che vuoi
  e lasciami in pace. L’uomo uscì. Caleb si rese
  conto di avere ancora in mano l’aquila di Kiang. Se la mise al collo. Nudo
  avrebbe dovuto affrontare Horun e la morte, ma
  poteva portare un ornamento.  Sulla spiaggia tutto era
  come venticinque anni prima. Caleb guardava oltre lo spazio
  della lotta, ma non riusciva a vedere distintamente il suo rivale. L’immagine
  stava sfumando. Non capiva che cosa gli stesse succedendo. Poteva vedere
  perfettamente le persone schierate tutt’intorno, ma non Horun. Il duello ebbe inizio e
  l’immagine diventò più nitida, ma era cambiata. Era molto cambiata. Caleb
  rimase un attimo senza fiato. Conosceva quel corpo possente, lo conosceva in
  ogni dettaglio, conosceva quel viso barbuto, quella bocca che ora si apriva
  in un sorriso, conosceva quella voce profonda che ora gli diceva: - Sei cambiato, Caleb,
  molto, ma sei sempre bellissimo. - Kiang, come è possibile? - Combatterai contro di
  me, Caleb, non contro Horun. Ho preso il suo posto,
  anche se tutti gli altri continuano a vedere Horun.
  Conserverà un vago ricordo del duello. - Sarai tu ad uccidermi? - Sì, come tu mi
  uccidesti. Una gioia folle stava
  invadendo Caleb.       - Mi prenderai, come io
  feci con te allora? - Sì, ma questa volta
  combatti davvero.  Caleb annuì. - Non avrai vita facile.
  Dovrai guadagnarti il premio di questo duello. Assunsero entrambi la
  posizione del combattimento, le gambe divaricate, il corpo leggermente
  proteso in avanti, le braccia larghe. Kiang scattò in avanti, ma
  Caleb scartò, evitando il colpo. Allungò invece il braccio, ma la lama sfiorò
  appena la spalla di Kiang. - Bravo, hai reagito bene.
   Caleb annuì. - Non sono una preda
  facile, nemmeno per il grande Kiang, il più forte di tutti i guerrieri. - Vedremo se sono ancora
  il più forte dei guerrieri. Kiang scattò ancora in
  avanti, ma era solo una finta. Mentre Caleb arretrava e alzava il braccio per
  parare il colpo, un calcio di Kiang lo fece cadere a terra. Prima però che
  Kiang fosse su di lui, Caleb rotolò di lato, portandosi a distanza, e si
  rialzò. Guardò Kiang davanti a
  lui, guardò le larghe spalle, guardò la peluria sul petto, il ventre
  prominente, la grande asta tesa, le due sfere perfette. Il desiderio lo
  invadeva, la sua asta non era meno tesa di quella di Kiang, ma non voleva
  perdere la concentrazione. Kiang doveva trovare pane per i suoi denti, questa
  volta. Alzò lo sguardo sul viso di Kiang, quel viso largo, incorniciato dalla
  barba grigia e nera. Lo fissò negli occhi. Sapeva di amarlo come lo amava
  oltre vent’anni prima. Kiang gli sorrise. - Sei ancora più bravo di
  allora, ma non ti basterà.  Caleb scattò in avanti, ma
  Kiang spostò leggermente il corpo e Caleb finì a terra. Kiang gli si avventò
  addosso, ma Caleb guizzò via e in un attimo fu di nuovo in piedi.  Kiang gli si avvicinò e,
  con un gesto rapido, gli bloccò il polso destro con la sinistra: la pelle di
  Caleb era ormai coperta di sabbia e la mano di Kiang poteva far presa. Caleb
  cercò di afferrare la mano di Kiang, ma la sua mano scivolò sulla pelle
  ancora unta d’olio dell’avversario e la lama gli lacerò il palmo. Ora Kiang
  avrebbe potuto colpirlo, ma non lo fece. Con una mossa brusca saltò di lato,
  senza mollare la presa, e passò dietro di lui. Caleb avvertì la tensione del
  braccio destro, che Kiang gli torceva dietro la schiena e il dolore lo forzò
  a lasciar cadere il pugnale.  Caleb sentì l’urlo di
  gioia che saliva dai guerrieri. Il duello era concluso. Con il braccio destro,
  Kiang gli cinse la vita, unendo i loro corpi. Ora Caleb sentiva contro la
  schiena il corpo unto e caldo di Kiang, tra le natiche la grande massa del
  membro teso. Poteva vedere nella mano di Kiang il pugnale, che tra poco
  sarebbe entrato nella sua carne. Non aveva difesa, anche se cercò di
  scrollarsi di dosso Kiang. Non aveva difesa e il calore che sentiva tra i
  fianchi gli toglieva ogni volontà di resistenza. Tra poco Kiang lo avrebbe
  colpito, poi lo avrebbe castrato e infine inculato. Tra poco. Perché
  aspettava? Caleb non aveva difese. Kiang abbassò la mano che
  teneva il pugnale, fino a che toccò la grande asta di Caleb. E allora Caleb
  capì perché Kiang indugiava. Il contatto con quella mano, le dita che
  sfioravano la cappella incandescente, la pressione ancora più forte contro il
  suo culo, accesero l’ultima fiamma: la tensione che saliva dai testicoli si
  scaricò in un getto che salì altissimo, che non smise di salire mentre la
  lama di Kiang penetrava con un colpo secco, fino all’elsa, nella carne, di
  fianco alla base dell’asta vibrante. La lama entrò una seconda volta più in
  alto, a lato della cappella e infine squarciò l’ombelico e solo allora il
  dolore fu più forte del piacere.  Il colpo successivo recise
  il membro e spense il piacere. La mano lavorò in fretta e completò l’opera e,
  mentre Caleb si appoggiava al corpo di Kiang, la mano del suo rivale
  sollevava in alto il trofeo. Caleb si sentì spingere a
  terra. Kiang era su di lui. Un dolore violento tra i fianchi gli strappò un
  gemito, ma le spinte sollevavano in lui ondate di calore e di piacere.  - Addio Caleb, addio,
  amore mio.  Sentì Kiang venire dentro
  di lui, un fiotto che scorreva, scorreva e sembrava non finire mai. Stava
  ancora scorrendo, quando si rese conto che le mani di Kiang gli stavano
  stringendo la gola. Cercò di respirare, ma non riusciva a prendere aria.
  L’ultima sensazione fu quella del calore delle mani di Kiang intorno al suo
  collo, del calore del cazzo di Kiang nel suo culo, del fiotto che ancora
  scorreva dentro di lui.  |